L’articolo che segue è il primo contributo della nuova rubrica “Presa indiretta” a cura di Valentina Manchia per Il Reportage
La giovane guarda fuori campo, pensosa, come per sfuggire allo sguardo del fotografo. Una donna più anziana, che le assomiglia, le si fa vicino come per sussurrarle qualcosa. Dall’angolo più in basso della foto due mani, svelte come quelle di una sarta, sembrano appuntarle l’abito bianco. L’atmosfera è quella sospesa degli attimi che precedono di poco le occasioni importanti.
Certo la foto è imprecisa – la messa a fuoco è incerta, e alcuni graffi sporcano la superficie seppiata come in quelle foto che girano per i mercatini in attesa che qualcuno le riacciuffi dall’oblio in cui sono finite. La ragazza non era ancora pronta per lo scatto, lo avvertiamo, anche se tutto era pressoché a posto: i capelli raccolti, lo sfondo uniforme, la luce misurata sul volto. Un’aria da vecchio studio di posa e da scatto rubato allo stesso tempo – ed ecco un’immagine che riesce a farsi ricordare.
È passato solo un anno da quando Boris Eldagsen, dopo aver iscritto The Electrician al Sony world photography Award e aver riportato la vittoria nella sezione Creative, ha poi rifiutato di ritirare il premio in segno di protesta contro le immagini AI-generated. Quella giovane donna non è mai esistita. Così come il fotografo, per non parlare di quei segni sulla pellicola. Questo se pensiamo alla fotografia come momento privilegiato in cui la luce cattura un frammento di reale.
Eldagsen ha puntato il dito contro la giuria, a suo dire incapace di accorgersi che la sua fotografia non era affatto una fotografia. Nel frattempo il dibattito sull’intelligenza artificiale applicata alle immagini infuria e, come accade nei momenti di grande fermento tecnologico e culturale, teorici e studiosi di media e visual studies si misurano con questo tema mentre fotografi e creativi si interrogano sul nome giusto per queste immagini: c’è chi parla di sintografie, per sottolinearne la natura sintetica, chi di promptografie, generate non dalla luce ma dai prompt, stringhe di testo che agiscono come input per l’algoritmo che produce questi output visivi.
Da allora, i social sono stati più volte invasi da presunti scatti in presa diretta che si sono poi rivelati dei fake: è di poche settimane fa l’immagine delle balle di fieno che svettano contro il cielo a sfidare la torre Eiffel mentre i trattori entrano a Parigi. Non sono bastate le incongruenze che a ben guardare sbucano da più parti, come la prospettiva stradale inventata o le ruote che corrono da sole, né la provenienza del post dall’account Instagram di un tale che si diverte a creare foto probabili ma impossibili: in poche ore e milioni di condivisioni l’immagine è diventata virale come simbolo della protesta degli agricoltori – salvo poi, poco dopo, essere dichiarata falsa.
Sempre in questi mesi, Adobe ha integrato nei suoi programmi di elaborazione grafica una funzione che consente di generare dei nuovi pezzi di immagine perfettamente combacianti con il contesto di partenza, implementando grazie all’AI la funzione Clona che già consentiva di replicare oggetti e dettagli e di fatto mettendo mano, in modo ancora più pesante, al reale fotografico.
“Oggi credo di essere soprattutto uno storyteller” aveva detto Steve McCurry in replica a chi aveva notato, tra le sue foto esposte in una mostra di qualche anno fa, una strana figura che terminava con un palo, risultato di un Clona maldestro. Sembra che ogni volta che ci raccontiamo la favola della bontà della fotogrfia, della sua esattezza di copia, di calco fedele del reale, ci troviamo di fronte a una brutta storia di inganni, nel peggiore dei casi (il fake), o di errori, nel migliore dei casi (lo scivolone tecnico di McCurry), e subito ci accorgiamo, delusi, della distanza che c’è tra la foto e quello che racconta. Allora era tutto falso. Sì e no, se riflettiamo su quanto in una fotografia dipende dai mezzi tecnologici che la rendono possibile.
Ma l’immagine da cui siamo partiti, The Electrician: quella non è fotografia, giusto?, ci verrebbe da dire. Sì e no, ancora una volta. Se quella che vediamo è una sorta di fotografia è perché sotto la guida di Eldagsen, prompt dopo prompt, dal fondo del grande archivio sommerso e invisibile di dati fotografici in cui l’AI è capace di orientarsi (milioni di ritratti, di veli bianchi, di fotografie anni Quaranta, di luci di posa, provenienti da chissà dove – ma questa è un’altra questione), ha preso forma quella donna in abito bianco.
Manca ancora un capitolo alla fine di questa storia: pare che dopo l’exploit di Eldagsen la giuria abbia dichiarato di sapere benissimo dell’uso dell’AI nell’elaborazione dell’immagine, a partire da una base fotografica, e di averla premiata proprio per questo. Insomma, se possiamo essere certi che testimoniare il vero con il falso è sempre da evitare (dalla bugia al fotomontaggio al falso storico), dobbiamo ancora fare i conti con le tecnologie AI e il loro impatto sul nostro immaginario.
L’articolo è pubblicato su Reportage numero 58 (aprile – giugno 2024), acquistabile qui in formato cartaceo e in digitale.