Il derby Roma-Lazio offre lo spunto per valutare numerose questioni e fare il punto sulla passione calcistica, con quella quota di volgarità che ormai viene sottolineata da più parti come il carattere distintivo della nostra epoca. Uno stadio super protetto, un confluire in esso acquisendo progressivamente porzioni di spazio dove tutto viene reso innocuo; un confluire nell’anfiteatro scortati, osservati, come passando per continue camere di decompressione. Questo è oggi il calcio. Sono dunque questi i benefici dell’Età della Tecnica? La sensazione è d’uno stato civile non più autentico. Ecco, è questo lo “stato delle cose”. E allora per le giovani generazioni tutto è normale e il “mondo è questo”; e se lo scenario risulta volgare non è un grosso problema, l’importante è che si sia connessi. Chi è nato nell’era di internet non sa cosa possano significare lapis e taccuino da scrittore e anche da cronista; non è una sua colpa, ma è così. Chi, viceversa, ha visto già molto ed è quietamente disincantato, una qualche riflessione la può distendere sul passato, ritrovando in paesaggi remoti non poco tepore, se non altro come recupero d’una parte dell’esistenza perduta. Se consideriamo gli anni ’50, almeno a vedere certi documentari – certi spezzoni di film – e ad ascoltare un genitore ed anche amici in età avanzata, ciò che emerge è che si andava allo stadio per una festa e allora un derby, a Roma, era la festa suprema. Si partiva insieme, divisi dalla fede ma nella serenità d’un lungo pomeriggio da trascorrere insieme. C’erano forse bandiere sugli spalti? No, non c’erano bandiere sugli spalti – o raramente – e romanisti e laziali stavano seduti vicini anche nelle curve, anche nei settori spettacolarmente “popolari”. Se la propria squadra segnava, si poteva esultare senza paura anche avendo attorno tifosi avversari. Era una festa di colori, di emozioni già prima di arrivare allo stadio. Era il sole sul rettangolo verde – non a zolle – dello stadio Olimpico; il sole che rendeva ancor più lucente la chioma del centravanti biancoceleste Pasquale Vivolo, elegantone, e che agli allenamenti, verso primavera, si presentava in abito principe di Galles, camicia bianca di pura seta e scarpe bianche e gialle; era il sole del gigante Raoul Bortoletto, centromediano giallorosso; il sole di Humberto Tozzi, di Dino Da Costa, d’un Bob Lovati attore anche in un campo di calcio grazie all’altezza e ai bei tratti del viso.
Lo stadio era a quel tempo un bar allargato e quello che s’era detto durante la settimana al bar oppure alla sala biliardo e ancora al salone di barbiere, ecco che lì diveniva alta composizione verbale, dispiegamento di buoni propositi. E poteva capitare di vedere il regista Pietro Germi lanciare in aria la lobbia dopo un gol di Tozzi; i tifosi intorno che riconoscevano il personaggio se ne stavano quieti, quasi che il silenzio fosse una gentilezza nei suoi confronti. E poteva capitare di vedere anche l’elegantissimo attore Roberto Villa – grande con Vittorio De Sica nel film “Maddalena zero in condotta” – prendere appunti su fasi di gioco per le sue noterelle private. Tra lo stadio Flaminio e l’Olimpico era sempre la stessa storia: eleganza e ricchezza non ostentate nei settori della tribuna e poi colore, passione larga, dignità e mantenimento del dialetto romano nei settori popolari, così chiamati sin dagli anni ’30 sia alla “Rondinella”, campo della Lazio, che al Testaccio, cuore pulsante d’ogni battaglia dei giallorossi Fulvio Bernardini, Attilio Ferraris IV e Rodolfo Volk.
Quella che oggi viene sottolineata come coloritura della nostra epoca, ovvero la volgarità, all’epoca in questione non esisteva; certo, esisteva la mala parola, l’affondo greve, ma erano fenomeni d’occasione, appunto, come un’imprecazione che si dissolve subito dopo aver visto la luce. Era un tifo proveniente direttamente dagli anni ’30, dunque romantico, d’estrazione familiare, da cortile popolare, da ballatoio. Gli anni ’60 mantennero lo stesso sentire spirituale e allo stadio non v’erano ancora i settori divisi tra tifosi laziali e romanisti: quello stare insieme anche durante un derby era stato sperimentato ampiamente negli anni ’50 ed aveva dato buoni frutti. Si continuava ad andare allo stadio assieme – in tram, in autobus – e, quanto ai bar, alle sale biliardo e al salone del barbiere si trattava di luoghi dove rifugiarsi per puntellare l’esistenza, per tenere a bada la vita. Lì i perdigiorno erano i veri “poeti maledetti”; dentro quegli ambienti i fannulloni poetici, i vagabondi di quartiere, gli scansafatiche erano maestri d’un pensiero anticipatamente “debole”, ma profondo. Comparivano sulla scena del mondo in giacchettella, camicia di flanella e pantaloni a fior di caviglia: quasi sequenze di più Emile Cioran, di molti Sandro Penna. Allo stadio la loro presenza era nei cantucci popolari. Gli amici incontrati nei bar erano fondamentali perché con il loro colore e le loro “cadute” attenuavano le crudeltà della vita. Trascorrere il tempo insieme a loro era vedersi sugli spalti in anticipo, e magari si parlava di Orlando Rozzoni, centravanti della Lazio, e poi di Pedro Manfredini, il “piedone” giallorosso.
L’altro, il tifoso avversario, non era visto come un nemico ed era una verità il fatto che un tifoso conoscesse non soltanto la storia della sua squadra ma anche dell’altra compagine di Roma. Anzi, v’erano come delle lunghe conversazioni nei luoghi canonici appena descritti, quasi dei “seminari sulla gioventù”, e s’usciva dalla sala biliardo come dal bar avendo acquisito molto. Il tifoso anche negli anni ’60 mantenne un ruolo di appassionato senza mai eccedere, senza mai che il significato di quella parola, “tifoso”, s’imbrattasse di nuovi significati. Il tifoso delle due squadre s’appassionava anche al calcio minore romano – l’Alba Trastevere, il Poligrafico, la Stefer – e poi ai tornei estivi, i tornei aziendali dove spesso finivano calciatori a carriera terminata. Era una gioia ininterrotta, insomma, e, quanto alla diretta settimanale dell’Inter di Herrera, l’Italia in quelle serate era unita da Brunico a Gela. C’è da chiedersi cosa portò il ’68 ai tifosi. Fu un chiudersi vieppiù in se stessi non essendo essi più capiti, non più compresi da chi s’atteggiava proprio allora a intellettuale, a capo di questo o quel comitato di quartiere. In questi ambienti il calcio fu sospeso, parlarne significava perdere di credibilità. Se uno parlava di calcio non era credibile come “impegnato”, come “rivoluzionario”. Quelli che s’interessavano di calcio furono giudicati superficiali e qualunquisti. Da parte dei nuovi intellettuali s’evitarono bar e sale biliardo perché in simili posti c’erano dei tifosi, che ripetevano a memoria le formazioni di serie A e di serie B, oltre che delle Nazionali mondiali. Il successivo transito della “canna” negli stadi portò a vedere “sballate” le partite, che divenivano belle proprio perché “annebbiate”. Il “sociale” dilagava, ma coloro che parlavano difficile venivano visti con sospetto, scansati. Cosa c’entrava il modulo di Viani, di Frossi, di Rocco con le istanze sociali? I tifosi amavano Gigi Meroni perché era immenso e non perché – come diceva qualcuno – portatore di messaggi. Era un artista, era diverso, era un funambolo, per questo era amato. Con la politica sugli spalti finirono molte cose, prima tra tutte la condivisione della passione, i settori vennero divisi e le frange più “decise”, più “forti” esposero nei canti idee politiche di terza mano e ormai dissolte dal tempo. In Curva Sud, nel 1977, sorse il Commando Ultrà Curva Sud, accanto ai Fedayn e i Boys. I romantici “Guerriglieri della Curva Sud” divennero quasi un fenomeno da fotoromanzo. Dante Chierichini, il capo tifoso più umano e più buono che ebbe mai la curva giallorossa – fisiognomicamente e da un punto di vista umana egli proveniva dritto dritto dal tifo di Campo Testaccio negli anni ’30 – non ebbe più credito ma si continuò a volergli bene per tutto ciò che aveva rappresentato tra gli anni ’60 e i primi anni ’70. I suoi discorsi, pronunciati un minuto prima che le squadre entrassero in campo – alle 14,29 – divennero frammenti presocratici, quasi lettere di Cicerone ad Attico. Quando qualcuno apprese che i Boys, simpatizzanti di destra, erano anche del quartiere popolare del Prenestino, ne fu sorpreso: “La destra in un quartiere popolare?”. La Lazio rispose con gli Eagles Supporters e con “il tassinaro” come capo tifoso. Idee di forza, di potenza e miti rispolverati da libri pubblicati da case editrici sconosciute presero ad innalzarsi. Disegni e scritte dilagarono e qualche volta, pure, s’ammirava qualche azzeccato “aforisma” che il sorriso sapeva smuoverlo. Ma dov’era finita la passione? Da una curva ad un’altra insulti e razzi, non soltanto a parole: Tzigano tragico guerriero – come stava scritto in periferia – e Vincenzo Paparelli. Una traiettoria di morte.
Nel frattempo il “tu” era diventato un istituto – ascoltando io qui l’eco del Montale di “Satura” – e poi l’autorità fu messa di continuo in discussione. Sugli spalti e in campo le zazzere erano degli olandesi e degli argentini – Neeskens e Kempes su tutti – ma se ci si fosse limitati a questa estetica spicciola, tutto sarebbe rimasto tranquillo. Dai gruppi metal alle fantasie celtiche, agli estetismi a largo raggio, agli stadi insicuri – l’Heysel, già il nome è un tragico epitaffio! – gli anfiteatri divennero una lunga rappresentazione di narcisismi di seconda mano e, a dirla tutta, posticci. Chi ricordava i canti degli anni ’60 allo stadio, lo faceva da solo, in silenzio, al chiuso della propria stanza. Era proprio lì che costui rammentando il “tempo felice”, gioiva: “Lucio-Taccola-Peirò!” con Lucio che era l’ala destra Bertogna, ex Venezia. E poi: “Cordova-Cappellini-Del Sol, ogni tiro è un gol!”. Dopo il Mondiale del 1982 il calcio divenne un evento da salotto e sbucarono fuori gli ex castigatori del calcio, gli ex contestatori. Adesso con molti lifting nell’animo prima ancora che sul viso: era come se non fosse successo niente. Chiedevano strada, leggevano anche di notte gli Almanacchi del Calcio Illustrato per essere aggiornati, per poter parlare, per osare metafore. I vecchi “legionari”, invece, quelli che potevano mostrare “campagne militari” negli stadi d’Italia, sembravano, nella nuova condizione, non attori principali ma stracche comparse.
Che dire di oggi? S’è passati da slogan tipo: “Ve mannamo in B!”, oppure da: “Aquile coccodè! Aquile coccodè!” alle minacce dirette ai calciatori. Come non rimpiangere, dunque, l’attore Franco Volpi, tifoso laziale, nel mentre, con la sua eleganza, s’avviava verso la Tribuna Monte Mario? Come non rimpiangere l’operaio in camicia di flanella anche a maggio, nell’ultima partita di campionato? Lui, così esatto nella cavea della Curva Sud, aveva lavorato anche di domenica ma il tempo per finire sotto i Fedayn l’aveva trovato. Oggi con la pay tv è sbocciato un altro tipo di tifoso, il tifoso “privato”; quello della comodità e della pigrizia, della pizzeria-rifugio e della gioia pettinata. Allo stadio ci vanno gli irriducibili di qualcosa, i reduci da un mondo scomparso, gli affezionati del nuovo e della tecnica, delle prenotazioni on line e dei tornelli d’ingresso. È il paesaggio ad essere mutato, i sentimenti, gli sguardi delle persone – gli odori, addirittura – e quand’anche si finisse allo stadio – per chi ha attraversato i decenni mitici terminati alla metà degli anni ’80 – lo spaesamento sarebbe totale e ci si troverebbe con una lunga galleria di personaggi a dir poco alla Francis Bacon. Tutti segnalano la volgarità ma nessuno osa una diagnostica nel proprio animo, ed è questo il vero problema. Essa è ovunque e si mostra ferocemente al sabato sera all’apice di locali notturni con buttafuori tutti sudati e con i ginocchi valghi, ma scenari paralleli sono sugli autobus, nei vagoni del métro dove si parla al cellulare come se si stesse tra le mura della propria casa inondando tutti i presenti con una lunga sequenza di patologie e monologhi crudeli. Ma, a sentire i protagonisti, la volgarità è sempre altrove e riguarda sempre gli altri. Tra tifosi laziali e romanisti ci si dà ormai del “quelli là”, non pronunciando neanche il nome della squadra, quasi gioendo per questo fatto, perché evitare il nome equivale in un certo senso a decretare l'”inesistenza” dell’avversario. Quello che si ascolta è poi una superficialità ad ampio raggio, una conoscenza approssimativa del mondo e poi dell’Universo Calcio inteso anche come lunga storia dell’umanità. Ed ogni frase è l’eco lunga degli spot e non c’è traccia delle interpretazioni un poco profonde, “classiche” d’un tempo: non è questa l’epoca per simili sottigliezze ed è la fretta a decretare tutto. In un certo senso è come il linguaggio di molti romanzi che sembrano usciti da scontri televisivi, con luoghi comuni che non paiono proprio passi della “Recherche” o di Anna Karenina.
A proposito della volgarità di cui si parla: molto bello il film di Sorrentino “La grande bellezza”. In esso v’è molto del pittore Scipione – questa la mia sensazione – ed è bello anche questo. A proposito di questo film s’è parlato di accostamenti a “La dolce vita”. Noi crediamo che Tony Servillo sia bravissimo, il fatto è che Marcello Mastroianni era un’altra cosa, ma non è colpa di qualcuno. L’epoca era diversa e la volgarità di questa nazione è, oggi, una volgarità soprattutto culturale.