Nei campi di Pol Pot il “turismo dell’orrore” è stato un fallimento – testo di Emanuele Giordana

Nella piazza centrale di Along Veng, nel nord della Cambogia, campeggia un monumento recente con una colomba di cemento bianco e le ali aperte. È un dono di Hun Sen, primo ministro cambogiano da oltre trent’anni, alla città che è stata l’ultimo baluardo dei Khmer rossi e dove aveva la sua residenza personale Pol Pot, il “Fratello Numero Uno”. Along Veng è un nome chiave nella geografia della resistenza all’invasione vietnamita del dicembre del 1978 che chiuse in poco tempo la parentesi del governo del terrore durato tre anni, otto mesi e venti giorni. Along Veng, come Pailin – la sede dell’ultimo governo khmer rosso – o Preah Vihear, il tempio dove si arroccarono per l’ultima inutile difesa, sono i luoghi che abbiamo sentito raccontare nelle cronache seguite allo sterminio cambogiano che vide sparire quasi un quarto degli abitanti del Paese. Obbligati a un esodo forzato dalle città per andare a lavorare nei campi dove spesso morivano di inedia, malattie e giustizia sommaria. Sono i luoghi dell’ultima avventura politica del gruppo dirigente che aveva comunque saputo, con abilità politica, sopravvivere alla sua disfatta: spalleggiato dai cinesi, dall’acquiescenza occidentale e dalla solidarietà “pelosa” della Thailandia lungo il cui confine si organizzarono le sacche di resistenza e il contrabbando che per altri dieci anni tennero in vita il regime moribondo di Pol Pot.

Arrivare ad Along Veng non è facile. In Cambogia i mezzi pubblici sono un’opzione rara e quelli privati – corriere o minibus – partono solo quando sono pieni. La remota provincia di Oddar Méanchey è peraltro la più povera del Paese. Il paesaggio delle aree pianeggianti è punteggiato da un’agricoltura arretrata che brucia ancora la vegetazione spontanea per concimare i terreni. (…)

 

 

Il servizio completo è pubblicato su Reportage n°38, acquistabile qui in cartaceo e in versione digitale

 

ph. Una guida cambogiana spiega ai turisti la foto di una tortura nella stessa stanza delle torture del Museo del Genocidio a Phnom Penh (foto: Tang Chhin Sothy/ Getty Images)

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