Riportiamo a seguito, in versione integrale, l’editoriale del direttore di Reportage – Riccardo De Gennaro – che apre il numero 41 della rivista e ne ripercorre i dieci anni di vita.
Dieci anni! Il primo numero di questa rivista uscì nelle librerie all’inizio di gennaio del 2010. L’avevamo ideata nell’estate precedente io e Mauro Guglielminotti, amico e fotografo, che viveva a Parigi. Si può dire che l’incubazione avvenne in Francia. Fu a casa di Mauro che, muniti di carta e penna, gettammo giù il progetto, senza avere dubbi sul nome della testata e della periodicità: si sarebbe chiamata Reportage e sarebbe stata trimestrale. Della distribuzione, per il momento, non ci preoccupammo e nemmeno del prezzo. L’entusiasmo e la voglia di creare una rivista che – dopo la chiusura di Epoca, Illustrazione italiana, l’Europeo, Diario… – avrebbe potuto colmare un vuoto di mercato erano tali che non pensammo nemmeno ai costi. Questo, più avanti. Anche l’impianto ci fu immediatamente chiaro: ci sarebbero stati otto reportage con foto, due portfolio, un racconto e, a chiusura, una foto vintage dedicata a un avvenimento del passato che avrebbe ricollegato il nostro lavoro a quello dei nostri predecessori. Novantotto pagine, formato A4. I pezzi sarebbero stati lunghi e approfonditi, nel momento in cui – viceversa – nei quotidiani e nei settimanali la loro lunghezza si riduceva mediamente a una cinquantina di righe. Le foto sarebbero state grandi e con la firma del fotografo in bella evidenza, cosa che altrove non accadeva quasi mai. Io avrei seguito i testi, Mauro avrebbe scelto le foto.
Non so più quanti brindisi preliminari facemmo: il primo, senza dubbio, a conclusione di quell’incontro, poi quando depositammo la testata presso il tribunale di Torino (e fummo costretti a cambiare Reportage in Il Reportage, perché Reportage, stranamente c’era già ed era, credo, una rivista di programmi televisivi degli anni Cinquanta o Sessanta, abbandonata da tempo), un altro brindisi insieme all’autore del progetto grafico, Andrea Mattone, che disse sì alla mia richiesta: “Andrea, senza di te non parto”, o anche quando trovammo la tipografia. E molti altri che è inutile elencare: ogni più piccolo passo era annaffiato da un negroni o da uno chardonnay. Qualcuno ci suggerì di desistere, motivando: dal 2008 è crisi economica e chissà quando ne usciremo; gli italiani non leggono; la carta non va più e tra una ventina d’anni – come dicono in America – scomparirà. Sulla fine della crisi economica, è vero, fummo più ottimisti di quanto dovessimo, la crisi perdura ancora oggi e non torneremo più ai livelli pre-crisi della domanda. Quanto agli indici di lettura, eravamo sicuri che pezzi approfonditi su temi importanti, e scritti bene, avrebbero avuto non pochi lettori; sul futuro della carta ero e sono sicuro che non morirà mai, anche perché – come supporto – è superiore allo schermo luminoso.
Decidemmo che la concezione del reportage sarebbe stata particolarmente flessibile. La rivista non ha, infatti, uno stile identitario, non ci sono temi privilegiati, se non per le situazioni emblematiche che raccontano, spesso piccole storie che dicono la Storia. Il reportage può essere anche un’inchiesta, un’intervista, un viaggio “letterario”, un diario. E ogni foto deve raccontare una storia. Su Reportage le foto non sono mai “illustrative” del pezzo, ma rispecchiano il punto di vista del fotografo, che non sempre viaggia con il giornalista e dunque ha mani libere. Insomma, è stata questa, fin da quell’agosto 2009, la nostra linea editoriale.
Avremmo voluto uscire a dicembre, ma i tempi erano stretti, slittammo di un mese e girammo l’anno. La prima presentazione del numero di esordio la facemmo alla Casa delle Letterature di Roma, la sala era piena. A darci una mano nell’organizzazione c’era anche Maria Camilla Brunetti, che negli anni successivi è diventata caporedattrice della rivista e ha svolto un ruolo decisivo nel garantire un salto di qualità al nostro sito e alla nostra pagina Facebook. La seconda presentazione avvenne alla Feltrinelli di via Manzoni a Milano. Nostro “padrino” fu il direttore dell’ultimo Europeo, realizzato con i pezzi di archivio delle firme storiche, Daniele Protti, che ci augurò lunga vita e sfogliando il primo numero disse: “Ce la farete”. Il traguardo dei dieci anni è figlio anche di questo augurio.
Siamo noi pochi a fare Reportage (nel frattempo, Mauro ha scelto altre strade, mentre si è unita a noi la fotografa Valentina Piccinni, responsabile delle iniziative speciali, come il Premio biennale per il miglior fotoreportage), ma è incredibile come la rivista, numero dopo numero, abbia acquisito importanza e collaboratori, al punto che non c’è più un giornalista, un fotografo o uno scrittore che non la conosca e, dunque, quando chiediamo un reportage o un servizio fotografico non dobbiamo più, da molti anni, spiegare chi siamo. Nei nostri primi 40 numeri abbiamo toccato oltre 120 Paesi, coinvolto centinaia tra giornalisti e fotoreporter e abbiamo intervistato tutti o quasi i mostri sacri del fotogiornalismo italiano (da Dondero a Tano D’Amico, da Berengo Gardin a Paolo di Paolo – il grande fotografo del Mondo di Pannunzio – a Scianna, Letizia Battaglia, Monteleone, Sestini, Merisio…).
Raccontare il mondo, organizzare un discorso critico sul presente, è sempre stato difficile, ma oggi lo è ancora di più. Fino a non molti decenni fa, c’erano in primis i due grandi bocchi contrapposti, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, che trascinavano con sé anche idee contrapposte; la Cina era presente, ma ferma e quasi indecifrabile nelle sue intenzioni; l’Africa era appena uscita dal colonialismo e nessuno si preoccupava di distinguere un Paese dall’altro; l’America latina era il “cortile di casa” degli Stati Uniti; l’Europa non era unita e nemmeno una potenza. Oggi questo quadro è rivoluzionato, i paradigmi di allora – che determinavano un quadro chiaro e facilmente leggibile – sono saltati tutti o quasi e nel frattempo sono sopravvenuti nuovi problemi, come la migrazione massiccia. E non c’è ancora un nuovo ordine mondiale.
Bisogna continuamente chiedersi che cos’è un reportage, il ruolo che può avere, il suo futuro. Ne parlavo tempo fa con due amici, il filosofo Rino Genovese, presidente della Fondazione per la Critica sociale, autore di due libri-reportage dedicati a Cuba e all’Argentina, oltre che di un “diario svedese”, e Giancarlo Liviano d’Arcangelo, uomo del Saggiatore, autore anch’egli di libri che avvicinano letteratura e giornalismo. Genovese non era ottimista, mi diceva che “il reportage ha un futuro molto incerto, come del resto il giornalismo d’inchiesta e tutto quello che non voglia ridursi a semplice notiziario sui siti Internet”. E precisava: “Sono generi, il reportage e l’inchiesta, che richiedono un certo grado di concentrazione da parte del lettore e una spiccata capacità di riflessione. Sono i generi giornalistici più strettamente legati a un’idea di sfera pubblica illuministica: non si tratta semplicemente di informarsi, ma di approfondire, discutere, capire. Tutto il contrario di quello che per lo più cerca il fruitore di Internet. Il quale, poi, molto spesso ha già una sua opinione e desidera unicamente una conferma di ciò che ritiene di sapere. Il reportage e l’inchiesta sono fatti, invece, per seminare il dubbio”. Poi mi ha dato una bella definizione del reportage: “E’ il genere giornalistico più prossimo alla letteratura. In un buon reportage ci può essere, e anzi secondo me, ci deve essere, una componente visionaria e di sogno. La realtà, per essere còlta in modo problematico, nella sua ambiguità, va messa a fuoco attraverso una lente soggettiva. E questo si deve avvertire. Il che non significa che il reportage sia la stessa cosa della finzione narrativa. Il reportage è un sogno a contatto con la realtà, la narrativa è un sogno a proposito della realtà”.
Il reportage, oggi, ha anche un ruolo di antidoto all’impostura e alla menzogna. Liviano d’Arcangelo fa spesso riferimento a un pensiero di Elias Canetti, contenuto in La provincia dell’uomo. Canetti ci mette in guardia da un rischio: “Un’idea penosa: che la storia, a partire da un dato momento, non sia più stata reale. Senza accorgersene, l’umanità tutta intera avrebbe d’improvviso abbandonato la realtà; tutto ciò che accadde da quel momento in poi non sarebbe affatto reale; noi però non potremmo accorgercene”. Che cosa può fare oggi un reporter, si chiedeva Liviano d’Arcangelo, dal momento che ogni azione, ogni scenario, può essere impostato come se si trattasse di una serie televisiva? “Può dilatare il racconto – mi ha detto – affinare i suoi strumenti d’investigazione, può prevedere l’impostura come un fattore sociopolitico, svelare l’inganno. Ecco qual è il compito principale di chi oggi ha ancora voglia di raccontare il mondo e la sua complessità”. E’ così. Se non vogliamo che il giornalismo muoia. E se vogliamo concedere a Reportage un orizzonte perlomeno di altri dieci anni.
La fotografia è di Ngoc Lan Francesca Tran