La foto troppo bella rispecchia il reale? | Testo di Valentina Manchia

L’articolo che segue è pubblicato all’interno della rubrica Presa indiretta” a cura di Valentina Manchia per Il Reportage

 

Bianco, giallo zafferano, blu cobalto. Colori sontuosi, vibranti, che si sono fatti strada in queste settimane sotto forma fotografica. Sono i colori che dominano nella foto vincitrice del World press photo di quest’anno, scattata nella Striscia di Gaza da Mohammed Salem, fotografo di Reuters che lì vive e lavora. Quel bianco, quel giallo e quel blu imprimono nella memoria un urlo muto: quello di una donna velata che stringe al petto un corpo esanime. Non vediamo volti: la donna reclina il capo, le mani strette al corpo avvolto in un telo bianco, come in fasce. Anche il resto dell’immagine tace, lasciandoci senza punti di riferimento: se non fosse per quel marmo grigio che fa da sfondo e per i calzari azzurri di plastica da ospedale, di cui ci accorgiamo solo se indugiamo sul bordo della foto, nulla sapremmo del contesto in cui questo dramma si svolge.

Georges Didi-Huberman, insigne studioso di immagini, ha sottolineato con forza che le immagini non soltanto ci guardano, ma ci riguardano, rendendoci testimoni del mondo al di fuori della nostra esperienza, mondo che si incaricano di cogliere per noi. Per questo quegli occhi chiusi, sepolti nel sudario, e gli occhi della donna, a noi invisibili, ci fissano così intensamente, portandoci subito dentro la violenza di un conflitto che spesso fatichiamo a vedere.

La donna velata si chiama Inas Abu Maamar e nella foto stringe a sé il corpo di sua nipote Saly, cinque anni, morta per lo schianto di un missile israeliano che le ha raggiunte direttamente dentro casa. Lo apprendiamo dalla didascalia pubblicata sul sito del World press photo, che i partecipanti devono debitamente compilare premurandosi anche di fornire tutti i contatti delle persone nominate, così che possano essere contattate per verificare i fatti. Sappiamo poi, come recita il regolamento, che gli interventi in post produzione non devono in nessun caso eliminare elementi o manipolare arbitrariamente uno o più colori, ragion per cui occorre fornire, insieme al file definitivo, anche i raw originali.

Tuttavia, molte – e accese – sono state le critiche. Può un’immagine così bella essere anche vera? O, ancora, è lecito che un’immagine di testimonianza abbia una tale forza estetica? È come se, implicitamente, accordassimo solo alle immagini di moda o alle fotografie che affollano le mostre o i festival il privilegio di affascinarci. Come se la bellezza non potesse che alterare la realtà, sovrastarla, o peggio ancora occultarla.

Forse sopravvive ancora, anche se non ce ne accorgiamo, l’idea che la “bella foto” sia una foto di posa, ottenuta dopo minuti – che nei primi anni della fotografia erano ore – di lavoro: al soggetto toccava assumere e mantenere la posizione suggerita dal fotografo, che a sua volta aveva pianificato in precedenza la composizione e l’arredamento dell’immagine, proprio come un pittore di ritratti. La realtà, invece, parlerebbe solo una lingua fotografica brutale, scabra, non bella. Per questo al fotogiornalismo si chiede spesso conto dei suoi mezzi tecnici e lo si sorveglia da vicino, affinché non passi quel segno invisibile.

Eppure la violenza del conflitto in Vietnam sarebbe meno presente, alla nostra memoria e alla nostra coscienza, senza l’immagine della bambina nuda che corre disperata, urlando verso di noi, resa indimenticabile dallo scatto di Nick Ut. E della Guerra civile spagnola, a cui pure non abbiamo assistito, conserviamo nitido il ricordo del miliziano raggiunto dal proiettile e in contemporanea da Robert Capa.

Come ricorda Susan Sontag, che sul reportage di guerra ha scritto pagine memorabili, l’immagine testimoniale è al contempo necessaria (“la memoria ricorre al fermo-immagine”) e soggetta a una continua escalation: quanto cruda deve diventare una foto dal fronte per poter essere dichiarata vera? Quante prove di realtà deve esibire? Considerando poi, aggiunge Sontag, che le stesse foto di atrocità sotto i bombardamenti possono essere facilmente esibite in conferenze stampa di segno opposto, come è accaduto durante il conflitto dei Balcani negli anni Novanta: “Bastava cambiare la didascalia e la morte di quei bambini poteva essere utilizzata innumerevoli volte”. In questa corsa all’iperreale, anche nel fotogiornalismo, lo scatto di Salem fa spazio intorno a sé e intorno a quella scena. Accade raramente. È come se ci trattenesse sulla soglia dell’immagine, senza indugiare in dettagli, e ci chiedesse di fare silenzio. O, più esattamente, di fermarci ad ascoltare davvero quell’urlo muto.

 

L’articolo è pubblicato su Reportage numero 59 (luglio – settembre 2024), acquistabile qui in formato cartaceo e in digitale.

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