Un autore un libro. Intervista a Francesca Mannocchi
Io Khaled vendo uomini e sono innocente (Einaudi)
di Maria Camilla Brunetti
Quando hai incontrato la “voce” di Khaled per la prima volta e perché hai deciso di raccontare la sua storia?
Ho incontrato diversi Khaled in questi anni, Khaled racchiude la voce di tanti e si fa uno. Ho incontrato persone coinvolte nel traffico di uomini a vari livelli e ho capito, man mano che tornavo in Libia, che il mondo dei trafficanti – e non scafisti – è un mondo di ombre e di sfumature. Che le categorie di giusto e sbagliato si diradano quando vivi in un paese come la Libia. E lo stesso dovrebbero fare i nostri giudizi. Khaled è il tentativo di dare voce a queste sfumature, le zone grigie che non sono dicotomie da risolvere. Ma punti interrogativi da porsi costantemente.
Il punto di vista dei cosiddetti “colpevoli” può rivelare aspetti fondamentali della storia contemporanea. Qual è, se c’è, la lezione di Khaled? Che cosa, la sua storia, può dirci sulle nostre società?
Viviamo in un’epoca in cui sembra difficilissimo empatizzare con l’Altro, chiunque esso sia. L’Altro ci spaventa, gli siamo ostili. Non solo perché rappresenta per noi la diversità, ma sempre di più sono convinta, che l’Altro spaventi e disturbi perché mette in luce i nostri limiti attraverso la somiglianza. Ascoltare la voce di Khaled, e di quelli come lui considerati il precipitato del male significa allargare le lenti con cui guardiamo a un fenomeno, cioè semplificandolo moltissimo. Khaled è il tentativo di guardare con altri occhi, di chiederci quali siano le nostre responsabilità e a quale livello etico siamo arrivati. Cosa le nostre società accettano, sopportano – o peggio chiedono – in nome di una supposta necessità di sicurezza, che è poi – a guardarla bene – l’incapacità di mettersi in discussione. Penso che Khaled serva a stravolgere un cliché – quello del trafficante spietato che riempie i gommoni – ma anche a mettere in discussione la banalizzazione del migrante per come l’abbiamo raccontato in questi anni, cioè come un reietto della società. Il migrante, ma preferisco dire la persona in cammino, esprime con la forza della sua fuga una spinta vitale che l’Europa dimostra di temere, perché quella spinta vitale l’ha persa, annegata sotto l’onda del populismo. (…)
L’intervista completa è pubblicata su Reportage n°38, acquistabile qui in cartaceo e in versione digitale