Crossroads | di Jonathan Franzen (Einaudi)
Esistono romanzi di trama e romanzi di lingua: quelli di Franzen rientrano nella prima categoria. Siamo nei primi anni ’60 e Crossroads è il nome della comunità ortodossa di cui si contendono la leadership il pastore Russ Hildebrandt, marito di Marion e padre di Clem, Becky, Perry e Judson, e Rick Ambrose, giovane carismatico, amatissimo in parrocchia. Il conflitto tra i due si inasprisce dopo l’accusa di molestie a Russ: la difesa da parte del figlio maggiore non farà che guastargli anche i rapporti familiari. D’altra parte Clem, che ha un rapporto privilegiato con Becky, frivola e desiderosa di affermazione sociale, al college si fidanza con una ragazza disinvolta e engagé di cui diventa succube al punto da lasciare gli studi e provare ad arruolarsi per il Vietnam. Intanto attraverso l’incontro con l’analista (“il raviolo”) conosciamo Marion: padre suicida, lei stessa vittima di crisi maniaco-depressive quand’era la segretaria di un rivenditore d’auto. La storia con un impiegato della stessa ditta, sposato, l’aveva ossessionata fino all’autolesionismo. Non è difficile dedurre che la religione sia il fil rouge: Marion si salva “parlando con Dio” e frequentando la comunità in cui conosce Russ, che sposa senza svelargli molto di sé. Ecco che stenterà a condividere con lui l’ansia per Perry, spacciatore e marijuana addicted. Emulo della madre, il sedicenne incapperà in figuri sempre più sordidi precipitando in una situazione letteralmente esplosiva. Becky ha nel frattempo sedotto il leader del gruppo musicale di Crossroads, che ha lasciato per lei la fidanzata vittima di abusi familiari (e accusatrice di Russ). La resa dei conti per tutti è un ritiro presso i navajo, in cui lo scarto tra aspettative e realtà funziona da (parziale) catarsi. Il libro chiude su un disincanto che riecheggia il finale di Lolita, senza un vero scandalo a contorno. Al cimento con i suoi temi (famiglia/individuo, società/storia, cui si aggiunge Dio a mo’ di supervisor), Franzen si concede troppi saliscendi, tra riuscita introspezione (Marion e la psicanalista), inutili ripetizioni (il colloquio con Dio) e tonfi clamorosi (la catabasi di Marion e Perry: puro trash). La figura migliore la fanno i giovani: Perry che si domanda se Dio sia un essere superiore o un generico “Steve” e Becky che, invitata da Clem a perdonare i genitori, lo fredda con la battuta migliore del libro: “Ok amare il prossimo ma non deve starmi pure simpatico”. Gilda Policastro
Scompartimento numero 6 | di Rosa Liksom (Iperborea)
Spesso, quando si vuole elogiare un saggio o una biografia, si dice: “Sembra un romanzo”. Del romanzo di Rosa Liksom, Scompartimento n.6, vogliamo invece dire che è scritto “come un reportage”. Perché del grande reportage ha il ritmo, l’efficacia delle descrizioni, la cura dei dialoghi, l’attenzione per il dettaglio, la forza della testimonianza. Racconta un interminabile viaggio in treno da Mosca a Ulan Bator (Mongolia) lungo la Transiberiana. L’azione è ambientata nell’Urss anni Ottanta, quando il Paese cominciava a sfarinarsi; i protagonisti sono un operaio russo e una ragazza finlandese, che condividono, appunto, lo scompartimento. I caratteri dei due non potrebbero essere più lontani tra loro: lui rozzo, erotomane e dipendente dall’alcol (non c’è capitolo dove non chieda alla ragazza di fare sesso o non si attacchi a una bottiglia di vodka), lei còlta, romantica, pudica. Un ruolo centrale, ovviamente, ce l’ha anche la locomotiva Vittoria, che sbuffa, ringhia, rallenta, prende velocità, si guasta. Le stazioni nelle quali ferma scandiscono la vita di lui e di lei, che arriveranno insieme al termine del viaggio dopo essersi raccontati reciprocamente la propria vita, aver superato le incomprensioni (ma senza mai fare l’amore), affrontati innumerevoli pericoli. Nel frattempo, fuori dai finestrini, scorre il paesaggio sovietico, che cambia tappa dopo tappa e via via diventa steppa, foresta, valle, montagna, tundra artica. Riccardo De Gennaro
Maledetta Sarajevo | di F. Battistini e M.G. Mian (Neri Pozza)
Sono passati oltre trent’anni dalla guerra nei Balcani, da quello che è stato uno dei più sanguinosi conflitti europei, il primo dalla Seconda guerra mondiale. Sono passati esattamente trent’anni dalla morsa che strinse in uno degli assedi più feroci che la storia contemporanea ricordi la città simbolo dell’eredità multietnica, multiculturale e multiconfessionale dell’Europa: il 6 aprile del 1992 iniziava l’assedio di Sarajevo, che si sarebbe portato per quattro tragici, interminabili, anni fino alla fine di febbraio del 1996. Ma perché la storia della guerra in Bosnia è così fondamentale per comprendere il presente che viviamo? Perché conteneva in sé tutti quei nervi scoperti e quelle questioni cruciali del contemporaneo che – rimaste irrisolte, macchiate di sangue e radicalizzate – hanno portato ai conflitti che si sono succeduti dalla fine degli anni Novanta del Novecento fino ai nostri giorni. Cosa avremmo dovuto imparare dalla guerra dei Balcani e perché invece si continuano a commettere gli stessi errori di allora in nome della stessa follia nazionalistica e predatoria? Perché si cerca continuamente di rimuovere la ferocia di quella storia? I giornalisti Francesco Battistini e Marzio Mian, in Maledetta Sarajevo, raccontano questa storia da dentro e tornano a incontrare i protagonisti e i testimoni di quegli anni tragici in un’inchiesta a tutto campo sui postumi di un conflitto mai veramente finito. Maria Camilla Brunetti
Il quartetto Razumovsky | di Paolo Maurensig (Einaudi)
Paolo Maurensig, scomparso l’anno scorso, ci ha lasciato un romanzo postumo intensamente originale. Il quartetto Razumovsky, da poco uscito per Einaudi, rivoluziona l’idea di libro giallo. La trama del thriller si compenetra con un memoir, così come la vicenda sentimentale è percorsa da agnizioni filosofiche. Abituati a narrazioni dell’orrore dozzinali, in questo libro entriamo invece nella complessità della mente, dove il male – dalla violenza procurata alla malattia fisica – riesce a essere non solo il filo rosso della suspence, ma uno spettro per indagare la storia del genere umano e il suo lavoro immaginativo. I musicisti del quartetto Razumovsky, ora in un espatrio da intellettuali sessantenni, vengono dalla Germania di Hilter. Adesso vivono nel nevoso Montana e si ritrovano per caso, per un ultimo sogno: ricomporre la sintonia del quartetto, offrire ancora lo spettacolo immortale di un’arte. L’utopia viene interrotta da un suicidio che si rivela omicidio. Le identità restano sempre in un cono d’ombra, così come il cattivo funzionamento fisiologico del cervello a causa di un incidente – sventura che accade al protagonista – può proiettare l’esperienza in dimensioni incomunicabili tra loro, eppure paradossalmente tutte reali. Maurensig fa una disamina del caso che determina gli eventi, ricuce i ‘non-detto’ delle vite, “l’incompiuto” che “tenderà a compiersi”, la morte e l’amore come processi di stratificazioni tra fasi dell’esistenza e della storia. Maria Borio
Lo scaffale degli ultimi respiri | di Aglaja Veteranyi (Keller)
“Quando il porco era ancora vivo, ci hanno picchiati per strada e poi ci hanno ficcati in carcere. I feriti gravi li fucilavano subito. A me hanno legato mani e piedi insieme col filo di ferro e mi hanno sbattuto la libertà fuori dai polmoni con un sacco di sabbia”. C’è anche Ceausescu nel romanzo Lo scaffale degli ultimi respiri di Aglaja Veteranyi, che quand’era ragazzina fuggì con la sua famiglia di circensi dalla dittatura rumena, vagabondò per l’Europa e finì per approdare in Svizzera, dove si suicidò nel 2002, a quarant’anni. Analfabeta, grazie a un’enciclopedia illustrata per ragazzi inventò una sua lingua nella lingua tedesca e l’adottò per scrivere due romanzi con uno stile secco, essenziale, che lavora per sottrazione: le frasi sono brevissime, elementari, quasi tutte separate tra loro da un punto e a capo, ma molto poetiche e dense di significato. Come il precedente, Perché il bambino cuoce nella polenta, anche questo romanzo ha per tema l’infanzia e racconta storie di malattia, emigrazione, infelicità, morte: “Io mi suicidavo ogni giorno, mi impiccavo al calorifero o penzolavo dal balcone (…). Morivo di buio, estate, tristezza o pelle lunga”. Amata e stimata dallo scrittore svizzero Peter Bichsel, Aglaja visse un rapporto vitale e ossessivo con la madre, controverso e distante con il padre. Gli ultimi respiri sono i respiri di chi è sul punto di morire e lo scaffale è la biblioteca di Dio. Il suo ultimo respiro Aglaja lo esalò un istante prima di gettarsi nelle acque gelide del lago di Zurigo. Riccardo De Gennaro
Tutte le recensioni sono pubblicate su Reportage numero 50 (aprile-giugno 2022), acquistabile in libreria e qui in versione cartacea e digitale.