Intervista a Elisabeth Åsbrink | di Maria Camilla Brunetti

“Il concetto di purezza che sta riemergendo è una cosa terrificante”

La scrittrice e giornalista svedese Elisabeth Åsbrink non è contraria all’idea di nazionalismo, ma al nazionalismo collegato a un’etnia. Nel suo ultimo romanzo, “Abbandono”, spiega come superare l’impossibilità di avere giustizia dando un nome alle cose ed evitando l’oblio.

 

In Abbandono, il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia da Iperborea, la giornalista e scrittrice svedese Elisabeth Åsbrink si cimenta con il dolore di una profonda ricerca – privata e documentale – sulla propria storia personale e famigliare, intrecciata con alcune delle pagine più buie della storia del Ventesimo secolo. Åsbrink, con acume storico-investigativo, intesse i fili della narrazione a ritroso di molte generazioni per comprendere il destino delle donne e degli uomini che l’hanno preceduta. Potremmo definire il libro una saga famigliare o un romanzo verità ma l’aspetto più importante di questo procedere narrativo è la congiunzione di un’accuratissima ricostruzione dei luoghi e dei tempi abitati dai diversi destini e la profonda indagine archeologica che Åsbrink compone con una scrittura che ha i tratti della catarsi. Quella narrata in Abbandono è una geografia complessa che intreccia il destino della famiglia di Rita, poverissimi emigranti tedeschi arrivati a Londra alla fine dell’Ottocento per vivere nei bassifondi di Bethnal Green, alla storia della famiglia di Vidal Coenca, il nonno materno che la narratrice non ha mai conosciuto, cresciuto in una famiglia di ebrei sefarditi nella Salonicco ottomana di inizio Novecento. Vidal sarà due volte esule, come prima di lui lo furono le generazioni che lo precedettero costrette a lasciare la Spagna nei pogrom voluti dal re Ferdinando quando vennero espulsi tutti gli ebrei del Paese nel 1492. Esule una seconda volta quando abbandonerà Salonicco per Londra, conservando per sempre la nostalgia struggente per i vicoli soleggiati della città della sua infanzia. Sally, la madre della narratrice, è la figlia primogenita di Rita e Vidal. Al consolato britannico di Göteborg, il suo destino si intreccerà a quello di György, uno studente di medicina ebreo ungherese arrivato nel Paese scandinavo nel 1956 appena adolescente come rifugiato politico e miracolosamente sopravvissuto alla persecuzione nazista che aveva distrutto la sua famiglia e la sua comunità nella Budapest della sua infanzia. Katherine, la narratrice e alter-ego di Åsbrink, sarà l’unica figlia del loro amore naufragato, la quale – una volta diventata adulta – deve riuscire a dare un nome a ciò che è accaduto riportando in superficie le voci sepolte, ciò che si è voluto spazzare via.

Elisabeth, lei ha una formazione giornalistica. Ha lavorato per molti anni come reporter e come giornalista investigativa per diversi media svedesi. Questo è un aspetto che emerge nettamente nella sua produzione letteraria. Tutti i suoi libri sono supportati da una ricostruzione storica molto accurata, da un’attenta ricerca bibliografica e da una profonda ricerca delle fonti. Come si avvicina ai temi che vuole affrontare con la sua scrittura e come descriverebbe il suo metodo di lavoro quando scrive?

Il lavoro di giornalista investigativo e di storico è molto simile. Bisogna guardare alle fonti, preferibilmente a quelle di prima mano. Quando si guardano le fonti, bisogna anche riflettere sul contesto in cui queste fonti sono state create. Questi documenti avevano uno scopo? Un’a- genda nascosta? Chi li doveva leggere? Le fonti storiche che esamino devono essere verificate e, in questo senso, essere un giornalista investigativo e uno storico è quasi identico. Ma io non sono una storica. Questo diventa chiaro e importante nella fase successiva, quando scrivo. Per- ché anche se la mia scrittura si basa su fatti verificati e verificabili, perché voglio creare una sorta di trasparenza per i miei lettori, non devo scrivere come uno storico. Sono una scrittrice. Posso essere più libera. Posso usare la poesia. Uno storico non può mai usare un linguaggio poetico nei suoi scritti. Un giornalista d’inchiesta non può usare la poesia quando lavora. Ma io, come scrittrice, posso creare un terzo linguaggio, in cui combino la ricerca delle fonti e il linguaggio poetico. Questo è esattamente ciò che cerco di fare in ogni libro, ancora e ancora. È il mio metodo, la ricerca di un “tono” – una “musica” – in cui fatti e poesia possano interagire. (…)

 

Ph. La scrittrice e giornalista svedese Elisabeth Åsbrink in un ritratto di Bengt Oberger.

 

L’intervista completa è pubblicata in apertura di Reportage numero 53 (gennaio-marzo 2023), acquistabile in libreria e direttamente sul nostro sito, in versione cartacea e digitale.

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