Ibrahim è seduto vicino alla tenda che dopo il 6 febbraio è diventata la sua casa. È una delle tante di una lunga fila che da Atatürk Bulvarı, il viale che attraversa tutta la città di Adiyaman, si intravede appena, perché nascosta da un grosso cumulo di macerie e dagli ultimi due piani di una palazzina che è rimasta integra per metà, adagiandosi sulla costruzione confinante, con le finestre ancora chiuse, i vetri intatti e le cornici arancio.
“Per quattro giorni qui non si è visto nessuno – racconta l’uomo, seduto su una sedia di plastica ricoperta con un pezzo di cartone – mio nipote è rimasto bloccato sotto le macerie tutto quel tempo e continuava a urlare, a chiedere aiuto, ma noi da soli non riuscivamo a salvarlo. Alla fine ci hanno dato una mano delle persone arrivate da altre città, dall’est della Turchia, ma delle istituzioni locali non abbiamo visto nessuno. Sono arrivati persino dei politici da Ankara a portare solidarietà, mentre il sindaco di questa città non si è fatto vivo. Anche i corpi senza vita restavano per strada, all’inizio, poi sono stati portati negli ospedali. Abbiamo seppellito i nostri cari senza nemmeno poterli lavare”.
Ibrahim ha perso undici familiari. Anche gli altri sfollati di questo gruppo hanno avuto almeno un lutto. “In queste due tende dorme quello che resta di dodici famiglie, tutte numerose. I miei cari erano in casa quella notte, vivevano in una palazzina di cinque piani qui vicino – ricorda Ibrahim – in totale le vittime di quel crollo sono state 17. Gli abitanti dei tre appartamenti al secondo piano sono morti, quelli del primo e del piano terra si sono salvati. Ma ci sono costruzioni in cui vivevano dalle 600 alle 700 persone che si sono disintegrate, e molti corpi non sono stati ancora recuperati”.
Adiyaman è una delle città più devastate dal terremoto che due settimane fa ha colpito l’Anatolia sudorientale e il nord della Siria, causando decine di migliaia di morti che al momento è ancora impossibile quantificare con esattezza. Ogni stima attuale, dicono i sopravvissuti, è al ribasso, perché ci sono zone dove gli scavi fra le macerie non sono ancora cominciati. “La nostra città prima del terremoto contava circa 270mila residenti – spiega Hasan, anche lui sfollato – ma se pensiamo a quanti palazzi sono crollati, soprattutto quelli più alti e popolati, temo che i numeri ufficiali che oggi vengono diffusi come la totalità dei morti per il terremoto, non basteranno a contare le sole vittime di questa zona”.
Tutti qui lamentano ritardi negli interventi di primo soccorso e nella gestione degli sfollati. “Se si fosse cominciato a cercare prima, con mezzi adeguati, sarebbero sopravvissute molte persone in più – dice Jina, che nel terremoto ha perso un figlio e un fratello, e ora assiste coraggiosamente al lavoro delle ruspe dove prima aveva il suo locale – queste macchine sono arrivate da poco, prima non c’era nulla, tanti sono morti di freddo sotto le macerie, perché è passato troppo tempo”.
Ovunque ci sia uno spiazzo sterrato, o una piccola area verde, sono state collocate delle tende. La maggior parte distribuite dall’Afad, la Protezione civile turca, altre costruite dagli stessi abitanti. Ma in questi campi manca tutto: i bagni, l’acqua, la legna per le stufe. Si accendono piccoli fuochi per terra, per riscaldarsi, e quando finiscono i rami degli alberi trovati per strada o le assi dei pallets fatti a pezzi si bruciano i rifiuti.
Gli unici punti di raccolta e distribuzione della Mezzaluna rossa e della Protezione civile si trovano in centro, davanti alla Prefettura. Ma molte persone non riescono a raggiungerli. Un altro punto di aiuto, autogestito dai curdi, che qui rappresentano la comunità di maggioranza, è stato allestito presso il Centro culturale Alevita, dove la sala di culto è diventata un dormitorio e il cortile una mensa a cielo aperto. All’interno c’è anche un’infermeria per l’assistenza sanitaria e la distribuzione di farmaci.
“Non solo gli aiuti sono arrivati in ritardo qui – dice Junus, un giovane medico che sta prestando servizio volontario nel Centro – ma spesso la polizia ha impedito la distribuzione da parte della società civile, ha bloccato i camion con cibo e medicinali, sequestrato i magazzini dove era stato stoccato il materiale e annunciato che avrebbero pensato loro a tutto. Ma qui poi non è arrivato nulla. Avevamo aperto un altro presidio sanitario, ma ci hanno detto che i locali servivano per attività più urgenti e ci hanno fatto sgomberare. Questo è l’unico rimasto. Le persone hanno problemi legati al freddo, alla mancanza di igiene, e poi ci sono quelli che avevano patologie pregresse, che non sanno come trovare i farmaci che prendevano abitualmente. Noi siamo medici, infermieri, farmacisti, studenti universitari di facoltà sanitarie, sia curdi che turchi, e vogliamo solo dare una mano. Le conseguenze di questo terremoto potranno essere ancora più devastanti se non cerchiamo di frenare l’emergenza sanitaria. In queste condizioni si rischiano epidemie, e vogliamo impedirlo”. E’ un lavoro senza fine.
Ph. I danni causati nella città di Adiyaman dal terremoto che il 6 febbraio 2023 ha colpito l’Anatolia sud orientale e il nord della Siria. Foto di Ilaria Romano.