Jay Ullal racconta di quando si trovò nel mezzo di una sparatoria a Damur, il reportage di guerra – tra centinaia in tutto il mondo – al quale si sente più legato. Il primo riguardò il conflitto cino-indiano del 1963, poi il Vietnam. Le differenze tra i reportage di oggi e quelli di ieri…
Nato a Bangalore (India) nel 1933, Jay Ullal è un fotoreporter che ha lasciato un segno indelebile nella storia del fotogiornalismo mondiale. Jay, infatti, è stato per oltre trent’anni il fotografo della rivista tedesca Stern ed è grazie a lui che verso la metà degli anni ‘70 la rivista compie una svolta importante, spostando l’attenzione sui temi internazionali. Il connubio Jay e Stern è perfetto e dà luogo a una produzione di fotogiornalismo senza uguali. Jay ha già una visione particolare del reportage, capacità uniche di “entrare” ovunque, grande abilità di esecuzione fotografica e un grande fiuto per le notizie. Con i suoi reportage fotografici ha coperto tutto, guerre, genocidi, massacri, miserie, monarchie, attori e attrici, politici, gente emarginata, catastrofi ambientali, pestilenze, colera, lebbra, aids. La sua visione del mondo gli ha permesso di affrontare tematiche mai toccate prima, come lo sfruttamento sessuale dei minori nelle Filippine, in India e in Thailandia, i bambini soldati, le spose bambine, le vie della droga, il traffico di organi, il lavoro minorile. Mi riceve nella sua villetta appena fuori Amburgo. Mi porta subito nel suo studio, sulla parete sinistra ci sono numerose foto di grosso formato, molti primi piani, riconosco Willy Brand, il Dalai Lama, Arafat, madre Teresa di Calcutta, Indira Gandhi, sulla parete destra centinaia di foto ricordo con altre personalità di tutto il mondo.
Jay, qui vedo decine di fotografie, quali sono i personaggi ai quali ti senti più legato?
Sinceramente con molte di queste persone mantengo ancora oggi degli ottimi rapporti. Ma mi sentirei di dire che per Nehru, che fu primo ministro dell’India dal 1947-1964, Hun Sen, il primo ministro della Cambogia dal 1998 a oggi, il Dalai Lama e Arafat nutro un grande affetto. Con loro c’è sempre stato un feeling particolare. Ci legano situazioni, simpatie reciproche, reportage. Tralasciando Nehru, che è indiano come me, Hun Sen prima di diventare primo ministro era stato il mio traduttore durante la guerra dei Khmer Rossi contro il governo filo- americano, ma anche quando il Vietnam invase la Cambogia per liberarla dal governo sanguinario di Pol-Pot. Con il Dalai Lama ci lega un’amicizia profonda. Dopo l’invasione del Tibet da parte della Cina, l’India concesse asilo politico al Dalai Lama, lui si rifugiò e ritirò in esilio in un piccolo villaggio di montagna, Dharamsala. Nel 1977 fui uno dei primi ad andarlo a fotografare, ricordo che l’intervista durò cinque giorni! Da allora abbiamo continuato a mantenere le nostre relazioni. (…)
ph. Una montagna di teschi degli oppositori uccisi da Pol Pot in Cambogia (1979).
L’intervista completa è pubblicato su Reportage numero 44, acquistabile qui in versione cartacea e in digitale.