Didascalie, la rubrica quindicinale di Valerio Magrelli per il sito di Il Reportage, che si affianca a quella da lui tenuta sul trimestrale cartaceo.
Nella notte del 10 dicembre scorso, a Roma, nel quartiere Monti, anzi proprio a via Madonna dei Monti, sono state rubate 20 pietre d’inciampo – ora ripristinate – dedicate a vittime della Shoah. Si tratta delle cosiddette “targhe” della Memoria, ovvero semplici sampietrini ricoperti, sulla faccia superiore, da una piastra di ottone che reca i nomi dei dedicatari. Quelle appena strappate (la cui posa risaliva a circa sei anni fa) ricordavano le famiglie ebree Di Castro e Di Consiglio. La procura ha aperto un fascicolo per furto aggravato da odio razziale.
Ideate dall’artista tedesco Gunter Demnig e collocate davanti alle ultime abitazioni delle prede, queste suggestive opere intendono affidare alle città europee, “una memoria diffusa dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti”. Attuata in diversi paesi europei, l’iniziativa è partita a Colonia nel 1992 e già a inizio 2016 ha portato all’installazione di oltre 56.000 “pietre” (la cinquantamillesima pietra è stata posata a Torino).
Non sembra ci sia molto da aggiungere ai commenti che prima hanno accolto questa toccante allegoria del ricordo, poi il suo criminale sabotaggio. Ma la letteratura riserva sempre qualche sorpresa, ed è proprio di una di queste che vorrei parlare, come minimo contributo a un’esecrazione mai abbastanza vibrata. La pepita d’oro purissimo viene dal capolavoro Proust, Alla ricerca del tempo perduto, e compare nell’ultimo volume del ciclo, intitolato appunto Il tempo ritrovato. Il lettore conosce bene il meccanismo della memoria involontaria, inaugurato all’inizio del romanzo, quando cioè il narratore Marcel, durante un tè, si imbatte nello stesso sapore del biscotto (la celebre “Madeleine”) che aveva mangiato da bambino. Ebbene, più tardi, camminando per Parigi, lo stesso personaggio inciampa in una lastra del pavé.
Potrà sembrare strano, ma un episodio tanto banale gli basta per proiettarlo improvvisamente e magicamente all’interno di un’esperienza analoga, seppure remota. Marcel ricorda infatti del giorno in cui, visitando la basilica di S. Marco a Venezia, incespicò sul pavimento sconnesso. Per quanto goffo e semplice, questo piccolo gesto mancato si rivela addirittura superiore alla reazione prodotta dal gusto. Una studiosa come Julia Kristeva ha infatti osservato che, rispetto all’esperienza della Madeleine, quella del selciato risulta meno infantile e più differenziata. A suo parere, cioè, “il pavé rappresenta una geometria in atto”. Proprio per questo, Ruggero Ragonese ha dedicato al piccolo ma significativo episodio un saggio dal magnifico titolo: Alla ricerca dello spazio perduto.
Fermiamoci qui, e volgiamoci ancora una volta alle pietre d’inciampo. Probabilmente i vandali continueranno a ignorare il nome di Proust; noi, tuttavia, abbiamo almeno una ragione in più per deprecare il loro operato, e insieme riconoscere in tutta la sua grandezza la potenza salvifica della memoria.
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