Le guerre delle donne (Infinito edizioni) | di Emanuela Zuccalà
L’intervista è pubblicata in Reportage numero 46, nella rubrica “Un autore un libro” a cura di Maria Camilla Brunetti.
Come nasce l’idea di questo libro, che è il frutto di molti anni di lavoro in alcuni dei contesti più critici a livello internazionale per quanto riguarda la condizione di donne e bambine?
Da tempo desideravo una nuova edizione di Donne che vorresti conoscere, un mio libro del 2014 con varie storie di donne che s’oppongono alle ingiustizie, alla violenza, al ruolo di vittime che qualcuno vuole cucire loro addosso. Le guerre delle donne ne è invece diventato la continuazione, con qualche volto dal libro precedente – quelli da cui proprio non riuscivo a staccarmi, giornalisticamente e umanamente – e tante altre voci nuove, ascoltate negli ultimi anni. L’idea di fondo resta la stessa: parlare di violenza di genere, ma soprattutto di diritti femminili, non solo con dati, memorandum e agende politiche, ma mettendo in primo piano le tante storie diverse di abuso e di riscatto.
Le guerre delle donne mi sembra che racchiuda, nell’eterogeneità e diversità delle testimonianze di donne che hai documentato, uno straordinario esempio di come l’azione di ogni singola persona, in determinati contesti, abbia la forza di cambiare una società o una comunità. È così?
In parte sì, ma preciserei un punto. Soprattutto nella narrazione mediatica dell’Africa, che è il mio luogo del cuore ed è quindi molto presente nel libro, le donne sono spesso ritratte secondo due stereotipi polarizzati: o come povere vittime senza speranza, o come eroine isolate che emergono dalle ceneri con una bacchetta magica per risolvere i problemi della loro società. È vero che ci sono singole donne pioniere del cambiamento, poiché più temerarie e anticonformiste, tuttavia ho osservato che la rivoluzione autentica – che è lenta, talvolta snervante tra i suoi ostacoli, ma certo più duratura – s’innesca quando si realizza la vera sorellanza: gruppi di donne che s’uniscono per fare la differenza.
Nel libro parli anche di Uncut, un tuo progetto molto strutturato al quale hai lavorato per anni. Ce ne puoi parlare?
Uncut è un progetto multimediale sul tema della mutilazione genitale femminile, una pratica tradizionale che, secondo le stime dell’Unicef, riguarda 200 milioni di donne nel mondo, in particolare nel continente africano, e ne compromette la salute fisica, psicologica, sessuale e ri- produttiva. Dal 2015, con reportage e inchieste pubblicati in vari Paesi, un film, un webdoc, una mostra fotografica itinerante, racconto il tema e le battaglie delle donne africane per sradicare questa crudeltà. Negli anni Uncut s’è dunque trasformato in una campagna d’informazione e sensibilizzazione sui diritti delle donne, è entrato al parlamento europeo e all’Onu, dimostrando – anche – come il giornalismo possa trovare significati più attuali nell’impegno civile.
Nella raccolta di testimonianze che compongono Le guerre delle donne, sono comprese anche quelle che poi hanno portato alla realizzazione del tuo ultimo documentario, La scuola nella foresta. Ci puoi parlare di questo progetto?
È il capitolo più recente di Uncut. L’ho realizzato in Liberia, dove la mutilazione genitale femminile non solo è legale, ma è persino appoggiata dal governo, in quanto considerata un’importante tradizione degli avi, un elemento d’identità culturale. In Liberia il taglio del clitoride è il rito d’iniziazione a una società segreta di sole donne, molto potente anche politi- camente. Le bambine vengono mandate nelle “scuole nella foresta” dove imparano le mansioni di mogli e madri, rimanendo analfabete. Le donne che s’oppongono a questo sistema violento rischiano la morte e la stessa mutilazione genitale. Nel libro racconto di un’attivista liberiana che è stata rapita e tagliata: uno degli incontri più sconvolgenti della mia vita.