Diane Arbus
– 26 Ottobre /13 Gennaio 2013 – Foam /Amsterdam. www.foam.org
di Maria Camilla Brunetti
Fino al 13 gennaio al Foam, il Centro Internazionale per la Fotografia di Amsterdam, è in mostra una monografica sul lavoro della fotografa americana Diane Arbus. Su Arbus si è scritto e detto tanto, forse troppo, ma questa esposizione merita davvero almeno qualche parola. Per la prima volta in Europa, è presentato un corpo di oltre duecento opere. Dai primissimi esperimenti rimasti a lungo inediti, ai grandi ritratti dei soggetti più indagati da Arbus, i freaks e gli emarginati della società americana, per arrivare agli splendidi ritratti della comunità intellettuale della New York di fine anni ‘50 e ’60; tra gli altri quello di Norman Mailer nel 1963, una bellissima Susan Sontag nel 1965 nella sua casa a New York, e Helene Weigel, moglie di Bertolt Brecht, a Berlino Est nel 1971.
L’esposizione lascia anche grande spazio all’ “accadimento privato” di Arbus, ricostruendo – al piano superiore – parte dello studio così com’era a New York. Sopra al letto c’era un’ampia parete bianca completamente coperta dai volti che ritraeva e dalle immagini che scattava. Ritratti e negativi, piccoli formati e grandi stampe, fogli strappati da giornali e pagine sottolineate di libri.
In merito al suo studio, Arbus scriveva:
“I like to put things up around my bed all the time, pictures of mine that I like and other things and I change it every month or so. There is some funny subliminal things that happens. It isn’t just looking at it. It is looking at it when you’re not looking at it. It really begins to act on you in a funny way”.
Gli spettatori hanno la possibilità di visionare i diari privati autografi della fotografa e di vedere esposte tutte le macchine fotografiche che l’accompagnarono nei suoi reportage. Citazioni dai suoi quaderni, frasi di libri, date e appunti. Una retrospettiva di grande valore che testimonia una coerenza stilistica e un’ossessione artistica di rara forza. Gli esordi, in cui Arbus sperimenta in forme molto private e intime il medium della fotografia, sono prodromi già pienamente gravidi di una sensibilità chiaramente riconoscibile e matura. Il vincolo tra colei che fotografa e i soggetti ritratti e, a seguire, tra costoro e coloro che assistono all’accadimento fotografico, indagati a loro volta e a loro insaputa dallo sguardo dell’artista, è già incredibilmente forte e perturbante.
L’immaginario iconografico di Arbus è un’antropologia del contemporaneo, un’allegoria dell’esperienza umana, un’indagine costante sulla relazione tra apparenza e identità, tra illusione e fede, teatro, maschere e realtà. Sono passati poco più di quarant’anni da quel 26 luglio 1971 nel quale Diane Arbus si tolse la vita nel suo studio di Wesbeth a New York. Si tagliò le vene e ingerì una dose letale di barbiturici. Aveva 48 anni. Nella sua vita fotografò soprattutto New York. I suoi abitanti e le sue strade, le sue comunità, i marciapiedi, i club nei quali si esibivano i travestiti, e gli strip bar, i parchi e le panchine, i cabaret di circo, le convention di bellezza, i campus nudisti, gli appartamenti delle grandes dames dell’Upper East Side, gli artisti, gli ospedali psichiatrici, i bambini, i musicisti, i sobborghi e le notti. Sulla predilezione della fotografa americana per soggetti marginali si è molto discusso ma cosa vedeva realmente Arbus in quell’”altro”, in ciò che si è chiamato “limite”, “margine”, “devianza”?
Era un voyerismo compiaciuto, messo in atto da un’inestinguibile distanza, da un punto privilegiato e salvo di osservazione – come da molti è stato interpretato (Arbus nasce in una famiglia colta e molto abbiente dell’altra borghesia americana) – o forse questo bisogno di sentire vicini i suoi soggetti era un infinito autoritratto, struggente e disperato? La ricerca ossessiva che la spingeva a voler portare alla luce le ombre più controverse dell’esperienza umana era un modo per indagare il mondo o per toccare con mano, forse, la parte più fragile e spaventosa di sé?
Certamente l’attrazione verso i crinali meno percorsi della società americana, quell’apparentemente insaziabile fascinazione per l’”inconsueto”, fu una direttrice costante – e percorsa fino alla fine – della pratica artistica di Arbus. La cosa che rende davvero grande e unica la sua opera però non è, o non solo, da rintracciarsi nella scelta dei soggetti, nella perfezione formale degli scatti o nella forza a volte brutale di alcune immagini, quanto nelle domande e nell’ansia che le sue opere creano nello spettatore.
Riflessioni sulla natura predatoria e ambigua del mezzo fotografico, sulla fallacità, la mistificazione e la potenza dell’esperienza visiva, sul confine labile tra coinvolgimento, complicità e compiacimento, sul limite estremo e violento del significato di norma, normativa e normalizzazione quando applicati alla condizione umana.
“The first part of my story is mostly taken from my imagination. You also must use some imagination I am not born yet…”
Questo scriveva Diane Arbus, in un tema in classe nel 1934. Fieldson School. Aveva undici anni.