Mal di Libia | di Nancy Porsia (Bompiani)
L’intervista è pubblicata su Reportage numero 55 (luglio-settembre 2023), all’interno della rubrica “Un autore un libro” a cura di Maria Camilla Brunetti
ll 4 novembre del 2011, come racconti in Mal di Libia, sei arrivata per la prima volta nel Paese con la sensazione di essere in ritardo sulla Storia. Il 20 ottobre del 2011 infatti Gheddafi era stato ucciso dai ribelli di Misurata. L’incontro con la Libia sarà però determinante e ti porterà alla scelta, tra i pochissimi giornalisti occidentali, di restarci a vivere. In che modo questa esperienza ha cambiato il tuo sguardo sulla tua professione?
Il giornalismo da campo non è un mestiere ma uno stile di vita. Si sceglie di rimanere costantemente esposti alla dimensione di conflitto, di sottoporsi a input culturali e concettuali che giorno dopo giorno vanno a definire la tua identità. Quando poi si sceglie di vivere in un Paese che è zona di crisi questa relazione diventa intima. Chi va e viene si può permettere il lusso di dimenticare per un po’ gli effetti nefasti della guerra così come, il giorno dopo la pubblicazione della propria storia, non deve necessariamente fare i conti con quel che le proprie parole lasciano dietro di sé. Invece rimanere implica l’obbligo di prendersi la responsabilità deontologia e morale di quel che si scrive. Se lo si fa da giornalisti indipendenti non ci si può concedere neanche il beneficio del dubbio che spesso una testata e un direttore alle spalle garantiscono. Per quattro anni sono stata sola sul campo, a corpo libero, senza protezioni. Lentamente sono uscita dalla mia buffer zone subendo una muta prima culturale e poi politica finendo in una terra di mezzo forse equidistante tra il garantismo europeo e l’anarchia libica. Tutto questo mi ha restituito il senso della misura di una professione rimasta ancorata all’insieme della narrazione colonialistica unidirezionale. Un giornalismo da paracadute, due settimane e via, rischia di alimentarsi di propri cliché culturali mettendo a repentaglio processi politici delicati.
In Libia hai avuto modo di incontrare a più riprese persone coinvolte nel traffico di migranti, sei stata nelle prigioni in cui i migranti vengono internati in condizioni disumane. Il traffico di uomini dalla Libia è, da anni, uno dei temi più controversi e più caldi nelle agende politiche dei Paesi europei e nel dibattito pubblico occidentale. Qual è la difficoltà e quali i rischi di raccontare personaggi di questo tipo e il contesto in cui si muovono?
La prima difficoltà che ho incontrato è stata quella di capire il contesto in cui lo smuggling prima e il trafficking prendono corpo e si strutturano. Ero troppo europea quando sono arrivata nel Paese tanto che per me il trafficking valeva quanto lo smuggling. Laddove in inglese c’è una distinzione lessicale tra i due concetti, in italiano no. Ho dunque iniziato a porre l’accento sulle parole, sul lessico, imparando a mie spese che la terminologia adottata dalla politica troppo spesso viene percepita come neutra, quasi scientifica. Invece bisogna ripartire dalle parole, calarle nel loro contesto, adottare il pensiero critico verso il lessico messo in campo dalla politica come trafficanti, cooperazione, campo profughi etc perché troppo spesso ci dimentichiamo che la politica è il principale player della partita che si disputa e il suo linguaggio è fazioso e non neutrale. Dopo la comprensione del contesto altro, la grande sfida per un giornalista è reinventare un lessico adeguato, rispettoso della realtà dei fatti e non culturalmente orientato e allo stesso tempo comprensibile per l’opinione pubblica internazionale. Io ad esempio ho ritenuto doveroso reintrodurre nella lingua italiana il concetto di “passatore”, e non è stata un’operazione facile. Dopodiché sul campo io non ho mai avuto la percezione del rischio. Forse perché ho sempre avuto il tempo necessario per un approccio chiaro e onesto con questi personaggi. Non ho mai pagato nessuno per l’intervista. In Libia avevo la fama di “quella che vive qui, una che veramente capisce”.
Hai avuto il coraggio di denunciare la rete criminale libica che gestiva il traffico di migranti sulle coste di Zawiya. Quell’inchiesta ha avuto pesanti ripercussioni sulla tua incolumità e sulla libertà di esercitare la tua professione. Ce ne puoi parlare?
Quella di denunciare è stata una scelta dettata dalla mia etica prima che dalla deontologia. Quando le prime volte mi sono stati fatti i nomi e i cognomi degli ufficiali coinvolti nel traffico, già in Italia si parlava di cooperazione con la guardia costiera libica. L’ho vissuta come una corsa contro il tempo nella speranza, oggi direi illusione, che la mia testimonianza giornalistica potesse produrre un cambio di passo nelle politiche migratorie europee. Sapevo che avrei perso l’accesso al Paese, sapevo che avrei ricevuto minacce di morte. Ma sono andata dritta per la mia strada, e ho lanciato il cuore oltre l’ostacolo pensando che se avessi salvato anche solo una vita il mio sacrificio sarebbe stato ampiamente ripagato. Denunciare la rete del traffico in realtà per me significava denunciare le dinamiche della mafia libica in erba che prima dei migranti in transito nel Paese, soffocano gli stessi libici e libiche. Oggi non ho rimorsi se non la certezza che il giornalismo indipendente è ancora troppo bistrattato, non compreso.