I più attenti, pure in tempi di pandemia, hanno potuto nuovamente leggere dell’Iraq l’11 marzo, quando sono stati lanciati alcuni razzi contro la base di Taji, una ventina di chilometri da Baghdad, nel giorno del “compleanno” del generale iraniano Qasem Soleimani, ucciso da un drone americano il 3 gennaio scorso. La conseguente crisi fra Stati Uniti e Iran già allora aveva catalizzato l’attenzione internazionale, allontanandola dalle rivendicazioni della società civile, che a Baghdad e nelle altre principali città del centro e del sud del Paese era scesa in piazza dai primi di ottobre.
Per la prima volta gli iracheni sono stati in grado di creare, nei mesi passati, un microcosmo dove si è sperimentato un altro mondo possibile, intorno a piazza Tahrir, delimitato dalle barricate erette sui ponti Al Jumariyah, Sinak e Ahrar, le piazze Tayeran, Al Khilani e il viale Al Sadoun. Un presidio permanente per migliaia di persone, fatto di condivisione, dialogo, organizzazione capillare della vita da campo, con turni per la cucina, centri medici aperti ventiquattr’ore su ventiquattro, raccolte fondi per cibo, coperte, tende, farmaci, spazi di creatività e cultura, con piccole biblioteche e luoghi per dipingere, scolpire, organizzare flash mob.
Era stato aperto anche un centro di raccolta per gli oggetti smarriti, affinché nulla andasse perso: un portafogli, un mazzo di chiavi, un passaporto, una patente, un telefono, qualunque cosa ritrovata per terra, poteva essere presa in carico come fosse propria, consegnata, catalogata in attesa del legittimo proprietario. La pulizia di questi luoghi, gestita sempre dai manifestanti, ha fatto da esempio al sistema pubblico urbano, e ha reso il posto più affollato di Baghdad anche il più curato di tutta la capitale.
“Abbiamo provato a rendere questo posto come casa nostra – dice Mohammad, uno studente che ha dormito per mesi in uno dei locali del sottopassaggio di piazza Tahrir, insieme ad altri colleghi di università – cuciniamo qui, organizziamo partite di scacchi, dibattiti sul Paese che vorremmo. Ma soprattutto ci siamo riappropriati di un pezzo di città che finora era rimasto chiuso”.
Qui sotto c’è anche uno dei primi murales realizzati da Imad, writer ed esperto in informatica: si tratta di una composizione calligrafica dove le lettere dell’alfabeto arabo compongono un enorme cerchio colorato. “È la prima opera che ho fatto qui a Tahrir – racconta – e per me è stato emozionante esprimermi in questo luogo, rinnovarlo, contribuire alla rivoluzione con il mio talento.”
La thawra, rivoluzione, non si è fermata nonostante gli scontri con le forze armate, e le vittime, che sin dall’inizio non sono mancate. Quei giovani, oltre 600, fra Baghdad e le altre città, sono diventati i martiri delle proteste. Per ricordarli i loro compagni hanno creato dei memoriali diffusi in tutto il presidio, in cui hanno raccolto fotografie, oggetti personali, ma anche i resti dei proiettili di gas lacrimogeno sparati ad altezza uomo contro di loro.
Nemmeno le incursioni, ripetute, di gruppi di milizie, hanno scoraggiato la partecipazione al presidio e i manifestanti hanno cercato di resistere alle aggressioni, ai rapimenti, alle sparizioni. Ad essere presi di mira sono stati soprattutto gli attivisti che più si erano esposti, come Salman Khairallah e Omar Khadhem al-Ameri, sequestrati nel dicembre scorso mentre si trovavano fuori dal presidio e poi rilasciati dopo alcuni giorni.
Come testimoniato da Human rights watch, soprattutto a partire dal 25 gennaio, è stata condotta una campagna di deliberata violenza allo scopo di sgomberare definitivamente le piazze, con la connivenza delle autorità che avrebbero avvallato l’invio di gruppi paramilitari a sparare contro i manifestanti e ad incendiarne e distruggerne le tende. Da allora, quasi quotidianamente, si sono verificati scontri, e nuove vittime.
In tutti questi mesi non hanno mai smesso di lavorare medici e infermieri che a Tahrir hanno gestito le tende del primo soccorso, arrivate ad essere 85 alla fine del 2019, dove hanno prestato aiuto non solo ai manifestanti feriti, ma anche a quella parte di popolazione esclusa dal sistema sanitario perché impossibilitata a trovare le risorse economiche per curarsi.
“Abbiamo ottimi professionisti in Iraq – racconta Mushtaq, infermiere – il problema sono le strutture ospedaliere carenti. L’accesso è gratuito, ma al paziente è richiesto di comprare tutto il resto, quindi anche i farmaci. E chi non ha i soldi, e sono in tanti, di fatto non si può curare”.
Najim invece è un dentista, e tanti suoi colleghi sono qui a offrire i loro servizi alle persone, e non è strano trovare poltrone attrezzate allo scopo in diverse tende. Perché se non ci si possono permettere le medicine, la cura dei denti è proprio un lusso per pochi. “Finché non si raggiungono diversi anni di servizio non percepiamo alcun tipo di stipendio – racconta – quindi lavoriamo gratis per il servizio pubblico. Così molti di noi hanno deciso di mettersi in malattia e venire qui, almeno non pagano neanche i pazienti”.
Le tende si sono fatte più rade, e le persone in piazza sono sempre meno, almeno chi ci resta giorno e notte. Le manifestazioni ci sono ancora, come quella delle donne dell’8 marzo, ma i numeri sono diversi dai primi mesi. Complice anche la paura del contagio da Corona virus, che ha raggiunto l’Iraq, con numeri contenuti, al momento, ma grande rischio di diffusione soprattutto nelle aree più povere e ad alta densità abitativa.
La scorsa settimana le scuole e le università sono state chiuse, come pure il confine con l’Iran, le compagnie aree presenti sul territorio hanno deciso di bloccare i voli da e per diversi paesi esteri, dall’Europa all’estremo Oriente. Quando il virus è arrivato in Iraq, la piazza era già fiaccata da quasi sei mesi di presidio, di fatto senza rilevanti risultati a livello politico.
Nel frattempo il nuovo primo ministro Mohammed Tawfiq Allawi, incaricato dal presidente Barham Salih dopo le dimissioni di Abdel Abdul Mahdi, ha fallito nel tentativo di trovare una maggioranza in Parlamento e mettere insieme un governo di transizione. La sua nomina era stata sin da subito contestata dalla piazza per la sua permeabilità all’influenza iraniana, che non avrebbe di fatto cambiato nulla rispetto alla situazione precedente.
Una delle richieste della piazza, che resta inascoltata, era stata sin dall’inizio quella di cambiare il sistema politico, legato non solo alle ingerenze esterne ma regolato dal 2005 da un sistema di quote settarie che la società civile vorrebbe fosse abolito. Per ora il Paese rimane senza esecutivo e con una piazza provata. Se una nuova forza politica inclusiva e fatta soprattutto di giovani dovrebbe essere lo sbocco naturale di questi mesi di lotta, in un Paese dove quasi la metà della popolazione ha meno di 21 anni, è pur vero che difficilmente gli apparati che non hanno esitato a brutalizzare quelle piazze faranno proprio ora un passo indietro.