di Claudia Cavaliere
Ron Haviv ripercorre e fa il punto sul suo lavoro: “Ho raccontato posti distanti, ma molto simili tra loro. L’errore di noi fotografi è pensare che ci sia un cambiamento significativo
per quello che facciamo”. I suoi momenti più belli: la scarcerazione di Nelson Mandela e il crollo del Muro di Berlino.
Cofondatore dell’agenzia VII, dedicata alla documentazione dei conflitti e alla sensibilizzazione sul tema dei diritti umani in tutto il mondo, il fotografo americano Ron Haviv ha coperto – negli ultimi trent’anni – più di venticinque conflitti e ha lavorato in oltre cento Paesi. World press photo, Picture of the year, Overseas press club e il Leica medal of excellence sono alcuni dei riconoscimenti ottenuti in carriera, durante la quale ha pubbli- cato tre libri fotografici acclamati dalla critica: Blood and honey: a Balkan war journal, Afghanistan: on the road to Kabul e Haiti: January 12, 2010. Ha inoltre diretto il film “Biography of a photo” insieme alla scrittrice Lauren Walsh, in cui racconta la storia di due tra le sue più iconiche fotografie e l’impatto che hanno ancora oggi.
Mi racconti dov’eri l’11 settembre del 2001?
Non ero a New York. Io e i colleghi con cui due giorni prima degli attacchi alle torri gemelle ho fondato l’agenzia fotografica VII ci trovavamo a Parigi, dopo essere tornati da Perpignan, nel sud della Francia. Eravamo tutti nell’appartamento della fotografa Alexandra Boulat quando abbiamo cominciato a vedere le immagini dagli Stati Uniti, penso fossimo sintonizzati sulla Cnn. Tutti nel mondo in quel momento stavano cercando di capire cosa stesse succedendo, così anche noi. Uno dei nostri colleghi era già partito per tornare a New York per completare un lavoro, si trattava di James Nachtwey. Ci preoccupava tutto, a quel punto anche saperlo al sicuro. Andò tutto bene e lui riuscì a scattare alcune delle più iconiche fotografie di quella giornata. Allo stesso tempo, ognuno di noi stava pensando a quali avrebbero dovuto essere i passi successivi, dove andare come giornalisti per coprire quella storia. A me è stato subito chiaro che la seconda fase si sarebbe svolta in Afghanistan, ma ho pensato fosse troppo presto andarci subito. Soprattutto, come americano e come newyorkese volevo tornare a casa e documentare le conseguenze dell’11 settembre. Ho fotografato quello che rimaneva del World Trade Center, le persone e nello stesso momento stavo pianificando quello che sarebbe stato il mio primo viaggio in Afghanistan.
Afghanistan. Gino Strada, il fondatore di Emergency, nel suo libro Buskashì ha raccontato il suo viaggio per Kabul all’indomani del crollo delle torri gemelle, mentre altre agenzie internazionali lasciavano il paese. Raccontami il tuo Afghanistan, le persone che hai incontrato, i civili, i soldati. Biden ha annunciato il ritiro delle truppe americane entro il ventesimo anniversario dell’11 settembre, come sarà?
Sono arrivato in Afghanistan a ottobre 2001 insieme a Ilana Ozernoy, una scrittrice. Abbiamo attraversato il Tagikistan via terra e poi siamo arrivati sulle linee del fronte fuori Kabul, dove c’era il Fronte islamico unito per la salvezza dell’Afghanistan, conosciuto come Alleanza del Nord. Eravamo insieme a questo gruppo di giornalisti e ci siamo insediati in una piccola città senza elettricità, con poca acqua e lì siamo rimasti per sei settimane, fino alla caduta di Kabul. Noi non eravamo embedded, ma ci trovavamo dalla stessa parte dell’Alleanza del Nord: in alcuni punti queste linee del fronte tra loro e i talebani erano ben distanti, in altri casi li dividevano solo 15-20 metri. Era evidente la contraddizione tra la bellezza del Paese, la generosità delle persone che ci hanno accolto, la loro apertura, e la ferocia e la difficoltà giornaliera di continuare a combattere una guerra che stavano fronteggiando ormai da anni contro i talebani. Per tutto il tempo in cui siamo stati lì, li abbiamo visti combattere, ma in realtà stavano aspettando che gli Stati Uniti prendessero la loro decisione, se invadere o meno. Mi ricordo di un combattente che ha detto: “Eravamo qui prima che voi arrivaste, siamo qui, mentre voi siete qui e saremo qui molto tempo dopo la vostra partenza”. Quanto è vero, e adesso il presidente americano Joe Biden annuncia il ritiro delle truppe dall’Afghanistan a quasi vent’anni da quel giorno. Oggi le linee sono molto simili, i combattenti sono dalla stessa parte di allora. Ancora una volta l’Afghanistan ha mostrato al mondo che è un luogo che non può essere conquistato. Prima ci sono stati i russi e prima ancora gli inglesi e il mio lavoro, i miei tre viaggi nel Paese mi hanno portato a vedere ripetuto sempre lo stesso schema: un passo avanti e tre indietro. Hanno detto: ecco, questa è la democrazia, ci saranno più diritti per le donne, ma ci sono ancora ragazze che rischiano la vita mentre cercano di andare a scuola o che vedono le loro classi andare a fuoco. E il risultato è che forse potrà andare un po’ meglio, ma non sappiamo come sarà tra un anno. L’Afghanistan mi ha mostrato l’inutilità della guerra, tutti i sacrifici, le tragedie, le perdite. Ho raccontato posti distanti, ma molto simili tra loro. Una delle cose che facciamo come fotografi è tenere traccia del fatto che più e più volte la storia si ripete: non ricordi le foto che hai scattato nel 2001, ma dimmi dov’è la differenza con quelle scattate oggi, dimmi come l’Afghanistan è diverso oggi rispetto a vent’anni fa. (…)
Ph: Burqa appesi ad asciugare a Kabul, poco dopo la fuga dei talebani dalla città nel 2001.
L’intervista completa è pubblicata su Reportage numero 47 (luglio-settembre 2021), acquistabile in libreria e qui in versione cartacea e digitale.