La lunga storia di Jamshidi, che è stato costretto ad abbandonare Herat, dove era anche vice capo di gabinetto della prefettura, ed è approdato con la famiglia a Palagiano (Taranto). Suo cugino è annegato a Cutro con la moglie e i due figli. La cosa che odia dell’Italia è la burocrazia.
SUHAILA SCORRE LE FOTO sullo schermo del telefono: i compleanni dei bambini, le torte, i palloncini, i vestiti da sera, un enorme salone con le pareti decorate e un grande tappeto di seta al centro. E poi le tavole imbandite per gli ospiti, amici e parenti. “Jamshidi ha nove fratelli e per lavoro invitava spesso tante persone. Ho sempre preparato io per tutti, a casa nostra, non abbiamo mai amato andare al ristorante. Siamo stati tanto in alto quanto ora siamo in basso della nostra vita di prima non è rimasto quasi nulla”, racconta misurando le parole e accompagnandole con un gesto del braccio, che alza lentamente sulla testa e poi riadagia sul tavolo.
Il marito di Suhaila, Gul Aqa Jamshidi, era vice capo di gabinetto della prefettura di Herat, una
delle province strategiche dell’Afghanistan, docente universitario di Scienze politiche e avvocato. Con il ritorno al potere dei talebani ha dovuto lasciare tutto: l’incarico istituzionale, l’insegnamento, l’abilitazione a esercitare in tribunale, la discussione della tesi del dottorato che aveva appena concluso.
“Ai primi di agosto di due anni fa, quando i talebani hanno cominciato ad avanzare velocemente verso Herat, abbiamo deciso di lasciare il Paese e di stabilirci temporaneamente in Iran – ricorda Jamshidi – e anche mio cugino, funzionario di polizia, ha fatto lo stesso con la sua famiglia. Entrambi avevamo lavorato nelle istituzioni, maturato molti contatti a livello nazionale e internazionale, grazie alla presenza dei Paesi Nato sul nostro territorio. La nostra speranza era trovare una mano tesa all’estero, ovunque potessero accoglierci e darci protezione, dato che lo Stato che avevamo servito fino a quel momento stava per essere azzerato.
Ho scritto alle rappresentanze consolari di mezza Europa e degli Stati Uniti, quella italiana è stata la prima a rispondere per comunicarmi che avremmo avuto il visto per me, mia moglie e i nostri tre figli”.
La famiglia è arrivata in aereo poco più di un anno fa e inizialmente è stata collocata in un centro di accoglienza a Caserta. “La situazione era terribile per noi – dice Suhaila mentre cerca alcune foto – eravamo in un casale di campagna, con la cucina esterna e i servizi in comune con altre famiglie e con uomini che erano arrivati da soli. (…)
Ph. Jamshidi e i suoi tre bambini, Marwa, Omar e Marjan.
Il servizio completo è pubblicato su Reportage numero 55 (luglio-settembre 2023), acquistabile qui in formato cartaceo e in digitale.