di Maria Camilla Brunetti
Tra gli anni ’50 e i ’70 del Novecento, la Breda Fucine era la fabbrica più grande di Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia. Alla fine degli anni ’60 contava 20.000 operai. Di quella fabbrica oggi non resta pressoché nulla. È una storia privata, quella che Stefano Valenti racconta ne “La fabbrica del panico” (Feltrinelli, pp. 128 – 11 euro). Un dolore che si tramanda da padre in figlio. È la storia di un giovane uomo che arriva a Milano, da un piccolo paese della Valtellina, per lavorare come operaio. Operaio metalmeccanico non specializzato. Quel ragazzo ama la pittura ma deve lavorare per vivere. Una stanza loculo in condivisione con altri operai turnisti. Un reparto – camera a gas – in cui si soffoca d’amianto. I turni sfiancanti, il sistema concetrazionistico e impenetrabile della fabbrica, l’umiliazione e la paura di perdere il lavoro – che il corpo ceda -, le lotte per i salari e per turni più umani, i compagni. Lottavano per la dignità, gli operai, ma non sapevano che sarebbero morti di quel lavoro. I primi casi di malattia, la dirigenza insabbia le carte, il muro di omertà, il mezzo litro di latte per la “bronchite cronica”. Avevano paura che il corpo non avrebbe retto alla fatica di turni massacranti ma non sapevano che stavano iniziando a morire. Mesotelioma pleurico è il nome del cancro ai polmoni causato dall’esposizione alle fibre di amianto. Il corpo di chi sa che la fabbrica è un’offesa continua alla vita. Il figlio ha bisogno di conoscere cosa è successo in quel luogo, a quegli uomini. Ricostruisce un mosaico di storie, di testimonianze dirette dei sopravvissuti, incrocia dati e carte dei processi per ripercorrere le tappe di un calvario collettivo in cui si compongono le linee di una pagina di storia italiana che ancora attende giustizia. “Per questo non ha mai voluto accettare l’idea di un armistizio, di una pace separata con quanti allora, e ancora, gli chiedono di recedere. Questo odio è la sua unica ricchezza, la mia eredità, il suo lascito. Esasperato dalla malattia e dal disgusto nei confronti di un’organizzazione sociale che ha prodotto e produce un simile disagio, il suo odio, non soltanto di classe, è diventato la sua redenzione”.
– Ne “La fabbrica del panico” racconti una storia molto privata, la più privata forse, che diviene – nella narrazione – un racconto collettivo. C’è una grande fabbrica di Sesto San Giovanni – la Breda Fucine – c’è un ragazzo nato in un paese della Valtellina che ama la pittura e che inizia a lavorarci come operaio negli anni ‘70. Ci sono i compagni di reparto. “Gli innocenti scendevano in pianura come un fiume in piena per far funzionare le fabbriche”. Puoi raccontare, brevemente, com’è nata l’idea di raccontare questa storia?
Mio padre è stato operaio. Ha lavorato in Breda. Quando sono nato per lui la fabbrica era un ricordo, ma un ricordo indelebile, presente nei suoi quadri, nella pittura praticata con la stessa energia, gli stessi orari, le stesse scarse risorse della fabbrica. Un ricordo che tornava a vivere in occasioni di cene, camminate, durante le quali raccontava con tristezza la gioventù che se n’era andata in fabbrica. Volevo raccontare la sua storia, la storia di un uomo “fuggito” dalla fabbrica per diventare quello che aveva sempre voluto essere, un pittore. Volevo renderla collettiva, affiancarla a storie di altri uomini segnati come lui dalla fabbrica. Quando ho conosciuto il Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio ho capito che l’alter ego di mio padre doveva essere Giambattista Tagarelli, operaio al reparto aste della Breda Fucine dal 1973 al 1988, ucciso dall’amianto, co-fondatore del Comitato. Il protagonista del romanzo nasce dunque dalla fusione di queste due rappresentative figure della classe operaia.
– La morte del protagonista è stata causata da anni di esposizione alle fibre di amianto, in fabbrica. Mesotelioma pleurico è il nome del tumore portato dall’inalazione delle fibre di amianto. Come scrivi – “La fabbrica è una condanna senza reato. Esiste un prima e un poi per chi è stato condannato alla fabbrica, un prima della fabbrica e un poi nella fabbrica”. Il protagonista lavorava alla saldatura, nel suo reparto – su ventisei operai – diciannove sono morti di cancro ai polmoni e quattro sono in fin di vita. Quando gli operai hanno iniziato ad ammalarsi e poi a morire la dirigenza sapeva, sapeva da anni del pericolo dell’esposizione all’amianto. Che cosa successe?
I dirigenti sapevano – fin dal 1974 dai rapporti dello Smal (Servizio di medicina preventiva per gli ambienti di lavoro) e della Usl, che facevano ispezioni nelle fabbriche (in particolare alla Breda Fucine) – che l’amianto avrebbe portato a questi omicidi. Lo Smal stilava rapporti sulle sostanze cancerogene usate nei processi lavorativi e produttivi che consegnava alla direzione aziendale della Breda Fucine, al consiglio di fabbrica, all’assessore alla sanità, all’ufficiale sanitario, all’ispettorato del lavoro, all’assessorato regionale alla sanità, al servizio sanitario aziendale, a Cgil-Cisl- Uil e alla Flm (Federazione lavoratori metalmeccanici) come riportato in calce al libro “Operai carne da macello” (reperibile su internet). Lo sapevano tutti meno gli operai. Per anni c’è stato un muro di omertà e di complicità fra datori di lavoro, partiti, sindacati e istituzioni che barattavano il posto di lavoro con la salute dei lavoratori e dei cittadini.
– Per i fatti della Breda Fucine ci sono stati diversi processi. Il 12 febbraio 2003, due dirigenti Breda accusati di omicidio colposo di sei lavoratori e lesioni gravissime di un settimo, sono stati assolti dal tribunale di Milano perché “il fatto non sussiste”. Ma la battaglia non si è fermata. Ci puoi parlare dell’attività del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio, fondato a Sesto nel 1996?
Dopo avere verificato la morte con sintomi simili di molti operai – che avevano lavorato negli stessi reparti – è cominciata un’inchiesta operaia. I fondatori del Comitato andavano a casa delle famiglie delle vittime e dei malati chiedendo di visionare le cartelle cliniche. Di frequente veniva loro sbattuta la porta in faccia. Le famiglie cercavano di nascondere il dolore vivendolo privatamente, come se essersi ammalati fosse una colpa. Poi è subentrata la rabbia contro quelli che sapevano della pericolosità dell’amianto e non avevano fatto niente per impedire quelle morti annunciate. E subito dopo è venuta la voglia di giustizia. Sono cominciati i contenziosi e le lotte contro l’Inail, prima di Sesto e poi di Milano, che non voleva riconoscere le malattie professionali comportandosi peggio di un’assicurazione privata. Sono cominciate anche le prime cause legali penali e civili. In quegli anni il Comitato, dopo un primo momento di totale isolamento – era accusato di diffondere il terrore nella popolazione ingigantendo i rischi dovuti all’esposizione all’amianto – ha ottenuto le visite gratuite per tutti i lavoratori esposti all’amianto e molti lavoratori vincendo la paura si sono avvicinati al Comitato ingrossandone le fila.
– Grazie all’attività del comitato hai potuto raccogliere le testimonianze di molti operai, delle loro famiglie. La storia – la tragedia – delle migliaia di famiglie che in Italia continuano a piangere i morti di una guerra violenta di cui non si vuole parlare. Solo nel 2012, le morti sul lavoro sono state 1800, e il nostro Paese ha ancora una volta il triste primato fra i paesi europei più industrializzati e si conta che di cause collegate all’amianto, in Italia, continuino a morire 2000 persone l’anno. Il 3 giugno si è concluso a Torino il secondo grado d’appello del processo Eternit sulle vittime dell’amianto, con una sentenza storica. L’industriale elvetico Stephan Schmidheiny, è stato condannato a 18 anni di reclusione per disastro doloso negli impianti della Eternit a Casale Monferrato, Bagnoli e Rubiera. Forse qualcosa sta cambiando?
La riposta è sì. Anni di lotte delle associazioni e dei Comitati delle vittime dell’amianto hanno cambiato la percezione del pericolo derivato dall’amianto. Il pericolo è ormai riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità che ha previsto il picco delle morti fra il 2020 e il 2030, dal momento che la latenza della malattia (il mesotelioma) è anche di 40 anni. Nasce da qui la necessita di bonifiche aziendali e ambientali. L’amianto non è un problema del passato, è un problema del presente e del futuro ed è una vera emergenza, sociale, ambientale, sanitaria, a cui bisogna rispondere adesso, subito. Se lo stato o la società non troveranno soldi per le bonifiche e la messa in sicurezza dell’amianto, dovranno trovarli in futuro per cercare di curare i malati e per i funerali.
– In Italia, si è iniziato ad affrontare il “killer amianto” con ritardo colpevole e ingiurioso. Gli interessi di profitto erano troppi e troppo alti. Meglio continuare a tacere e lasciare che gli uomini morissero. Se ora qualcosa ha cominciato a muoversi è in gran parte dovuto al lavoro di un magistrato come Raffaele Guariniello. Hai avuto modo di leggere “Amianto” (Agenzia X), il libro in cui Alberto Prunetti ripercorre la storia del padre Renato, metalmeccanico saldatore che lavorò nelle acciaierie e nelle raffinerie più contaminate d’Italia: Piombino, Taranto, Busalla, Casale Monferrato?
Ho letto con interesse il libro di Alberto Prunetti. Esiste una nuova sensibilità narrativa su questi temi. Per quanto diversi nella forma, il libro di Prunetti, ma anche quelli di Angelo Ferracuti, Il costo della vita (Einaudi), di Cristina Zagaria, Veleno (Sperling & Kupfer), e perfino un eccelso romanzo come Il nemico (Isbn) di Emanuele Tonon, antesignano del genere, hanno affrontato il tema della morte sul lavoro.
– Credi possa rinascere una letteratura “industriale”, dopo gli anni di Ottieri, Volponi, Bianciardi e Mastronardi?
Quella degli autori citati è un’epoca storica e letteraria irripetibile. Nasceva nel contesto del boom economico di cui noi oggi verifichiamo l’esaurimento. In una recensione su “Il manifesto” del libro di Ferracuti, Massimo Raffaeli dice che esiste ora una “querelle sul realismo (sul suo ritorno effettivo o presunto, sulla sua ammissibilità ovvero sul suo anacronismo) che tende a ripiegare di continuo su se stessa e a ignorare pertanto, al di là delle categorie astratte o nominalistiche, un’esperienza che qualunque lettore conosce se non altro per intuizione e cioè lo statuto di necessità che presiede o meno una determinata opera.” Credo, come Raffaeli, in uno statuto di necessità che restituisca la distanza emozionale delle cose vissute, viste o sentite, e che questa sia una “ottima, attualissima, definizione del realismo.” Ben venga, in questo senso, una narrativa che torni a mettere al centro del racconto il mondo reale.