Il poster, logorato dal sole, si tiene attaccato alla rete, nonostante due angoli su quattro svolazzino al vento. Volti. Nomi. È l’elenco delle persone scomparse durante il conflitto del 1999, nel pieno centro di Pristina. Sono giorni di cerimonie, l’anniversario dei bombardamenti Nato su Belgrado, che segnarono l’inizio della fine della guerra e i primi passi di quel cammino che avrebbe portato, nel 2008, alla dichiarazione di indipendenza del Kosovo. Eppure, al di là di un bandierone della Nato, sono scarsi i segni di attenzione all’evento in una Pristina che è molto più rapita dalla partita di qualificazione ai prossimi campionati europei di calcio: il girone è duro, ma la squadra è forte.
In generale, in Kosovo, c’è tutta una generazione di trentenni che con il conflitto ha un rapporto particolare. Guarda avanti, più che indietro. Guarda attorno a sé, alle contraddizioni di un paese giovane e dinamico, ma ancora incapace di ‘andare a vivere da solo’. Le relazioni con la Serbia sono ai minimi storici. Il governo di Belgrado parla di ‘catastrofe umanitaria’ per i comuni a maggioranza serba del Kosovo settentrionale. A luglio i commercianti hanno organizzato una serrata per protestare contro i dazi doganali sulle merci provenienti dalla Serbia deciso da Pristina e, per il momento, la negoziazione dell’Ue – su tutti i fronti – non dà i risultati sperati, lasciando nella malinconia dei visti per l’espatrio kosovari, albanesi o serbi che siano. Le dimissioni dell’ex primo ministro Ramush Haradinaj, già sottoposto a processo per crimini di guerra, hanno inoltre aperto a una grave crisi politica in Kosovo, almeno quanto la contestazione al governo di Vucic a Belgrado, dove migliaia di persone sono scese in piazza senza riuscire ad esprimere un’opposizione credibile. (…)
ph. Il polo universitario di Pristina, che sorge lungo il Bulevard Bill Clinton, una delle arterie principali che attraversano la città
L’articolo completo è pubblicato su Reportage n. 40 acquistabile qui in cartaceo e in versione digitale