Cara Pace | di Lisa Ginzburg (Ponte alle Grazie)
L’intervista è pubblicata in Reportage numero 47, nella rubrica “Un autore un libro” a cura di Maria Camilla Brunetti.
Come nasce l’idea di Cara pace, come nascono i personaggi che lo compongono?
Tutto si è configurato “da solo”, cioè a un livello a lungo latente e solo grazie a una serie di visioni progressive invece più consapevole, germe di un romanzo. Chiaro avevo soltanto il desiderio di esplorare un legame tra sorelle, quello che ritengo essere una forma di relazione familiare tra le più complesse, ambivalenti e feconde in termini narrativi. I due genitori volevo raccontarli nella loro fragilità. Gli assetti e le dinamiche successive sono elementi che si sono disegnati dopo. Un gioco a incastri la cui architettura ha condotto la mia scrittura, e non vice- versa.
È un universo femminile, quello di Cara pace, il racconto di molti mondi in una relazione osmotica tra loro. C’è anche però grande senso di silenzio e ricerca ossessiva di movimento fisico. Mylène, la giovane tata che cresce le bambine, è il personaggio che le salva dal dolore dell’abbandono materno insegnando loro il rigore dell’esercizio fisico. Perché questa figura?
Pensavo a una sponda, a una figura adulta di riferimento che funzionasse da “contenitore” di un nucleo famigliare atomizzato, esploso. Non immaginavo Mylène sostitutiva alla madre, piuttosto una sorta di “amica” più grande che garantisca alle due sorelle abitudini, ritmi, struttura, cioè tutto quanto a Maddalena e a Nina manca. Così è venuta l’idea che questa governante fosse straniera, nordica, che avesse quindi codici culturali diversi da quelli delle ragazze, obbligandole a fare un ulteriore salto in termini di crescita. E poi è sopravvenuta l’idea dello sport, pensato come forma di disciplina quotidiana, esercizio di resilienza non solo mentale, anche fisico, dunque vicino agli impulsi del corpo. Trasmettendo loro un sapere del corpo, Mylène trova comunque con le due sorelle un codice di scambio intimo: silenzioso, ma intimo.
Il perno narrativo di Cara pace, mi sembra possa essere individuato nell’assenza. L’assenza della madre Gloria è il trauma attorno al quale la vita della due figlie, Nina e Maddalena, si compone. Eppure il personaggio di Gloria mi sembra emerga forse come il più coraggioso, il più onesto, tra quelli del romanzo. È una lettura pertinente, la mia?
Assolutamente. Proprio la sua onestà è quel che più la fa amare dalle sue figlie. Quando un genitore ha la forza di raccontarsi con interezza, senza temere di mostrare le proprie contraddizioni ricoprendole con maniere formali e frutto di sensi di colpa, allora quel genere di coraggio è premiato. Magari non subito, più nella lunga durata, ma riconosciuto. Perché quel che si vorrebbe e si cerca dai genitori (e dalla struttura-famiglia in generale, mi spingerei a dire) è soprattutto verità.
Il romanzo, a mio avviso, è una metafora letteraria della fragilità dell’idea stessa di famiglia, della complessità di un’istituzione che contiene e plasma molte delle ferite umane. È così?
Più che altro direi che la storia di Cara pace racconta la forza dei legami come molto più potente e carsicamente influente della struttura-famiglia in sé. Operiamo scelte e attuiamo posizionamenti nelle relazioni con i nostri familiari, e si tratta di decisioni interiori che sono spesso avulse dai contesti esterni, sono opzioni intime e misteriose, intese naturali, accoppiamenti spontanei che non rientrano negli schemi imposti dalle genealogia. E tuttavia, quelle stesse inclinazioni creano scompensi nella griglia dei rapporti, e quegli stessi scompensi possono diventare ferite. C’è tutta la metafora del nostro rapporto con l’Altro nei nostri legami di famiglia. Le gioie e i dolori delle relazioni che conosciamo nell’infanzia diventano inclinazioni (spesso nevrotiche) nella vita adulta. Per recidere la nevrosi bisogna saper ripercorrere la storia di quei legami, riraccontarla per non lasciarsene invadere: un po’ come fa Maddalena nel romanzo.