All’esterno l’edificio è protetto da una lunga fila di piloni di cemento, come tanti altri obiettivi sensibili in città. Le auto vengono fermate e controllate dentro e fuori per verificare che non trasportino materiale esplosivo e, soltanto alla fine delle operazioni, possono parcheggiare in uno spiazzo dove compongono una sorta di puzzle. Superato a piedi il secondo ingresso, delimitato da una nuova barriera anti-sfondamento alta quanto la prima, si arriva in un cortile che separa il palazzo da una piccola costruzione circondata da piante rampicanti tra le quali si intravede anche una voliera. Falah Al Tahabi, un reporter nato e cresciuto a Sadr City, è da anni nel mirino di Al Qaeda e deve vivere blindato. Oggi dirige un canale all news, ma ha lavorato a lungo per le strade di Baghdad e nel nord del Paese: “Purtroppo ora mi sposto difficilmente per ragioni di sicurezza. Diciamo che comunque ho delle buone fonti. Mi chiamano persino i politici per avere aggiornamenti sui fatti del giorno, qui nella capitale e nel resto dell’Iraq”.
Oltrepassato il piccolo ingresso e le guardie armate alla porta, la casa è quella di un collezionista appassionato. Porte intarsiate lavorate a mano, pareti ricoperte di dipinti di ogni epoca, un carrello porta vivande di fine Ottocento, come le poltrone del salotto, preziosi tappeti colorati, una vecchia fisarmonica, una radio degli anni Cinquanta, un grammofono e, al piano superiore, un tavolo in marmo appartenuto a re Faisal II e un imponente letto a baldacchino con le tende ricamate. Non c’è un angolo di queste stanze che non sia stato rivestito di legno o stoffe e sul quale non sia stato collocato qualche oggetto raro, antico, appartenuto a un artista o a un nobile iracheno del passato.
“Sono un collezionista d’arte, ma amo soprattutto la storia e la cultura del mio Paese – racconta il giornalista – per questo ho deciso di circondarmi di tutto ciò che mi fa stare bene”.
Mentre parla della scrittura cuneiforme dei sumeri che avrebbe influenzato le opere di un pittore contemporaneo guarda più volte l’orologio, fino a che – scusandosi – dice che dovrà assentarsi per pochi minuti. Il nipote che vive e lavora con lui come una sorta di guardia del corpo accende la tv: dopo pochi minuti Falah compare sullo schermo, in diretta, per commentare quanto sta accadendo a Mosul. Poi va via la corrente, il televisore si spegne di colpo, come le lampade dai vetri colorati che illuminano la sala da pranzo. Quando ritorna la luce ricompare anche Falah, che si rimette a sedere in poltrona.
“Il mio primo lavoro – racconta – è stato il disegnatore: mi occupavo della grafica delle riviste e, nel frattempo, dipingevo per passione; poi è arrivato il giornalismo. Ho sempre cercato di raccontare le persone, con i loro problemi e le loro storie. Continuo a farlo ma negli ultimi tempi sono stato costretto a diventare più prudente. Fino a qualche anno fa abitavo nel mio quartiere, Sadr City, ed era da lì che ogni giorno mi muovevo, almeno fino a quando al Qaeda non ha cercato di farmi fuori. Dopo essere scampato a un attentato mi è stato consigliato di limitare gli spostamenti. Era il 2005, mi trovavo in casa e mi stavo preparando ad uscire: l’esplosione è stata così forte che mi ha fatto sobbalzare dalla poltrona, non so come ma mi sono ritrovato sul pavimento, coperto da pezzi di vetro della finestra che mi si era sgretolata addosso. Sono corso fuori, tutto era avvolto da un fumo nero e la gente correva in tutte le direzioni. Insieme a me era sceso in strada anche il mio vicino di casa Ahmed. Senza una parola ci siamo fatti strada fino al punto dell’esplosione, poco lontano. C’erano diversi corpi irriconoscibili, mentre io ho avuto una fitta allo stomaco che mi ha bloccato il respiro e le ginocchia. Ahmed è corso avanti e si è chinato su una delle vittime. Sembrava una donna. Si è chinato, le ha preso la mano e l’ha baciata. Poi ho capito che era sua sorella, l’aveva riconosciuta dall’anello che portava al dito, un suo regalo”.
Falah si ferma per accendere una sigaretta, sospira, poi continua a raccontare: “Non è stato in quel momento che ho deciso di andarmene dal mio quartiere, nemmeno ci pensavo. Davanti ai morti di un attentato non pensi mai di essere stato fortunato, c’è solo un grande sgomento. Ho fatto la valigia quando è arrivata una telefonata anonima che mi diceva di fare attenzione perché qualcuno voleva rapirmi. Non so se si trattasse di qualche personaggio vicino ad Al Qaeda, che mi aveva già minacciato per il mio lavoro in tv, ma da quel giorno continuavo a guardarmi intorno ogni volta che mettevo piede fuori di casa. E avere una scorta armata non avrebbe fatto altro che attirare sguardi indiscreti. Non sapevo più di chi potevo fidarmi. Ero arrivato a cambiare percorso ogni mattina, a girare a vuoto in macchina, finché un giorno tornando a casa ho trovato la porta aperta, e il salone completamente a soqquadro. Avevano portato via soltanto il mio computer portatile. Allora ho deciso. Qui tante realtà si contendono e si spartiscono il controllo del territorio, fuori dalla Zona Verde è difficile che qualcuno risponda allo Stato. Non è solo un problema di Baghdad, ma di tutto l’Iraq: altri fronti si apriranno, dopo Mosul, e non troveremo pace finché tutti coloro che hanno interessi nella guerra non ne saranno sazi”. Ride e aggiunge: “Sono ironico, naturalmente”.
Nel frattempo un altro suo collaboratore di origine bengalese è entrato in salotto con un vassoio per servire il tè. “Ripeti con me – gli dice – tazzina, si chiama tazzina, ed è piccola perché qui dentro si mette il caffè, non il tè”. Scandisce la frase in inglese e poi in arabo, mentre il giovane comincia a ridere mentre cerca di ripeterla. “Non parla né l’una né l’altra lingua – dice Falah – ma sono contento che lavori con me perché dove era prima non arrivava a 200 dollari al mese e lo trattavano da schiavo”. Il giovane bengalese ora vive qui, insieme al nipote che è guardia del corpo e a un cugino. Poco tempo fa in casa di Falah aveva trovato rifugio anche una giovane cristiana di Mosul, fuggita da Daesh dopo otto mesi di prigionia, durante i quali era stata costretta a convertirsi. “Era stata segregata e terrorizzata per tutto quel tempo, eppure aveva trovato la forza di scappare. Quando ho saputo della sua storia l’ho invitata a stare qui a Baghdad e nel frattempo ho cercato di rintracciare la sua famiglia. Dopo tre mesi li ho trovati ad Ankawa, il sobborgo cristiano di Erbil, e l’ho accompagnata da loro. Non si aspettavano di rivederla, pensavano che fosse stata uccisa. L’emozione è stata fortissima, per loro e per me”.
A dispetto del cemento che la fortifica, la casa di Falah è diventata anche un punto di ritrovo per artisti, musicisti, militari, uomini d’affari e chiunque abbia una storia da raccontare: c’è il farmacista di religione cristiana che ha ereditato l’azienda del padre, il pubblicitario che lavora a Dubai, il generale delle Forze speciali irachene, il coordinatore di una ong che si occupa dei campi per le famiglie sfollate di Mosul. “È il mio modo di essere libero – dice Falah – mi circondo di persone positive, di oggetti che mi danno buone sensazioni. Apro le porte di casa, anche se in compenso ho chiuso la mia pagina Facebook. La libertà è tutta nella testa, ovunque tu sia, non importa quanto sia alto il muro fuori”.