Messico, Lydia e la sua guerra anti-tratta | di Gabriella Saba

Uno dei cani lo hanno freddato con un colpo di pistola, l’altro lo hanno avvelenato. Poi hanno saccheggiato la casa, rubato computer e camere fotografiche, strappato vecchie foto di famiglia, fatto a brandelli la biancheria intima. Quello spettrale campo di battaglia ha accolto Lydia Cacho quando è tornata a casa, alle 18,30 del 21 agosto scorso, e benché fosse abituata alle minacce e anzi proprio per quel motivo, le è stato chiaro che non si trattava solo di un gesto intimidatorio ma che l’obiettivo era lei: la giornalista più famosa del Messico e una delle più agguerrite e coraggiose, sotto minaccia di morte da quattordici anni, perseguitata in qualche caso dalle stesse autorità, colluse o compiacenti con i criminali che ha denunciato nei suoi esplosivi libri-inchiesta, e con i loro sodali. Ha dovuto persino lasciare il paese, quando il livello di pericolo è diventato troppo alto, però non ha aspettato che la situazione si tranquillizzasse per tornare. Nel 2012 era di nuovo a Cancún, da cui realizza le sue inchieste e in cui dirige il centro Ciam (Centro Integral de Atención a las Mujeres) che ha fondato nel Duemila per recuperare le ragazze vittime di tratta e sfruttate sessualmente. Se la minacciano di morte e hanno cercato di fermarla in tutti i modi è proprio per le sue indagini su quel tema, a cui ha dedicato gran parte delle sue energie e alcuni dei suoi quattordici libri tra cui Los Demonios del Edén, pubblicato nel 2004 ed Esclavas del Poder. Un Viaje al corazón de la trata sexual de mujeres y niñas en el mundo, nel 2010: inchiesta che per cinque anni l’ha portata in 46 paesi alla ricerca delle due facce del problema, quella dei fruitori e quella dei tratantes e in cui ha scoperto molte cose, spesso infiltrandosi e travestendosi, per esempio da suora. Il fatto è che il Messico è il secondo paese al mondo dopo la Thailandia per dimensioni della tratta e il settanta per cento dei clienti sono locali, il resto arriva dal cosiddetto mondo avanzato: Europa e Stati Uniti, i cui turisti sessuali non andrebbero a letto con una dodicenne nella propria terra ma non esitano a farlo in quello che considerano terzo mondo, una colonia. La guerra di Lydia Cacho contro la tratta e lo sfruttamento sessuale non è per niente facile, è frustrante, si scontra con i poteri forti, con la politica collusa, con il potere. Con giudici compiacenti o apatici, con il silenzio del media. Una intervista che la  potente televisione Tv Azteca fece alla giornalista non venne mai trasmessa. Le dissero che, riflettendoci, avevano capito che non era il caso. In un programma sul gigante Televisa dove si trasmetteva una premiazione giornalistica in cui la Cacho era tra i giurati non venne mai inquadrata dalle telecamere, l’unica della giuria. A volte la invitano salvo chiamare all’ultimo momento per dirle che ci dispiace, non c’è uno studio di registrazione libero. Escluderla non possono, è una firma internazionale e vincitrice di molti premi di giornalismo e attivismo come il Premio al Coraje Civil, il premio Guillermo Cano a la Libertad de Prensa, el World Press Freedom Hero e quello dell’Instituto Internacional de Prensa. Guest star di tutti i convegni più importanti sulla sua professione, è emblema di coraggio ma anche di umiltà. “Mi sembra vitale che la gente sappia che quello che faccio io lo può fare chiunque con un po’ di preperazione e di determinazione. Sono una donna qualunque”. Tornando ai libri. La fama le arrivò con il già citato Los Demonios del Edén, racconto del traffico di ragazzine in Messico e della spaventosa rete di sfruttamento e collusioni che faceva capo a miliardario imprenditore libanese Succar Kuri, che grazie alle denuce della giornalista sta scontando in un carcere messicano una pena a 102 anni per aver violentato un centinaio di bambini e bambini in un decennio. Nel suo lavoro capillare di ricostruzione, che ha realizzato attraverso decine di testimonianze delle ragazze coinvolte, Cacho parla delle amicizie di Kuri e dei potenti che lo proteggevano come il governatore di Puebla Mario Plutarco Marín e l’imprenditore Kamel Nacif, il potentissimo re del denim che, nei due faccia a faccia con la giornalista in aula, l’aveva minacciata nella totale indifferenza del giudice. A libro pubblicato, Nacif  aveva denunciato Cacho per diffamazione, e qualche settimana dopo una ventina di poliziotti l’avevano arrestata per ordine della Procuraduría Justicia del Estado de Puebla davanti al Ciam manco fosse un boss del narcotraffico, l’avevano caricata in auto e poi portata fino alla Procura di Puebla, un viaggio di 24 ore in cui le avevano dato una sola volta da mangiare e minacciata ficcandole per esempio una pistola in bocca e avvisandola che al primo colpo di tosse avrebbero sparato. Probabilmente deve al fatto che fosse già famosa se la rilasciarono quasi subito, anziché rinchiuderla come previsto nella cella delle detenute più violente, sicuri che l’avrebbero picchiata e violentata. Che si trattasse di una operazione concertata e di rappresaglia fu evidente quando venne diffusa la registrazione di una telefonata in cui Nacif si congratulava per l’arresto con il governatore di Puebla chiamandolo “Mi precioso gober” e dove entrambi si riferivano alla Cacho in termini minacciosi, irridendola e offendendola. La telefonata scosse il paese, qualcuno chiese l’impeachment del governatore, un pezzo grosso del Pri, l’allora partito al governo e tristemente noto per il livello di corruzione, ma finì che tutti restarono impuniti. Soltanto nel gennaio di quest’anno il governo federale guidato dall’estate scorsa da Andrés Manuel López Obrador le ha chiesto scusa ufficialmente per la violenza subita, quattro mesi dopo la Fiscalia para la Atención de Delitos contra la Libertad de Expresión (FEADLE) ha ordinato l’arresto di Marín, Nacif e altri funzionari della procura di Puebla. Il saccheggio dell’appartamento della Cacho suona come reazione alle denunce della donna e l’ennesimo modo per intimidirla, fosse una che si lascia intimidire. Qualche ora dopo il saccheggio della sua casa ha scritto sul suo account twitter: “Ci possono provare finché vogliono a fermarmi ma non smetterò mai di indagare. La paura non colonizzerà il mio spirito. Sono giornalista, femminista e difensora dei diritti umani”. Fa molti molti passi avanti e molti indietro, un altro si sarebbe scoraggiato. Non è soltanto la difficoltà di assicurare i colpevoli alla giustizia. Per una ragazza che riesce a strappare alla prostituzione e reinserire ce ne sono dieci che tornano all’illegalità, per le pressioni e i ricatti, e le minacce a loro e ai familiari. Ogni ragazza ha la sua storia e anche se ognuna è un caso a sé in qualche modo si somigliano: erano adolescenti povere quando una donna le ha avvicinate e poi convinte a entrare nel giro, in genere si innamorano del ragazzo che ingenuamente sognano di sposare ma invece quell’uomo le picchia e le costringe a prostituirsi con venti clienti al giorno, e se qualcuna cerca di scappare le picchia e sequestra i figli nati da relazioni occasionali e senza affetto come nel caso di Karina, che ha rivisto le due bambine dopo sei mesi che le erano state portate via e ha scoperto che la più piccola, di cinque anni, era stata violentata. Le storie di violenza e abusi sulle ragazzine sono spaventose. Insieme a quelle di manipolazioni, di annullamento della personalità fino a convincerle che quello che succede è colpa loro, che sono delle piccole puttane.  Come è possibile che tanti “bravi” padri di famiglia siano coinvolti in quel giro? Nessuno sa con certezza quanti siano, salvo che sono moltissimi e spesso intoccabili, e anche sulle vittime i numeri sono incerti: dai 20 mila a mezzo milione. Non solo Lydia non si fa prendere dallo sconforto, ma è un tipo allegro, con un gran senso dell’umorismo e la passione per il ballo. Ha un compagno e poca privacy: una scorta di tre persone la segue ovunque e lei la vive con fatica. A 56 anni, ha un viso bellissimo e grandi occhi scuri che ti guardano dentro. Non sembra una persona pessimista, amareggiata, con tutto quello che ha passato. Nel 1999 l’hanno picchiata e violentata in un bagno della stazione dell’autobus, qualche anno dopo le hanno sabotato l’auto in cui viaggiava con la scorta e l’ha scampata per miracolo. C’erano testimoni del fatto che la ruota fosse stata manomessa, dichiarazioni di periti. Eppure, nemmeno in quell’occasione le autorità l’hanno aiutata o spalleggiata, anzi: dopo la sua denuncia una citazione giudiziaria le imponeva di sottoporsi a una perizia psichiatrica per accertare non fosse mitomane. Della violenza che ha subito ha scritto nella sua rubrica su un giornale che teneva ai tempi. “Non posso pretendere che altre raccontino gli abusi di cui sono vittime se non lo faccio io”, aveva detto dopo lo stupro. Non fa che perdere fiducia, e riacquistarla. 

 

 

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