Il declino, la rinascita, l’utopia, l’arresto del sindaco. Riace, il paesino della Locride arroccato su aridi colli che svettano davanti alla costa ionica non si è mai risparmiato le emozioni forti. Negli anni Novanta ha rischiato la morte per spopolamento, il mondo rurale di antichi mestieri e tradizioni era svanito, lasciando nulla al suo posto. Molti abitanti migravano al nord e all’estero in cerca di migliori opportunità professionali e così Riace si addormentò, in un sonno dal quale avrebbe potuto non svegliarsi più. Perlomeno fino a quando, nel 1998, un’imbarcazione carica di esseri umani, in fuga dalle violenze al confine tra Turchia e Iraq, non approdò a Riace Marina.
Uomini e donne erano quasi tutti curdi, un popolo senza stato, vittima degli schemi geopolitici del Novecento. Si trovarono all’improvviso accolti da una comunità ospitale, che mise a loro disposizione le case in disuso e s’impegnò a dar loro sostentamento. Uno di essi, Bahram, vive tuttora a Riace: “Volevo lavorare e sono rimasto qui”, mi raccontò quando lo incontrai la prima volta, mentre costruiva un ponte nella fattoria didattica.
“Ho trovato una comunità che capiva la lotta del mio popolo. E queste montagne mi facevano sentire come a casa”, aggiunse. Quello sbarco cambiò la storia di Riace, che – da quel momento – diventò la città dell’accoglienza.