La verità e la biro | Tiziano Scarpa (Einaudi)
Tutto, sotto la luce pallida e tagliente dell’analisi, diventa palese, ovvio, chiaro: gira intorno e a tratti raggiunge ciò che vuol dire normale. Quando capiamo qualcosa, perché ci è stato analiticamente spiegato, diciamo ah. Constatiamo. Frequenta il medico della mente chi ha già avviato da solo un processo schiarente. Il malato di mente vuole la luce spenta. Tutti gli altri, in vari modi, sono in cerca di chiarezza. Tutto ciò che sembra squilibrato e appannato va riportato alla normalità e alla luce, va limato verso il chiarore. Si sa, la vita è torbida. In questo senso, il nuovo libro di Tiziano Scarpa (La verità e la biro, Einaudi) è la nostra torcia da borsetta, capace di illuminare le ombre e le bugie che fanno parte del mondo e della vita. In una ricerca lunga una vita (“Roberta, ho sessant’anni!”), Tiziano Scarpa ci spiega e sembra spiegare a se stesso, il meccanismo della finzione. Ma il metodo analitico di Scarpa è tutt’altro che normale, è oltraggioso e controcorrente (sempre, non solo in quest’opera) va a fondo proprio per scardinare la normalità. È analisi sempre creatrice, la sua, di linguaggio e di immagine. Riesce a fare il contrario di ciò che dovrebbe fare l’analisi, creando quindi sorpresa, ilarità, meraviglia. E lo fa perché mette in campo la letteratura: sceglie le parole migliori. Le sue analisi sono analisi de finesse perché mettono al muro la ragione, imponendole il sentimento. E così facendo riesce a raccontarci non solo i pornografici fatti suoi, già abilmente esposti in altri libri, ma ripercorre anche la storia del teatro greco e latino, a partire dalla differenza che impone la presenza della skenè greca, quella che nasconde ciò che veramente accade. E ciò che accade veramente sono i nostri pensieri desiderali, egotici, sconvenienti. Tanti sono gli esempi che ci porta la Scarpa-torcia: dalle scene del teatro di Goldoni, dove tutti i personaggi ignorano di essere conosciuti attraverso nomignoli buffi e denigratori che conoscono soltanto gli altri, alle perversioni dei preti che vogliono vedere sotto le mutandine dei bambini. Non è un libro che piace a tutti, è evidente e già lo ha dimostrato. È un libro divisivo e quindi straordinariamente moderno, attuale (“Roberta, ho sessant’anni!”). È anche vero che quando leggo le stroncature a questo libro, mi viene in mente una conoscente, persona squisita, simpatica, gentile, carina. Piena di basiche qualità, tranne una: quando le si parla a un livello che non sia quello dell’evidenza, replica automaticamente: “In che senso scusa? Non ho capito”. Roberta Durante
Stella Maris | Corman Mc Carthy (Einaudi)
Alicia Western è una ventenne superdotata, matematica, suonatrice di violino, schizofrenica, anoressica e chissà cos’altro. Ha delle apparizioni (i cosiddetti “famigli”, tra cui l’istrionico Kid) e a seguito della morte del fratello Bobby si fa ricoverare nella clinica psichiatrica “Stella Maris” (di qui il titolo del romanzo di Cormac Mc Carthy), dove era già stata, a seguito di manie suicidarie. Il libro consta di una serie di dialoghi con lo psichiatra sulle contraddizioni del pensiero svelate dalla specola matematica, un sapere che non spiega il mondo e forse nemmeno appartiene del tutto al mondo (col dubbio, a seguire, sulla stessa esistenza di un mondo tangibile e avulso da quello fantasmatico), e meno che mai la necessità delle creature, che nascono per poi essere distrutte. Donde finanche l’impossibilità del suicidio, resa al dettaglio da alcune delle pagine più riuscite, Stella Maris è una riflessione sul dolore e sull’amore, che ha come centro sfuggente proprio il fantasma-Bobby verso il quale Alicia mantiene vivo l’amore incestuoso che entrambi hanno tentato invano di arginare. Questo è quanto emerge dai rari scambi intimi dei dialoghi incentrati per lo più su concetti massimali, con un’attitudine tra l’aforistico e la “supercazzola”. Il finale conferma la passione di Mc Carthy per il mito e gli elementi primordiali, il fuoco, la notte, gli animali. E infine per qualcosa di nuovo, anzi d’antico: viviamo male, viviamo per morire. Poi? Gilda Policastro
Un dettaglio minore | Adania Shibli (La Nave di Teseo)
La prima cosa che colpisce di Un dettaglio minore, romanzo della scrittrice palestinese Adania Shibli (traduzione di Monica Ruocco), è il pervasivo stato di angoscia e oppressione della voce narrante, una giovane donna palestinese di Ramallah che vuole fare luce su un crimine successo nell’estate del 1949, venticinque anni prima della sua nascita. Il crimine in questione è la violenza e conseguente uccisione perpetrata ai danni di una giovane beduina nel deserto del Negev da parte di militari israeliani, a un anno dalla fondazione dello Stato di Israele, anno che nella storiografia palestinese viene chiamato con il termine Nakba, la catastrofe, che portò all’espulsione di 750mila palestinesi dalla loro terra. La giovane palestinese dei nostri giorni rimane talmente scossa da questa notizia, o meglio dai brandelli che emanano tra le pieghe remote di una storia troppo dolorosa, da farne un’ossessione. Shibli, grazie a questo espediente narrativo, riesce magistralmente a intessere due piani distinti di narrazione: quella del presente e quella dell’arco storico all’interno del quale la narrazione incede, ossia i lunghi decenni del conflitto israelo-palestinese. Un percorso narrativo che riesce a portare il lettore nel cuore della Palestina occupata, in cui è la vita stessa dei palestinesi, il loro sguardo, la loro mente, ogni dettaglio del quotidiano a essere schiacciati da un controllo asfissiante e onnipresente. Maria Camilla Brunetti
Lezione di nuoto | Valentina Fortichiari (Solferino libri)
Lezione di nuoto racconta dell’acqua, che più volte è stata usata per parlare di letteratura: James Joyce, David F. Wallace e Anne Carson sono solo alcuni dei nomi nelle cui opere l’acqua è protagonista. Nel nostro caso, dalla forza liberatrice di questo elemento sgorgano gli scandali e gli amori della vita di Colette. Valentina Fortichiari, eccellente traduttrice, li racconta in un impasto intelligente di fiction e storia, romanzo e biografia, che fa luce sulla scrittrice francese, ribelle e anticonformista, incastrando gli aspetti sociali di questa figura con quelli più intimi. Simone Weil diceva che per scrivere bene bisogna pensare di tradurre: essere fedeli alla materia dell’esperienza. Mai sarebbe riuscita meglio una simile operazione a una traduttrice, che per inciso ha anche un rapporto personale con l’acqua, essendo lei stessa esperta di nuoto. L’atmosfera della Francia anni ‘20, il suo tessuto umano e la corrente che elettrifica lo sviluppo del femminismo, fluiscono nelle varie scene: lezioni di vita, presentate come le lezioni di nuoto che Colette dava a uno dei suoi amanti, il giovanissimo Bertrand, figlio del suo secondo marito, a Saint-Malo. La disciplina ferrea dei solitari – nell’acqua chi nuota è a tu per tu con l’elemento – e la potenza catartica, erotica e creativa che i nuotatori conoscono come un codice mai davvero del tutto logicamente esplicabile, se non attraverso la condivisione dell’“esperienza dell’acqua”, sono tra gli insegnamenti di questo libro. Maria Borio
Passeggiare la notte | Leila Mottley | (Bollati Boringhieri)
Passeggiare la notte per il centro di Oakland, in California, può essere piacevole, a volte esaltante, ma può anche trasformarsi in un incubo quando hai diciassette anni, il frigo vuoto e nessuno che ti proteggerà da un imminente sfratto. Kiara, un’adolescente afroamericana come tante nel suo quartiere, crede di poter gestire questa schiacciante responsabilità barattando il suo corpo, che per lei non è un tabù ma nemmeno un tesoro da preservare. Si tratta di una sua scelta, nessuno la costringe, ma ne è conspevole? Pagina dopo pagina accompagniamo Kiara nella sua quotidianità: quando mangia tacos con l’amata Ale, dipinge murales o gioca a basket con il piccolo Trevor. L’aspetto più crudo di Passeggiare la notte è proprio la facilità con cui una ragazza nera possa ritrovarsi per strada di notte, tra pregiudizi, razzismo e corruzione. Leila Mottley svela così la situazione difficile delle black women, che non sono solo emarginate dalla società americana (wasp), ma anche dalla loro stessa comunità, dove al primo posto ci sono il benessere e la sicurezza degli uomini (padri, mariti, compagni, fratelli o figli). Ciò che sorprende di questo straordinario romanzo, vincitore di numerosi riconoscimenti, è la maturità con la quale è stato scritto da una diciannovenne. Leila Mottley, che è anche poeta, evita il sensazionalismo o la retorica della vittima, costruendo una storia verosimile, dal linguaggio scorrevole e a tratti lirico, che colpisce direttamente allo stomaco. Simona Almerini