Intervista a Mario Dondero. “La mia regola guida è sempre stata la ricerca della verità”

di Maria Teresa Carbone.

Questa intervista a Mario Dondero, dell’aprile 2013, è stata pubblicata su Reportage n. 15.

 

“Se ho scelto di fare il fotografo e non il giornalista è per pigrizia: chi scrive deve faticare di più”, dice Mario Dondero, mentre sorseggia il suo cappuccino al caffé Rosati di piazza del Popolo. E lo dice con un tono così garbato e convincente, che quasi ti viene voglia di credergli e di dimenticare che questo signore di 85 anni suonati trascorre ancora gran parte della vita tra un treno e l’altro – e quanto al passato, basta sfogliare Dalla parte dell’uomo, il catalogo della mostra che gli ha dedicato il Palazzo Ducale di Genova nel 2012 per accorgersi che di posti nel mondo dove non è stato ce ne sono pochi. Il contrario della pigrizia, insomma.

Eppure qualcosa di vero c’è, nel suo desiderio di evitare gli sforzi inutili, e te ne accorgi dal fatto che lui viaggia leggero, un paio di macchine fotografiche al massimo, e più ancora dalla sua inclinazione per la mossa del cavallo, quella che ti spiazza e riporta il gioco in mano a lui. Come in questa intervista, dove le domande servono semplicemente come segni di interpunzione in un flusso di parole che appartiene tutto a Dondero, il quale – ha scritto Massimo Raffaeli – “così come ha abolito la nozione di confine geografico, ignora a priori qualsiasi gerarchia di classe e di genere”. E che dunque, sovvertendo l’ordine delle cose, esordisce prima ancora che gli sia stata rivolta una domanda: “Nella mia vita ho fotografato migliaia di manifestazioni, un po’ perché i miei committenti erano per lo più giornali di sinistra, un po’ perché a Parigi, dove ho vissuto per quarant’anni, abitavo in place du Temple e le manifestazioni passavano sotto casa mia, per cui bastava che mi affacciassi alla finestra e facessi clic. Ma in realtà, fotografare le manifestazioni non serve, bisogna andare dove ci sono le cause delle manifestazioni, in quelle fabbriche dove le persone stanno male per i vapori cattivi che respirano, dove le donne perdono i capelli perché sono obbligate tutto il giorno a stare con le cuffie di plastica in testa…”

Muoversi di continuo, andare alle radici delle cose… Per un giovane fotografo oggi, però, la situazione è più complicata, gli spazi di agibilità si sono ristretti.

Sì, è così. Per chi comincia adesso e soprattutto per chi cerca di muoversi liberamente, il mestiere è più difficile, forse anche più pericoloso di un tempo. I giornali tendono a incastonarti in un ruolo e, se vuoi sopravvivere, ti tocca ubbidire. Per la verità, non è una cosa nuova, è toccato anche a me in Francia, dove per anni sono stato considerato il fotografo degli scrittori, perché ho scattato un’immagine, che poi è diventata celebre, con tutti i protagonisti del Nouveau Roman. Ma io sono contrario a questa specializzazione, che oggi è sempre più rigida e che corrisponde solo a esigenze commerciali. Quello che interessa a me è andare in profondità e spesso, più del soggetto generale, sono i dettagli minimi a raccontare meglio quello che accade”.

Il catalogo dell’esposizione genovese rispecchia un’attenzione al mondo che non si lascia ingabbiare dalle categorie: ci sono i ritratti di scrittori e le foto di guerra, la stazioncina di Illiers cara a Proust e i griots depositari della tradizione orale in Mali…

Per tanti anni mi sono rifiutato di fare mostre perché ti costringono a essere un certo giorno in un certo posto e puoi stare sicuro che quel giorno succederà qualcosa altrove e tu non ci sarai. Una delle prime, negli anni Ottanta, me l’hanno organizzata i ferrovieri, che insieme ai portuali sono i lavoratori che preferisco. Così ho scoperto che il bello delle mostre è che ti permettono di colloquiare in modo più tranquillo con le persone. In fondo, il fotografo è un viaggiatore solitario, costretto a incontri e ad amori un po’ casuali, ma il mondo è pieno di persone affascinanti che meritano di essere conosciute. Questa curiosità verso gli altri, del resto, è la molla che mi ha sempre guidato: penso che un bravo fotografo debba possedere una buona cultura generale, leggere tanto, informarsi il più possibile, ma la cosa davvero importante, quella senza la quale tutto il resto vale poco, è che deve amare il mondo. Il fotografo a cui fin dall’inizio ho cercato di ispirarmi, Robert Capa, è sempre riuscito a inserire nelle sue immagini una grande tenerezza, un senso di profonda umanità per le persone che ritraeva.

E dal punto di vista tecnico, quali sono i tuoi suggerimenti per chi si accosta oggi al mestiere?

A me piace ripetere che l’eccesso di estetica uccide la verità dell’immagine, ma è evidente che la tecnica conta. In termini analogici, credo sia necessario sbattere via un anno di pellicola in prove fallite, prima di riuscire a fare una foto decente. Ma poi, quando sei arrivato a questo punto, sei a posto. Un fotografo, un fotoreporter in particolare, quando scatta non deve più essere impedito dal dubbio tecnico. Ho lavorato poco per le agenzie, ma negli anni in cui ero legato a Reporters Associés, in Francia, ho imparato quanto sia essenziale la rapidità, la scelta del punto di vista. Io punto molto sull’intuito, ma sono convinto che chi fotografa deve avere le idee chiare sul mondo, avere riflettuto molto, avere deciso da che parte sta. In questo modo il vantaggio del fotoreporter, rispetto al giornalista, è che può uscire dignitosamente dalle situazioni, al di là di chi gli ha commissionato quegli scatti: le fotografie possono spedire un messaggio di finissima ironia che non viene captato dai datori di lavoro.

In una carriera lunga ormai sessant’anni, dai tempi del bar Jamaica di Milano con Ugo Mulas e Alfa Castaldi, fino ai lavori in corso, come quello dedicato al porto di Genova che sfocerà presto in una nuova mostra, qual è la situazione che ricordi con particolare emozione?

Un momento di grande intensità è stato quando, nel 1973, ho fotografato i prigionieri algerini nel deserto del Sahara durante il conflitto tra Marocco e Algeria. Io non sono mai stato un “paparazzo bellico”, a me premeva denunciare le condizioni di prigionia e in quel caso mi sembra di avere instaurato con i prigionieri un rapporto, forse una connivenza. Ma fare il fotografo di guerra è un lavoro duro: c’è addirittura chi, come McCullin, ha ripudiato tutte le sue foto precedenti, sebbene non siano certo un inno alla guerra e anche l’atteggiamento dei militari oggi è cambiato, ti accettano solo se sei embedded. E poi c’è il rischio dell’estetizzazione, che non vale solo per la guerra: ti capita di fotografare una brutta stanza d’ospedale con la muffa sulle pareti e poi tutti ti fanno i complimenti per la bellezza dell’immagine. Io non ho mai cambiato niente nelle mie foto prima di scattare, anzi, una volta sì: ho dato un calcio a una cassetta per coprire le ciabatte di Sinjavskij, il dissidente russo, che viveva in condizioni di povertà a Parigi, mi sembrava che lo umiliassero ulteriormente. Ma è stato l’unico sgarro che ho fatto alla regola che mi guida quando lavoro, la ricerca della verità.

 

 

 

La foto in evidenza è stata scattata da Mario Dondero per un servizio su Robert Capa pubblicato in Reportage n. 18  a firma di Angelo Mastrandrea.

 

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