L’hanno preso al Phoenicia, uno dei alberghi più prestigiosi di Beirut, monumento e icona di quella città che esisteva negli anni ’60 e che è stata ridotta in macerie durante la guerra civile. I broccati e i marmi di Carrara degli interni rimandano a memorie di viaggi di elite cosmopolite, gli anni della gioia di vivere e del successo imprenditoriale, quando il Libano era considerato “la Svizzera del Medioriente”.
Dalla casa in cui vivo a Mar Mikhael, a Est, si impiegano circa 15 minuti di service per arrivare a Downtown, sulla baia, dove si trova l’albergo in cui voglio andare. Il taxi vero e proprio non lo prendo mai, troppo caro, uso sempre i servizi collettivi. Ogni distretto della città che il service attraversa sono 2mila lire libanesi. L’autista me ne chiede 4mila per arrivare in quella che durante gli anni della guerra civile è stata la zona di confine sulla green line, la no man’s land che demarcava Beirut Est, i quartieri cristiani, dalla Beirut musulmana. Inaugurato nel 1961 il Phoenicia è stato testimone dell’età d’oro di Beirut, quando la capitale libanese era l’elegantissima Parigi mediorientale. Nel biennio 1975-1977, allo scoppio della guerra civile che avrebbe reso Beirut una città fantasma, questa zona a ridosso della baia, con i suoi alberghi eleganti e le cene mondane del jet set internazionale, fu teatro di scontri violentissimi passati alla storia con il nome di “Battaglia degli Hotel”. Il distretto dei grandi alberghi, con il St. Georges, l’Holiday Inn Beirut, il Palm Beach, il Normandy, l’Hilton, e il Phoenicia fu uno dei fronti più martoriati, spartiacque tra Est e Ovest, tra le milizie del Fronte libanese cristiano e il Movimento nazionale libanese musulmano. Divenne zona di cecchini.
Il grande albergo è qui sulla baia. A un passo dal porto dove sono attraccati yacht di medie dimensioni. Tutto il perimetro che circonda l’ingresso a ridosso di una grande arteria della città è circondato da blocchi di cemento per motivi di sicurezza e proteggere la privacy della clientela dagli sguardi indiscreti. Svetta l’edificio nella sua imponenza assordante, in un lusso sfacciato che stride e disturba tra i resti di quelli che furono i palazzi e gli hotel che lo circondavano. I segni sono fin troppo visibili. Qui dimenticare è impossibile, la memoria è un cortocircuito di crateri. La città divora il presente in cicatrici multiple, fratture e lesioni interne su perimetri non rimarginati. Il corpo ferito, asfissiato e in bilico, di una città stremata da una storia troppo cruenta per essere detta. A Beirut si vive. Ci si arriva con i soli vestiti che si hanno addosso sapendo che ciò che si è lasciato indietro non esiste più. Ci si arriva da profughi dai paesi vicini. Un milione sono solo quelli siriani. A Beirut si guarda il mare dalla Corniche a pochi metri da questo albergo di lusso e a volte si sogna di potersene andare. Gli immaginari si sovrappongono in visioni distopiche ai desideri di una vitalità disperata e struggente. Continua a premere il conflitto a pochi chilometri da questo lungomare. A Beirut si vuole partire, ma si rimane. Si lasciano i vetri a terra di vite in frantumi, di edifici senza finestre. Qui la notte è troppo veloce, oppressa tra clacson assordanti, stranieri di passaggio e mendicanti bambini. A Beirut si vive e si vedono silenzi improvvisi, bui intatti, assoluti. Macerie di passaggi. Città che conosce come dissolversi nel buio e ricomporsi. Città invisibile di apparizioni sconnesse e cangianti. Crocevia di destini e attraversamenti. Ma ci si arriva anche da latitanti milionari. Per sfuggire a una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa.
Quando l’Interpol l’ha fermato sabato della scorsa settimana, 12 aprile, Marcello Dell’Utri, era in una suite del Phoenicia, dunque. Lo hanno trovato con decine di migliaia di euro in contanti. Non ha opposto resistenza quando la polizia ha bussato alla sua porta. Ha preso i suoi effetti personali e ha seguito gli agenti. L’hanno portato agli uffici centrali della Sécurité Générale, ad Achrafieh, la collina di Beirut Est. Ha trascorso tre giorni dietro ai presidi di carri armati e militari di guardia, al filo spinato e i soliti blocchi di cemento che isolano l’edificio tra il Museo Nazionale, l’ospedale gesuita Hotel Dieu e la facoltà di medicina dell’università Sant Joseph. Gli studenti, dall’altro lato della strada, hanno continuato a chiacchierare e a scrivere sui loro iphone, hanno continuato a ridere guardando il traffico, senza prestare la minima attenzione all’italiano e ai carri armati.
Nel frattempo, in Italia, la sentenza definitiva della Cassazione per la condanna a Dell’Utri viene rimandata al 9 maggio perché entrambi i legali dell’ex-senatore del Pdl – Di Peri e Krog – hanno prontamente presentato certificati di malattia. Per il momento resta in Libano, quindi, l’ex-senatore, in attesa che la domanda di estradizione presentata dalla magistratura italiana arrivi al governo del paese dei Cedri, che dovrà valutarla nella persona di Samir Hammoud, la massima carica giudiziaria del Paese, e possano essere esaminati tutti i fascicoli del procedimento a suo carico. Secondo gli accordi bilaterali tra i due Paesi, l’Italia ha trenta giorni di tempo per presentare la domanda. L’incartamento sul caso dell’Utri dovrà essere tradotto in arabo per consentire alla giustizia libanese di valutare il caso. Una documentazione processuale vastissima, più di 500 pagine di incartamenti, che potrebbe allungare significativamente, con complicazioni di possibili concorsi in vizi di forma, i tempi della decisione in merito all’estradizione.
Poi, nel pomeriggio di mercoledì, su richiesta del suo legale libanese Nasser al Khalil – che ha presentato perizia medica di infermità fisica per il suo assistito – Dell’Utri viene trasferito all’Ospedale Al Hayat. L’ospedale si trova a Haret Hreik, a ridosso dell’aeroporto internazionale Hariri, periferia a stragrande maggioranza sciita e teatro degli attentati che hanno destabilizzato a più riprese Beirut.
I quotidiani libanesi hanno riportato la notizia dell’arresto dell’ex senatore Pdl, soprattutto perché ha esulato la mera cronaca per un presunto coinvolgimento, prontamente smentito, di un influente politico libanese nell’affaire Dell’Utri. In un articolo su Repubblica, di domenica scorsa, si riportavano dichiarazioni di Silvio Berlusconi secondo le quali l’ex-senatore di Forza Italia potesse trovarsi nel paese dei cedri inviato su richiesta di Vladimir Putin per appoggiare la candidatura alle prossime elezione presidenziali di Amine Gemayel, leader del partito Kataeb, il partito falangista libanese. Il gabinetto Gemayel ha prontamente e categoricamente smentito ogni coinvolgimento, sostenendo la completa estraneità alla vicenda.
Dal Phoenicia mi allontano a piedi. Il cielo è scuro e pioverà. Ci sono nuvole pesanti sul porto e dal mare si alza un vento cupo. Cammino pensando che l’hanno trovato con 30mila euro in contanti in una suite su questa baia e che, con ogni probabilità, resterà qui a lungo. Mi dirigo alla Corniche. Attorno a me ci sono solo scheletri fatiscenti di palazzi trivellati, cantieri fermi e orizzonte. I ragazzini corrono sul lungomare e sulle panchine si riposano i pulitori di scarpe con la scatola pesante degli attrezzi ai loro piedi. Sono siriani, carne fresca e disperata destinata al mercato nero. Una ragazza in hijab mi sorride e chiede di scattarle una fotografia. Il suo viso sereno mi guarda nell’obiettivo e dietro di lei c’è solo il Mediterraneo, silente come una tomba.
Da giorni, la moglie e il figlio hanno raggiunto l’italiano a Beirut. Alloggiano all’Hotel Gabriel, 4 stelle, su una via trafficata ad Achrafieh poco dietro l’elegante Place Sassine. L’hotel di lusso ha vetri oscurati e la camera più economica costa 220 dollari a notte. A qualche metro dalla grande porta d’ingresso un gruppo di bambini aspetta, seduto in strada, di potere vendere un pacchetto di cicche a qualche straniero ricco, una rosa di plastica o di pulirgli le scarpe. “Please madame, dirty shoes” mi indica Ahmed con la mano piccola e macchiata di grasso. “Dirty shoes” insiste e mi prega di fermarmi. Ha ragione, Ahmed, le mie scarpe sono in condizioni pessime, troppo consumate e logore. “Homs” mi rispondono tutti. “Suria” (Siria), dicono, quando mi abbasso in ginocchio per parlare alla loro altezza e chiedergli la città che hanno dovuto abbandonare per trovarsi ora su questo marciapiedi a giocare con scampoli di stracci. La risposta è sempre la stessa, la tragedia che si vuole dimenticare è qui, ora, presente a ogni incrocio di via. Leyla, non può avere più di quattro anni. I suoi denti sono piccoli e scuri, i capelli stopposi le si incollano al viso. Gli occhi azzurri non sembrano vedermi, continua a guardare il traffico davanti a lei, le macchine che sfrecciano rombando a pochi metri dai suoi piedi infilati in ciabatte di plastica blu troppo grandi per lei. È ricurva, in un maglioncino striminzito a righe rosse e verdi. La scatola con gli attrezzi del suo lavoro rimane appoggiata ai piedi di un albero magro, ogni tanto la tocca per cercare qualcosa, tra le scatole di grasso per lucidare le scarpe, rovista ma non trova. Parla da sola. A me non dice quasi nulla, continua a respirare a fatica e ogni tanto si volta per vedere se da quella grande porta nera esce qualche straniero a Beirut di passaggio, o in fuga. Ma quelli non rilasciano dichiarazioni. Sono ombre inutili di fuggitivi. E Beirut ha altro da affrontare, ben più violento e opprimente.