Si sente sempre un fermento particolare nelle città di confine, soprattutto se al di là della frontiera c’è una guerra. A Kilis, estremo margine di Turchia, nel luglio 2013 si percepiva chiaramente quel senso di sospensione gravida di non detti, di attese, di vite strappate al normale corso della quotidianità e rifugiate qui, in salvo ma con l’ansia continua della miseria e della morte che arriva come notizia, altrettanto quotidiana, dalla linea del fronte, a pochi chilometri. Città sovraccarica di storie, soprattutto di donne e bambini, profughi che stanno ai margini e appena possono tornano indietro, in Siria, attraverso le montagne, per sentieri segnati da talmente tanti passi da non avere bisogno di una guida.
A Kilis c’era anche Eva Guerriero, venuta per cercare il corpo di suo figlio, morto ammazzato in una guerra che credeva sua, al di là della frontiera, nelle file di Al Nusra, costola siriana di Al Quaeda, che qui, nel nord della Siria, fa parte dell’esercito di volontari in lotta contro Assad. Di cosa resti di quell’Esercito Siriano Libero in cui tanti hanno creduto fino a lasciarci gambe, braccia e spesso la vita, non è chiaro. Certo ora a dettare le regole qui è solo Al Nusra, in questa provincia in cui i ragazzini ti portano a braccia i resti delle bombe che gli hanno distrutto la casa, unico omaggio a disposizione per attirare i giornalisti stranieri. I comandanti conoscono l’inglese meglio di noi, hanno studiato ad Harvard, sanno bene cosa chiedere agli stranieri – dollari o, meglio, euro – in cambio di un lasciapassare o una protezione provvisoria; i soldati sono ragazzi, a malapena in grado di farsi crescere la barba d’ordinanza, e ridono dei nostri inutili giubbotti antiproiettile, buoni solo a farci sudare sotto un sole implacabile.
In quell’estate erano in tanti a Kilis: c’era il premio pulitzer Roy Gutman, da cui ho imparato a mie spese la lezione numero uno del giornalismo: “It’s better to have a low profile” – ma questa è un’altra storia. C’era anche Steven Sotloff, che sulla terrazza dell’albergo fatiscente vista Siria, ricettacolo di giornalisti e mercenari, raccontava disinvolto ai colleghi dei suoi viaggi per il mondo e soltanto pochi giorni dopo sarebbe stato rapito per diventare una delle prime vittime della violenza mediatizzata dell’Isis. E c’era un giapponese che pagava per andare ad ammazzare oltre confine: ogni mattina passava la frontiera della Turchia con il suo autista, armi nel bagagliaio dell’auto, e poi via per il safari quotidiano, dove le prede erano i siriani dispersi dalla guerra: impunità, adrenalina, risultato garantito; e a sera, anche in caso di ramadàn, trovava sempre la birra fresca nel frigorifero dell’hotel questo pendolare dell’orrore. C’erano, infine, i freelance malinconici che la notte seguivano i lampi dei bombardamenti aerei di Assad, in attesa del momento giusto per entrare, sempre inseguiti dai moniti dissuasivi di mamma Farnesina; mentre da qualche parte al di là del filo spinato, nella logica imprevedibile delle fazioni in lotta, c’era l’inviato della Stampa Domenico Quirico, sotto sequestro ormai da mesi.
E poi c’era Eva, che non riesco nemmeno a guardare mentre si aggira da sola nell’albergo all’ora di colazione; mi dice poche parole, le saltano in bocca le vocali, si accende veloce un’altra sigaretta. Chiede informazioni pratiche a tutti, l’intenzione una sola: entrare in Siria. Chi sia, lo sappiamo tutti: ha preso il nostro stesso aereo – Milano-Istanbul e poi il volo locale Istanbul-Gaziantep, infine un passaggio in auto per Kilis – sempre da sola, sempre in movimento; vuole che la responsabile dell’associazione umanitaria che va al campo di Bab-al-Salam la porti con sé, ma invano, si teme possa diventare un pericolo. Perché tutti sappiamo che è lì per quello: per cercare il corpo di suo figlio disperso vicino a Al-Qusayr, dove dicono sia stato ammazzato da un cecchino un mese prima. Le notizie sono frammentarie, il padre intervistato rilascia qualche dichiarazione – i giornali nazionali ne parlano, ci sono dibattiti, è il primo italiano morto per essere partito volontario per il jihad, la guerra santa. Eva non parla, parte per ritrovarlo, per riaverne almeno il corpo, come le madri fanno da sempre, in tutte le guerre, dall’inizio dei tempi.
Lo so, per questo non riesco nemmeno a guardarla in faccia. I suoi modi, la sua ansia, la sua fretta infastidiscono chi ha una missione da compiere, medicinali da portare ai vivi, dottori da far arrivare nei campi profughi; e immagino i tentativi dei funzionari di farla desistere dal passare la frontiera: un timbro all’uscita dalla Turchia e poi più niente, un chilometro di strada sterrata e nessuno ad accoglierti se non un soldato col kalashnikov dentro una garitta vuota; il confine siriano ormai non esiste più, lasciate ogni speranza o voi ch’entrate.
Eva Guerriero è un problema per tutti perché non ha preparazione, non ha supporti, non ha equipaggiamento, non sa la lingua, non ha conoscenze; l’unica cosa che possiede, e che pure le basta, è la sua determinazione. La sento al mio fianco e non riesco a guardarla perché la sua follia la capisco benissimo: ben altro confine ha superato, lei, un mese prima, quando ha saputo. Che vuoi che sia, allora, al Qaeda, quando il tuo bambino te l’hanno ammazzato? Quale paura ti può essere rimasta? Quale prudenza? Siamo gomito a gomito al tavolo, ma se allungassi una mano non potrei toccarla, ha fatto un salto incolmabile oltre il limite, e non posso raggiungerla. Ma quel confine io lo vedo eccome, perché so bene che io potrei essere di là, io potrei essere al suo posto.
Di tutto il dolore che incontrerò poi a cavallo della frontiera, Eva Guerriero è stato l’emblema muto; e di fronte a lei, il mio tentativo di raccontare la guerra niente più di un gioco da ragazzi in gita. Dicono che sia poi riuscita a entrare in Siria, non una ma due volte, e che la seconda volta abbia trovato qualcuno che le ha indicato il posto dove è sepolto suo figlio. Dicono che i soldati di Al Nusra le abbiano consegnato il suo diario e che l’abbiano benedetta e protetta perché madre di un martire: Gianluca Ibrahim Delnevo, 23 anni, di Genova.
Photo credit: Federica Tourn. Murales a Kilis, lungo il confine turco-siriano.