Anche se le condizioni di lavoro sono molto simili alla schiavitù, la popolazione del paesino peruviano è triplicata in un decennio. Non esistono una rete d’acqua potabile, fognature o impianti di riscaldamento. I minatori vengono pagati con le pietre estratte negli ultimi cinque giorni del mese.
“ALLA MINIERA, ALLA MINIERA!”, grida una donna da un furgone, in quella che sembra una stazione improvvisata di autobus a Juliaca, capoluogo della provincia di San Roman nella regione di Puno, nel sud-est del Perù. “Alla miniera? Avanti, avanti”, insiste vedendomi arrivare. Dopo che mi sono stretto nel sedile posteriore tra facce serie che mi guardano con sospetto e aver aspettato che tutti i rimanenti posti fossero occupati, il furgone comincia a muo- versi. Siamo a La Rinconada, situata nel Nevado de Ananea, le Ande peruviane, e considerata la città più alta del mondo, dove uomini e donne continuano a venire da decenni animando un insieme di case di zinco tra nevi perenni. A più di cinquemila metri di altitudine, resistendo al freddo e alla mancanza di ossigeno, circa 70mila persone inseguono ancora il sogno dell’oro, che nel lontano passato aveva costretto il continente sudamericano alla schiavitù con l’arrivo di molti “conquistatori”.
Dopo più di tre ore di viaggio ed essersi lasciati alle spalle il paese di Ananea, la terra diventa grigia. Tutto sembra inerte, tranne gli uomini e le donne che sopravvivono con ciò che riescono a strappare alla montagna. Poi, a pochi chilometri dalla città, ci danno il benvenuto grandi cumuli di spazzatura che corrono su entrambi i lati della strada – dove uccelli, cani e qualche lama competono tra loro per conquistare gli avanzi di cibo – e non ci abbandonano fino al nostro arrivo. (…)
Ph. Mauro ha lavorato in miniera per trent’anni: ci era venuto per pochi anni pensando che sarebbe diventato ricco, ma è ancora qui.
Il servizio completo è pubblicato su Reportage numero 49 (gennaio-marzo 2022), acquistabile in libreria e qui in versione cartacea e digitale.