Intervista a Francesco Zizola | di Simona Scalia

 

“Gli editori sono cambiati e non credono più nel ruolo dei fotoreporter”

Fancesco Zizola, uno dei fotografi italiani più premiati, spiega perché ha deciso di non seguire più la cronaca: “Oggi i giornalisti lavorano solo con Internet, da dove prendono le notizie. Nel frattempo, i giornali non mandano più nessuno sul campo per via dei costi altissimi. Ma in rete tutto è veloce e superficiale”. La sua svolta professionale.

Francesco Zizola, romano, classe 1962. Nel 1996 il suo primo World Press Photo, al quale ne seguono nove e sei Picture of the year international, oltre a numerosi altri riconoscimenti, menzioni, libri e mostre in tutto il mondo. Nel 2003, Henri Cartier Bresson include una sua foto tra le sue cento preferite. Lo incontro nel suo studio, il 10b Photography, nel cuore del quartiere Garbatella a Roma. Il progetto al quale si sta dedicando, dopo quasi 40 anni di lavoro, si chiama “Hybris”. È dedicato al rapporto dell’uomo con i quattro elementi naturali e possiamo parlare di un’autentica svolta stilistica e creativa. Molti ricordano Zizola per i suoi reportage in Angola, Sudan, Iraq, per i suoi ritratti dei migranti in bianco e nero, per il focus sul riscatto della dignità umana. Il nuovo progetto, invece, adotta un linguaggio differente, più vicino all’opera concettuale che al documentarismo in senso classico. L’intento, tuttavia, è lo stesso: un’indagine antropologica attraverso la quale raccontare l’essere umano e la natura da un’altra angolazione, ancora più personale e delicata.

Durante l’ultima edizione del Mia photo fair di Milano, la tua installazione ha sorpreso molti, non è stata immediata l’associazione e la continuità con il tuo linguaggio precedente, nonostante siano quasi dieci anni che hai lasciato il mondo del reportage.

L’ultimo mio reportage, che era dedicato al salvataggio dei migranti, risale al 2015 e credo sia ancora valido. Oggi il tema è ancora quello, ovvero la nostra incapacità di gestire le conseguenze del nostro stile di vita, se vogliamo dirla così. Il tema dei migranti l’ho usato come un pretesto di chiusura di un percorso professionale durato trentacinque anni. Era il momento conclusivo, perché mi sono sempre occupato delle condizioni che portano le persone a scappare dal posto dove nascono, vivono, nutrono affetti, ovvero dove sarebbe naturale e logico pensare che amino rimanere. Dopo aver documentato per anni le ragioni per le quali queste persone fuggono, ho voluto raccontare l’ultimo pezzo del loro viaggio, quello che fanno sfidando il destino e che spesso le porta alla morte prima ancora di raggiungere una terra che dovrebbe rappresentare una speranza e una vita migliore.

Quindi sapevi già che quel lavoro sarebbe stato l’ultimo?

Sì, lo avevo proprio deciso. Nel frattempo già sperimentavo altri linguaggi. Sentivo che quello che stavo producendo, nel modo che ho utilizzato per tantissimo tempo per i media cartacei di un certo tipo, non era più mio. La mia maturità professionale l’ho raggiunta quando ho iniziato a lavorare con un mio stile e le mie idee, per i settimanali cartacei. Anni ‘90, 2000, in cui si lavorava bene. C’era la possibilità di approfondire le realtà con più di una fotografia, con servizi ampi: mezzi di produzione a disposizione, spazi interessati, opportunità nei giornali, tematiche che potevi approfondire. Poi tutto questo è venuto meno. Così ho smesso di fare cronaca e giornalismo.

Potresti spiegarci cosa è successo e perché hai preso la decisione di cambiare il tuo modo di comunicare attraverso la fotografia?

Da qualche anno i giornali cartacei non vendevano più come una volta. Gli editori non ci credevano più, né riuscivano a rispondere in modo sensato a una domanda digitale dove le piattaforme imponevano linguaggi diversi. Questo era molto evidente. Gli stessi editori non riuscivano a immaginare una riconversione, nonostante le debolezze delle piattaforme digitali, debolezze che ancora ci sono. Insomma, nessuno ci credeva e nessuno investiva più. Come si fa a fare giornalismo di testimonianza in quelle condizioni? Oggi i giornalisti lavorano solo su internet, da lì prendono le notizie. I giornali, per mandare gli inviati dove servirebbe, dovrebbero investire e non lo fanno, perché sanno che ha un costo. Quindi di quali notizie e codice deontologico parliamo? Di quale serietà, indipendenza ed etica? Quando ho deciso di chiudere, quel giornalismo di un tempo non c’era più. Quindi, non ritrovandomi più nella nuova realtà editoriale, ho deciso di raccontare il mondo con altre modalità. Libero dalla gabbia grammaticale produttiva del giornalismo al quale non riconosco più nessuna dignità. Ovviamente ci sono delle eccezioni, poche, che confermano la regola. (…)

 

Ph. Un’immagine tratta dal progetto “Hybris”. Foto di Francesco Zizola.

 

L’intervista completa è pubblicata in apertura di Reportage numero 59, acquistabile qui in formato cartaceo e digitale.

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