La rubrica quindicinale di Gabriella Saba dedicata all’America Latina sul sito di Reportage
Occorre una motivazione formidabile per fare l’attivista ambientale in gran parte dell’America Latina, in particolare se si è figli di attivisti e si è visto assassinare uno dei propri genitori come è successo al messicano Isidro Baldenegro López, ucciso due anni fa a colpi di pistola come suo padre, morto ammazzato davanti a lui quando aveva vent’anni. Isidro ne aveva 51 quando un sicario gli sparò mentre usciva dalla casa dello zio, ma è verosimile che quella scena l’avesse vissuta nella sua testa molte volte negli ultimi anni: quando le minacce erano diventate così pesanti e numerose da convincerlo a cautelarsi almeno un po’, anche se non s’è mai visto che se la mafia ha deciso di ammazzarti non lo faccia, ci vuole ben altro deterrente che un pochino di attenzione.
Isidro era un eroe se questa parola ha un senso, tecnicamente era invece un leader della difesa dell’ambiente e del suo popolo, i 57.000 indigeni tarahumara della Sierra Madre del Chihuahua, lo stato del nord-est del Messico che insieme con Sinaloa e Durango forma il Triangolo dorato in cui si produce gran parte dell’eroina del paese, feudo del narcotraffico in combutta con le istituzioni. Isidro voleva solo che il suo popolo venisse rispettato, che se ne andassero i “ladri di legname” che illegalmente deforestavano le terre tarahumara per piantare marihuana e amapola e che spingevano gli abitanti ad abbandonarla con le minacce e i pestaggi, e spesso assasinandoli come avrebbero fatto più tardi con lui: un leader così bravo e attivo che nel 2005 gli conferirono il prestigioso Premio Goldman, una sorta di Nobel per l’ambiente, due anni dopo essere uscito dalla prigione in cui aveva trascorso quindici mesi per traffico di droga e possesso di armi da fuoco, accuse assurde come si scoprì in seguito, e intanto Amnesty International lanciava appelli per la scarcerazione e lo dichiarava prigioniero politico. Il fatto è che la sua battaglia aveva disturbato lo status quo in cui prosperano narcos, grandi imprese e politici e in cui la distruzione dell’ambiente in cambio di profitti smisurati è benvenuta anche nei casi in cui la legge la proibisca o limiti, e quelli come Isidro sono visti come guastatori (e infatti tra la metà del 2016 e quella del 2017 ben cinque attivisti sono stati uccisi nel paesino di Coloradas de la Virgen in cui viveva l’attivista).
Nemmeno quell’ingiustizia lo ammansì e appena uscito riprese a manifestare e a denunciare, a capo del suo movimento per la resistenza non violenta che aveva ottenuto qualche successo come la sospensione temporanea della deforestazione. Era ovviamente consapevole di quello che rischiava e della inutilità dei suo brevi esilii per proteggersi, ma forse gli servivano per raccontarsela o per tranquillizzare chi gli stava intorno. Un uomo di 25 anni è finito in carcere per l’omicidio, con una condanna che i giudici si riservano di quantificare, ma è un pesce piccolo, e sugli eventuali mandanti non si sa niente come per quasi tutti i casi che negli ultimi anni hanno toccato numeri inquietanti: dei 197 ambientalisti assassinati in tutto il mondo nel 2017, 116 sono latinoamericani, mentre nel solo Honduras sono 123 le vittime negli ultimi sette anni di cui la più famosa è Berta Cáceres, uccisa nel marzo del 2016 da uomini armati che fecero irruzione nella casa di una amica in cui si era rifugiata e che la abbandonarono cadavere in quella casa in mezzo agli alberi, un pezzo di foresta solitaria del cui pericolo gli amici l’avevano avvisata, inutilmente. Per l’omicidio di Cáceres hanno condannato sette persone di cui due lavoravano presso la Desarrollos Energéticos (Desa), proprietaria del progetto idroelettrico Agua Zerca contro la cui costruzione si batteva Cáceres per i danni che avrebbe provocato all’ambiente, per esempio prosciugare il “fiume sacro” Gualcarque lasciando senz’acqua gli abitanti indigeni. Ma nel corso delle indagini sono successe cose strane, per esempio sono spariti varie volte incartamenti delicati e lo stesso pubblico ministero ha remato contro ipotizzando che a far uccidere la donna fossero stati membri della COPINH, l’associazione che aveva fondato nel 1993, per lotte interne di potere. I familiari si lamentano di non essere stati mai ascoltati seriamente dagli inquirenti e a otto mesi dalla sentenza i giudici non hanno ancora stabilito a quanti anni ammonti la condanna. Tornando ai figli, alla motivazione dei figli.
Quella maggiore di Cáceres, la 28enne Berta, ha utilizzato la laurea in pedagogia conseguita a Cuba per seguire la strada della madre morta, e per raccogliere quel testimone che le ha già guadagnato un attentato del 2017 a cui è sfuggita per un caso. Per lei che aveva pochi anni quando cominciò ad accompagnare Berta senior nelle manifestazioni per i diritti delle donne e gay e contro lo sfruttamento delle terre, nemmeno si poneva il problema di lasciare la battaglia. E’ cresciuta vedendo la madre che tornava con i segni delle percosse della polizia durante le proteste e lo scenario delle auto senza targa posteggiate per ore davanti alla casa erano diventate un’immagine consueta. Anche se vagheggiava a volte di una famiglia come tutte, era orgogliosa di quella leader tenace che si impegnava in tutte le battaglie come quella per i lenca: la popolazione indigena della zona di Río Blanco la cui storia e cultura aveva preso tanto a cuore da diventarne la leader pur non essendo indigena. Era un’ostetrica di pelle chiara che si guadagnò la fiducia di quella gente andando in giro per i villaggi per aiutare le donne a partorire, la portavoce che insegnò loro a riappropriarsi delle tradizioni e a rilanciare una battaglia identitaria che da molti anni avevano smesso di combattere, discriminati com’erano e ridotti da uno stato iniquo ai bordi della società. Quando la Desa cominciò a costruire una diga sulle loro terre, Cáceres diventò la paladina della lotta contro quell’opera e non mollò la presa nemmeno quando le minacce diventarono continue e pesantissime, i pedinamenti più ostentati tanto che alla fine decise di mandare fuori dal paese tre di quei quattro figli che aveva partorito tra una protesta e l’altra, e uno stava per nascere sul taxi che la portava da una marcia alla clinica. Nel 2015 vinse anche lei il premio Goldman, poco dopo la sua morte hanno ammazzato altri due attivisti, e a qualcosa deve essere servita la loro morte visto che la Desa ha sospeso i lavori, anche se in fondo non ha fatto che spostarli in un’altra zona, dove vivono altri indigeni. Berta junior sembra un’adolescente ma ha ereditato la tempra della madre e la motivazione, appunto. E infatti l’hanno nominata presidente della COPINH (Consejo Cívico de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras). Molti nemici molto onore ma anche pericoli, stress e umiliazioni. L’hanno accusata di diffamare l’Honduras in giro per il mondo, hanno montato campagne mediatiche per screditarla ma lei se l’aspettava e ha continuato. Così come il peruviano Victor Pio, che dedica la vita ai diritti della popolazione asháninka a cui appartiene e di cui è uno degli attivisti più impegnati da quando hanno assassinato il padre Mauro, nel 2013, un campesino e leader coraggioso la cui colpa è stata opporsi al disboscamento illegale che ha distrutto 70.000 chilometri quadrati di boschi in quel paese. Gli asháninka abitano nel Perù settentrionale e in parte in Brasile: quasi 100.00 persone che sopravvivono coltivando caffè, un affare magro per gente che non ha mezzi per acquistare i pesticidi né le risorse per accedere al mercato equo e solidale e che è oltretutto sfortunata, già due volte le piante sono state colpite da epidemie che hanno distrutto i raccolti. Pio e la sua gente hanno a che fare da anni con i taglialegna illegali protetti da gran parte delle istituzioni che invece ignorano gli asháninka e le loro richieste. Tradizionalmente relegati negli ultimi gradini della scala sociale, gli indigeni in generale sono da sempre visti come fonte di problemi: si oppongono alle grandi opere come dige e miniere che minacciano l’ambiente e distruggono il loro habitat, reclamano il rispetto della legge sulla deforestazione e insomma rappresentano una grana per gran parte dei governi, a cominciare da quello dell’ex presidente Ollanta Humala che, socialista a parole e meticcio, aveva dichiarato che quegli indigeni avrebbero dovuto evolversi anziché passare la vita a proteggere le foreste. Sulle questioni indigene, d’altronde, non è che i governi di sinistra latinoamericani siano sempre della mammole o sensibili. Ovvio però che con l’ultra destra la situazione precipiti come sta succedendo nella Colombia di Iván Duque e nel Brasile di Jair Bolsonaro, dove il ministro dell’Ambiente Ricardo Salles ha addirittura dichiarato qualche mese fa che il seringueiro Chico Mendes, assassinato nel 1988 e icona della difesa dell’ambiente, sarebbe stato un personaggio non adamantino. La primogenita di Mendes, Elenira, di 35 anni, è una di quelle figlie che hanno portato avanti la battaglia dei padri e dopo aver diretto l’Instituto Chico Mendes è diventata un avvocata specializzata in questioni ambientali: che poi era quello che sognava per lei Chico, fin da quando era bambina.
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