di Lara Limongelli
LET ME IN, progetto fotografico di Valentina Piccinni e Jean Marc Caimi, inserito nella rassegna FotoLeggendo 2016, appare sulle prime come un’indagine sull’umanità migrante bloccata lungo la rotta balcanica, all’interno della problematica situazione delle frontiere europee negate a quei popoli che scappano da stati in guerra, da governi ingiusti, terrorismi e persecuzioni.
Umanità migrante e plurale, nel limbo di territori sconosciuti di frontiera, con la promessa e la speranza di un’ Europa che simboleggia salvezza e benessere, viene interrogata dai due fotografi attraverso lo strumento del ritratto: quella che per i media si presta ad essere massa indistinta – persone rese “concetto” nel loro atto migratorio, centro di una problematica politica e sociale contingente – si autocertifica con uno scatto, scrivendo un messaggio nella propria lingua.
Nonostante la presenza di una molteplicità di lingue tra arabo, pashtu, farsi, singalese, e proprio in virtù dell’azione dell’autoritrarsi (ogni soggetto ha in mano infatti un piccolo congegno il cui bottone permette l’autoscatto a distanza), per fruibilità immediata e incondizionata dell’immagine, salta all’occhio facilmente quel valore centrale che è la forza comunicativa della fotografia: il fatto di possedere una sola lingua potenzialmente diretta a tutti. In questo caso, lingua visiva di volti e alfabeti, identità individuali o familiari, la cui immediatezza permette di sfuggire a un senso di compassione indiscriminato, che ci tiene distanti dalle singole persone fotografate, con l’alibi dell’impotenza e il senso di una generalizzata innocenza. È il rischio del sentimentalismo, quel sentimentalismo di cui parla Susan Sontag nel suo celebre testo Davanti al dolore degli altri, a cui queste fotografie hanno il merito di sfuggire, suggerendo un percorso possibile di riflessione sui migranti e sulle condizioni dei popoli coinvolti in questo enorme esodo, e soprattutto su “come i nostri privilegi si collocano sulla carta geografica delle […] sofferenze [degli altri] e possono – in modi che preferiremmo non immaginare – essere connessi a tali sofferenze, dal momento che la ricchezza di alcuni può implicare l’indigenza di altri.” [1] Nello spazio residuo che intercorre tra l’azione del ritrarsi, atto di volontà e di fiducia verso l’immagine e verso il prossimo, e la scrittura di un messaggio in lingua propria, c’è il senso di questo progetto, il cui recupero della narrazione, intesa come un’etica della testimonianza e della memoria, tenta sia di opporsi alla desensibilizzazione dello sguardo, sia di ricalibrare la visione dell’altro, rimettendo la figura dello spettatore a quella di lettore, e dunque di testimone coinvolto nei fatti. Per un attimo davanti alle fotografie di LET ME IN, ho trovato invertita, in modo significativamente positivo, la famosa sentenza di Simone de Beauvoir “l’umanità preferisce alla vita delle ragioni per vivere”[2]: negli sguardi dei protagonisti dell’esodo, vi è una piccola scintilla in grado di far preferire la vita, finalmente, alle qualsiasi ragioni – politiche, religiose, civili, razziali – per vivere.
[1] Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri.
[2] Simone De Beauvoir, Il secondo sesso.
Lingua: inglese Siamo molto felici di incontrare persone come voi perché il nostro Paese e il governo del Medio Oriente sono pessimi, ci hanno chiuso le porte in faccia. Quindi, grazie mille. Nadeen, dalla Siria. Nadeen è una ragazza siriana di Damasco che ha deciso di scattare il suo autoritratto coprendosi il volto. Fotografare le donne non è una pratica ben vista nella cultura musulmana. C’è anche un timore generalizzato di essere riconosciuti nel proprio Paese, soprattutto se altri parenti si trovano ancora in patria, temendo ripercussioni su di loro. Nadeen ha intrapreso la rotta balcanica insieme alla sua famiglia tra cui suo figlio neonato. La loro destinazione è la Germania. È ritratta nei campi vicino al confine serbo/croato che divide Sid da Tovarnik.
Lingua: urdu. In nome di Dio, salve mi chiamo Mohamed Omar Bashir e vengo da Monen Ejensi, dove c’è la guerra. Per questo motivo ho lasciato il mio Paese. È da tre anni che sono in viaggio per raggiungere l’Europa. Il giorno 10 in Bulgaria mi hanno preso le impronte digitali e adesso sono in Serbia. Non so dove andare, forse tra tre giorni cercherò di reggiungere l’Italia o la Germania. Un giovane pachistano, con un’ottima conoscenza dell’inglese, viaggia con suo zio. È molto preoccupato per essere stato schedato con le impronte digitali in Bulgaria, e per questo teme di essere respinto dall’Europa e rimandato indietro. Le informazioni riguardo questo tipo di problematiche legali connesse alla migrazione sono molte confuse e in continuo cambiamento. Questa confusione va in favore dei trafficanti di uomini che si approfittano della paura di queste persone proponendo loro costose soluzioni illegali. Questo giovane ragazzo è accampato in una fabbrica di mattoni abbandonata a Subotica, vicino al confine serbo/ungherese
Lingua: farsi. Mi chiamo Mohammad Sadegh Rezaii e sono un cittadino afgano. Per cinque anni ho vissuto in Iran, ma sfortunatamente l’atteggiamento delle autorità iraniane nei nostri confronti è diventato molto umiliante. Non ci è data in nessun modo la possibilità di prendere la residenza e questo ci crea molte limitazioni. Inoltre uno dei miei figli ha dei problemi di salute. Soffre di Vescica Neurogena ed in Iran è impossibile curarlo. Per questi motivi siamo stati costretti a metterci in viaggio verso l’Europa e speriamo di ricevere aiuti. Siamo grati per l’ospitalità e l’umanità dei Paesi europei. Una famiglia originaria di un piccolo paese nei pressi di Kabul rifugiatasi in un palazzo abbandonato a Belgrado durante un temporale. Non hanno le idee chiare su come attraversare il confine serbo in sicurezza. La disinformazione è il maggior problema e questo porta molti migranti ad essere vittime dei trafficanti di uomini.
Lingua: arabo. Vi racconterò una storia: quando abbiamo lasciato la Turchia eravamo un gruppo di 30 persone. Loro ci dissero che avremmo viaggiato in una grande nave turistica. In realtà si trattava di un gommone che poteva trasportare massimo dieci persone e loro ci costrinsero ad imbarcarci tutti e i trafficanti di uomini ci requisirono i nostri soldi. Il gommone iniziò a navigare nelle acque territoriali turche ma dopo poco si fermò nelle acque greche. Dopo dieci minuti con un telefono GPS abbiamo chiamato la guardia costiera greca. Loro identificarono la nostra posizione e ci dissero che sarebbero venuti a salvarci il prima possibile. Noi eravamo trenta persone, comprese donne e un bambino molto piccolo. Dopo 20 minuti la guardia costiera arrivò e ci salvò tutti tranne una persona che annegò in mare. Non riuscirono a recuperare il corpo. Il suo nome era Mohammad Hagi, era siriano, ed è morto l’11/09/2015. Questa è la mia storia. I miei rispetti. Come la maggior parte dei migranti che scelgono la rotta balcanica attraversando il mare che divide la Turchia dalla Grecia, quest’uomo ha pagato i trafficanti per raggiungere Lesbo. I prezzi sono stabiliti dalla mafia che si occupa di questo business in Turchia. Un adulto paga 1100 €, i bambini 700 €. Questi sono i prezzi per un posto in un gommone. Non c’è il pilota e il comando viene dato ad uno dei passeggeri. Il viaggio in mare dovrebbe durare 40 minuti, ma per un equipaggio impreparato come questo i 40 minuti si trasformano in ore.