di Maria Camilla Brunetti
Giancarlo Liviano D’Arcangelo in Invisibile è la tua vera patria (Il Saggiatore – pp. 256 – 16 euro), indaga le ragioni del fallimento dell’utopia novecentesca, del mito, dell’Italia industriale. Sono attraversamenti stilistici e fisici, avvicinamenti per fermo immagini, tentativi di discesa nella poliformia del reale, nel declino di un futuro civile che non si è mai realizzato. Sono luoghi di abbandono, quelli ascoltati e cercati, simulacri di società estinte. L’Ilva – il mostro – di Taranto, la centrale nucleare di Garigliano, chiusa da trent’anni, il sogno utopico della Città dell’uomo – l’Ivrea di Adriano Olivetti esempio massimo di umanesimo industriale novecentesco -, il villaggio operaio voluto dagli imprenditori tessili Crespi sull’Adda, la Palermo estinta dei Florio, la miniera di Montevecchio in Sardegna. Immagini della decadenza, contaminati testimoni della dissoluzione dell’idea stessa di lavoro. Invisibile è un reportage sui luoghi di questo fallimento nazionale e nello stesso tempo, un affondo antropologico sulla memoria di intere comunità che a quei luoghi erano legate da vincolo di sangue e sussistenza, e si sono nutrite nei casi di Taranto e Garigliano di lasciti che ancora le avvelenano. Una riflessione amara sostenuta da un’analisi acuta e profonda, sulle forme di esercizio del potere, sul servilismo al profitto, sul rapporto tra individuo e comunità, comunità e fabbrica, fabbrica ed etica del lavoro. Immagini di civiltà perdute. Che cosa resta all’uomo posto a cospetto di questa fine? Ne parliamo con l’autore.
– “Invisibile è la tua vera patria” è un attraversamento di luoghi dell’abbandono, di archeologie del fallimento del sogno industriale dell’Italia del ‘900, un’indagine stilistica – prima che giornalistica – di modernità mancate. Penso all’Ilva di Taranto, che doveva assurgere a luogo sacro della civiltà industriale italiana, o alla centrale nucleare di Garigliano testimone del fallimento dell’utopia dell’autosufficienza energetica a qualsiasi costo di Enrico Mattei. Il lascito di queste visioni abnormi sembra non essere altro che portatore di scorie, “scorie ovunque”. Contaminazioni di memoria ma anche di ogni possibile idea di futuro. È così?
C’era una peculiarità comune a tutti i luoghi che ho avuto la fortuna e l’onore di visitare. Nella loro realtà fisica, nel loro manifestarsi come segni di un linguaggio che è quello poliforme del nostro tempo, proliferante e magmatico a inseguimento della mutevolezza istantanea e della successiva nebulizzazione, ognuno di essi portava indosso le stigmate del passato, l’esistere immobile del presente e il potenziale del futuro. Tutti esalavano respiri avvelenati, tossivano, come se implorassero una cura. E la cura, e lo ripeto erano gli stessi luoghi a esprimerlo con una violenza definitiva, può consistere solo in un nuovo paradigma, in una nuova visione collettiva del mondo che si fonda sull’idea della razionalizzazione delle risorse per il bene comune, della ridistribuzione della ricchezza. Solo pensando il territorio come una risorsa pubblica è possibile immaginare un progresso. Il capitale da solo non basta. Questi ruderi testimoniano meglio di ogni speculazione economico-politica e meglio di ogni teoria di new economy partorita all’università di Chicago che da solo, perseguendo le proprie energie, il capitale non costruisce niente di duraturo per le comunità. Al massimo favorisce chi lo possiede (e solo per l’arco di qualche generazione) ma in realtà si muove per flussi propri e incontrollabili in senso centripeto, accumulandosi con forza magnetica nei suoi stessi alveari, quasi che il senso finale del suo caotico e all’apparenza insensato peregrinare sia il riaggregarsi in un unico, immenso sedimento. Che l’inerzia sia questa è un fatto, non una supposizione, basta pensare ai dati Bankitalia secondo cui più della metà della ricchezza nazionale si trova nelle mani di una bassissima percentuale d’individui. Concentrazioni così rilevanti di ricchezza erano impensabili solo uno o due secoli fa. Il lascito di scorie è lì come memoria e come monito.
– Mi ha colpito una considerazione che fai parlando con Doppiacoppia, l’uomo che ti ha accompagnato a visitare i resti della centrale nucleare di Garigliano, in merito agli imperituri lasciti di questi fallimenti sulle comunità e sui luoghi. “Il denaro è un fattore strategico. Il denaro apre la falla, determina l’attimo in cui si decidono i destini della battaglia. La catastrofe può diventare merce. È merce. Può allinearsi al sistema. La prevenzione e il controllo no, mai. Sono scrupoli a fondo perduto, ostacoli. La catastrofe come merce, invece, ha i tentacoli”. Morire di lavoro, morire per mancanza di lavoro. A Taranto in molti dicono, meglio morire di cancro che di fame. È questa la catastrofe a cui ti riferisci?
Sì, è questa. La catastrofe consiste nel rinunciare preventivamente alle visioni del mondo alternative. E non mi riferisco alla politica ufficiale, che nella catastrofe annida la sua sopravvivenza, vive grazie alla catastrofe e con il compito di perpetuarla a costo della sua stessa esistenza. Mi riferisco alle forze della società soggiogate, che nel modello attuale di organizzazione della società non hanno nulla da guadagnare e non lo avranno mai, e che lo accettano auto-destituendosi della propria coscienza di classe, è proprio il caso di dirlo, e del proprio senso critico. Le battaglie sindacali sono per principio straordinariamente giuste, così come gli scioperi per le mancate promesse del capitalismo industriale che si è creduto eterno, mentre invece è durato mezzo secolo. Ma al tempo stesso sono preistoriche rispetto alla realtà, si esprimono come se il mondo funzionasse secondo le regole di un manualetto di educazione civica. Il sistema le ha superate, si muove secondo un ordine diverso, che le rende completamente inefficaci. Se lo scopo ultimo del lavoro è la produzione, la fine della produzione rende il lavoro insensato, e la produzione è altrove. Il capitale segue i suoi bisogni, è da sempre così. Ecco perché tra le poche proposte sensate arrivate dalla politica negli ultimi anni va annoverato il reddito di cittadinanza. Perché ratifica una verità ancora inaccettabile ai più, cioè che il lavoro non è affatto un diritto, non è più parte integrante di un meccanismo razionale finalizzato alla produzione ma è semplice collocazione nella società, più o meno retribuita, finalizzata a reiterare la forma della società così come la conosciamo e la consumiamo. In questo senso anche la disoccupazione è una collocazione necessaria a reiterare il sistema così com’è, e dovrebbe essere retribuita. È una collocazione anch’essa per l’appunto. Perché poi le battaglie politiche ed economiche vere si giocano altrove: tra i plutocrati, nel palazzo, secondo gli schemi fluidi, ambigui e bifronti della criminalità organizzata che pesca a mani basse nell’economia cosiddetta legale. C’è una cosa che resterà sempre di Gomorra: l’aver sancito come principio inscindibile che nell’economia moderna non esiste più una netta contrapposizione tra criminalità e legittimità. I due mari si mischiano e si permutano perennemente.
– Per ogni indagine in sito ti sei affidato ai Virgilio del luogo, che potessero guidare il tuo sguardo, che ti aiutassero a calarti oltre il visibile – oltre l’immediatamente evidente – nell’invisibile, appunto, di quei luoghi. I ruderi di quelle archeologie sono anche simulacri della fine di intere comunità, l’infrangersi di utopie che erano anche sociali, comunitarie. “Corredi sacrali di civiltà estinte”. Le tue guide ne facevano parte. Penso all’Olivetti di Ivrea, a villaggio di Crespi d’Adda. “Luoghi fisici demandati a ospitare un’idea di civiltà”.
In modo differente l’Olivetti a Ivrea e Il villaggio operaio di Crepi d’Adda, testimoniano che non soltanto gli esseri viventi hanno un ciclo di vita biologico chiaro, contraddistinto da un arco di forza e potenziale che nasce, cresce e raggiunge un apice di energia massimale per poi abbandonarsi a un ciclo di naturale declino, fino a spirare ed estinguersi. La posizione del lavoro all’interno del secolo industriale ha vissuto lo stesso ciclo. Esiste un romanzo di Richard Powers, Sporco Denaro pubblicato in Italia da Fanucci che spiega perfettamente questa idea, raccontando la storia di una multinazionale del sapone statunitense dalle origini al decadimento. Si capisce come a inizio secolo, quando vi era l’intero mondo da conquistare a colpi di produzione di massa, il lavoro avesse un ruolo chiave, decisivo nel ciclo economico. I capitalisti pensavano al lavoro specializzato come una frontiera necessaria per inseguire il sogno tecnologico e così prevalse una linea che si può definire pedagogica. Bisognava convincere molta mano d’opera a rinunciare a un sistema secolare di sussistenza per trasformarsi in forza operaia, e per farlo era necessario offrire cospicui e tangibili miglioramenti nelle condizioni di vita, creare il lavoro specializzato e legare le famiglie alla fabbrica, per il bene della stessa. I villaggi operai obbedivano a questa esigenza, anche se va specificato che mentre a Villaggio Crespi si riscontra un certo cinismo della famiglia di riferimento, con il focus sempre incentrato sul bene del profitto, nel caso degli Olivetti a Ivrea, come molti sanno, c’era davvero un pensiero comunitario alla base di ogni scelta di Adriano, esisteva davvero la volontà di rendere il meccanismo industriale e l’intero apparato tecnologico uno strumento a servizio del benessere collettivo e non la furia rapace dell’accumulo. Ma poi quella fase è finita. Oggi il lavoro è una concessione di chi da mezzo secolo si occupa della concentrazione della ricchezza, e la massa depredata non può fare altro che accettare condizioni di lavoro sempre più mefitiche o ribellarsi.
– In merito ad Adriano Olivetti scrivi, cito dal testo, “un uomo pervaso da una poderosa volontà unificatrice e dal feroce desiderio pragmatico e non utopico – tutt’altro che utopico – di riunire in un unico sistema, che si potrebbe definire compromissorio, l’esigenza umana di produrre benessere secondo i metodi concessi dal progresso tecnologico, urbanistico e intellettuale, in linea con le leggi del capitale inteso né più né meno che come un utensile, per coniugare il benessere così ottenuto con le più alte esigenze spirituali, ossia la coltivazione della bellezza e dell’umano”. La fabbrica, per Olivetti, doveva essere uno strumento per migliorare il maggior numero di vite possibili. Mi riferisco al progetto della “Città dell’uomo”. Ce ne puoi parlare?
Il caso della fabbrica Olivetti a Ivrea mi è davvero restato nel cuore, ha permeato in modo prepotente il mio immaginario e la mia empatia. Il viaggio tra fabbrica e mondo privato della famiglia mi è servito realmente per indagare, come se anche io fossi un agente della Cia post litteram, sul piccolo miracolo che era accaduto in questa piccola città piemontese. Volevo capire, accostandomi al mondo olivettiano con mezzo secolo di ritardo, se i racconti e le meraviglie che è possibile leggere nei resoconti fossero veri e se i numerosi discorsi di Adriano Olivetti avessero avuto un riscontro reale nel cuore della città industriale. Posso assicurare che era tutto vero, reale. Non esisteva nessuno spazio per l‘impostura in quell’approccio al sistema di produzione, che consisteva in un’idea della fabbrica come strumento nelle mani nell’uomo al fine di ottenere un benessere collettivo, e non un viatico verso il profitto ad uopo dei possessori del capitale né uno strumento aggressivo di dominio sociale. Olivetti sapeva che la fabbrica chiedeva molto e che di conseguenza doveva restituire molto in termini di benessere sociale comunitario, ed ecco perché a Ivrea esistevano asili, ambulatori, biblioteche a disposizione dell’intera comunità, oltre che a politiche virtuose di accesso alle abitazioni, che dovevano sempre prevedere l’esistenza di terreno coltivabile perché, questo Adriano Olivetti lo aveva capito bene, la fabbrica poteva anche non essere eterna o vivere momenti di crisi, e in tal caso i lavoratori non dovevano assolutamente rimanere servi del salario come unica fonte di sopravvivenza, ma dovevano poter provvedere al proprio sostentamento con la terra. Personalmente credo che il modello olivettiano sia una delle più grandi occasioni di sviluppo congiunto a progresso che il paese abbia avuto e gettato via. E questo non significa santificare la figura di Adriano Olivetti che era un grande imprenditore illuminato e non un rivoluzionario. Quando Olivetti agisce tuttavia, è bene ricordarlo, il mondo occidentale aveva già scelto il proprio modello di sviluppo e il mondo immaginato da Olivetti s’intersecava alla linea dominante, ma stravolgendola nel nome dell’eccellenza tecnologica, del bene comune e della longevità sul lungo periodo. Non bisogna dimenticare che sono decine le realtà imprenditoriali di straordinaria eccellenza che in quel territorio sono cresciute come indotto dell’Olivetti e che tutt’oggi operano ai massimi livelli.
– Nella visio mundi di Adriano Olivetti, gli intellettuali avevano un ruolo chiave nella dialettica del lavoro. Un impianto metodologico che è stato la prova di “un’alterità assoluta” nell’esperienza italiana. Cosa rimane oggi di tutto questo? Qual è il rapporto contemporaneo tra intellettuale e lavoro?
A Ivrea intellettuali di straordinario valore come tra gli altri Fortini e Volponi avevano ruoli dirigenziali importanti, perché Adriano voleva, pretendeva, che il suo modello di mondo fosse continuamente messo in discussione, che si aggiornasse ai cambiamenti della realtà, e per questo aveva bisogno degli intellettuali. Alle Edizioni di Comunità olivettiane dobbiamo l’arrivo in Italia di opere di straordinario valore, come quelle di Lewis Mumford e Simone Weil, un vero patrimonio culturale d’inestimabile valore. L’idea di lavoro olivettiana era certamente influenzata dall’intelligenza vivida dei suoi stretti collaboratori che Adriano per lo più sceglieva personalmente. In quanto all’attualità, il lavoro è un tema trattato di continuo nell’attualità, da scrittori, giornalisti, editorialisti, filosofi. La mia umile idea è che spesso sfugga una visione d’insieme, ovvero il tentativo di analizzare il concetto stesso di lavoro alla luce di com’è cambiata la realtà negli ultimi decenni. Il modello produttivo che tendiamo a evocare come unico e quasi ontologico, come se fosse inviato direttamente da Dio, è agonizzante. Ogni cosa, anche i sistemi produttivi hanno i loro cicli, e anche il primo articolo della costituzione, L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, mi sembra inverosimile e desueto, l’Italia oggi è una Repubblica fondata sugli interessi particolari di un ristretto establishment nazionale e internazionale che utilizza l’intero corpo sociale a seconda dei propri benefici. Il lavoro, come la burocrazia, come le istituzioni, come i media, come la legge, non sono più valori condivisi, principi universali da salvaguardare, ma strumenti, o meglio armi in pugno a un certo establishment economico che prevale sulle scelte politiche e spesso ne è parte, o quantomeno le determina e le impone con i mezzi più disparati.
– Fondiamo le nostre “immagini del mondo” su idee preconcette e fisse, venendo meno al principio fondante della realtà, la sua polimorfia. È ancora possibile, in questa Italia allo stremo, “immaginare altre immagini”, progettare spazi di lavoro futuri in cui l’umanesimo possa congiungersi con le giuste modalità di lavoro e di benessere comunitario? Come sarà l’industria di domani?
Difficile essere perentori. Il trattato di Lisbona, qualcosa di cui sui giornali italiani non si è mai parlato, tratta argomenti in grado di mutare le vite di tutti i cittadini e nessuno in Italia, tranne pochi addetti ai lavori ne conosce il contenuto, che è interamente e monoliticamente diretto a sancire il dominio reale e concreto, cioè quello economico, dei grossi gruppi internazionali. Personalmente nei grandi numeri, (dato che in ogni sistema complesso esiste una casistica delle eccezioni aliena alla condizione della massa) vedo una situazione che volge all’irreversibilità, con il meccanismo produttivo mantenuto sull’equilibrio del collasso in occidente, con il ritorno al nero e al grigio, e a una condizione generica dei lavoratori più vicina all’epoca della Coke Town in piena rivoluzione industriale che al lavoro rafforzato dal diritto cui col tempo e le lotte ci siamo abituati. La spinta di cambiamento può nascere per me solo attraverso l’impegno individuale di ognuno, non dalle istituzioni né dalla politica, troppo compromesse ed equivalenti agli interessi delle classi di censo alto, con cui coincidono materialmente. Può avvenire dalla conoscenza dei meccanismi di funzionamento della realtà, e dalla volontà comune di recuperare, tra i cittadini semplici che restano la maggioranza, l’idea della partecipazione attiva alla vita pubblica. E infine attraverso lo scontro, anche strenuo, per la difesa di una visione della vita che preveda la parità sociale. E proprio cercare di contribuire alla diffusione di un’idea di mondo che assomigli più al modello olivettiano e meno al capitalismo assistenziale e baronale tipico del nostro paese, è l’obiettivo che ho perseguito con Invisibile è la tua vera patria.