“Un giorno lo capirai”, dice una scritta sul muro di una delle stanze rimaste in piedi nel Campo di internamento Le Fraschette di Alatri. Il mio primo incontro con Le Fraschette risale ai tempi del liceo, quando vi si andava con i motorini, nei pomeriggi primaverili, a veder giocare a calcio i compagni di classe. Si stava bene all’aria aperta, immersi nella natura, difesa dal monte su cui sorge il borgo medioevale di Fumone e dalle colline circostanti più basse, che cingono quasi in un abbraccio l’immensa conca che ospita la costruzione. Ci andavamo senza sapere che cosa fosse, anche se qualche domanda avremmo dovuto farcela per via di quelle lunghe mura e di quella garitta ancora oggi abbastanza bene conservata, la prima cosa che si può vedere quando si arriva dalla città.
Ci davamo appuntamento fuori della scuola dicendoci semplicemente: “Andiamo al campo profughi”. Ma chi erano questi profughi? Non lo sapevamo, esattamente – noi del posto – come i molti, ancora oggi, che non sanno dell’esistenza, a poco più di un’ora da Roma, di un luogo della memoria dimenticato dalla storia e dalle coscienze, un luogo con una vita lunga e controversa, testimone di un tormentato passato per molte persone, italiane e straniere. Il campo è ancora lì, a cento chilometri dalla capitale, in provincia di Frosinone. L’ambiente circostante è cambiato poco, la strada che vi conduce dal centro di Alatri è sempre la stessa, le mura di cinta resistono, sebbene il tempo lasci il segno a ogni nuova stagione e la natura prepotente si riprenda i propri spazi occultando la storia. (…)
ph. Una delle piccole stanze che ospitavano gli internati.
Il servizio completo è pubblicato su Reportage numero 42, acquistabile in versione cartacea e in digitale.