Didascalie, la rubrica quindicinale di Valerio Magrelli per il sito di Il Reportage, che si affianca a quella da lui tenuta sul trimestrale cartaceo.
Misterioso e complesso, per molti versi il mondo del doppiaggio rappresenta una particolarità della nostra cultura, e questo sia nel cinema, sia nelle nuove serie televisive. Per chi volesse farsene un’idea, basterebbe una visita al sito web https://www.antoniogenna.net/doppiaggio/ Qui, nell’archivio “Domande e risposte”, troviamo ad esempio ben 200 interessanti quiz. Ecco i primi tre: “Chi è stato l’attore italiano in assoluto più doppiato del nostro cinema? In quale film Sophia Loren recita con tre diverse voci? In quanti dei suoi 105 film Totò è stato doppiato?”. Sulla base di queste informazioni, non è dunque eccessivo dire che, per lontane ragioni storico-linguistiche, l’arte di doppiare costituisce una caratteristica squisitamente italiana. Mentre altrove si sviluppa in maniera sempre più articolata e addirittura “scientifica” la pratica della sottotitolazione, l’Italia, pur partecipando largamente a questo tipo di ricerche, resta comunque legata alla straordinaria, forse perversa tecnica di “sostituzione vocale”.
Inutile ricordare che molti e giustificati sono i rimproveri che la critica le ha rivolto negli anni: come giudicare un attore di cui non siamo in grado di ascoltare la voce? E cosa accade quando uno stesso personaggio, mettiamo Marlon Brando nel Padrino, viene interpretato da più voci, prima da Giuseppe Rinaldi (1972), poi, nel ridoppiaggio del 2007, da Stefano De Sando? Ne ha parlato tempo fa Violetta Bellocchio su “Nuovi Argomenti”, in un articolo di violenta denuncia intitolato Il “doppiese”, la lingua irreale delle traduzioni, dove si legge: “Con doppiese si intende una particolare variante della lingua italiana, per come la si ascolta e la si parla negli adattamenti di film, docufiction e serie TV. Il doppiese nasce dall’incontro tra due diversi fiumi di orrore: da un lato, una dizione di vecchio stampo teatrale […]; dall’altro, un metodo di traduzione per cui ogni parola del testo originale viene resa in italiano nel modo più letterale possibile”.
Obiezioni inappuntabili, e tuttavia, malgrado tanti rimproveri, andrà ricordato come il grande Stanley Kubrick, invitato al festival di Venezia per una rassegna personale, pretese che ogni sua opera fosse rigorosamente doppiata. Ai suoi occhi, infatti, i sottotitoli avrebbero irrimediabilmente deturpato la bellezza visiva della pellicola, anzi di una pellicola concepita alla stregua di un vero e proprio artefatto pittorico.
Questa lunga premessa serve a commentare la recente introduzione di un’inquietante modifica all’interno delle sale di doppiaggio. Il motivo di tale cambiamento riguarda l’importanza della trama, la cui segretezza sta ormai diventando uno dei più importanti requisiti commerciali. Ebbene, in che modo impedire che gli addetti alla traduzione delle voci rivelino i misteri del plot? L’ultimo espediente escogitato (peraltro in linea con le solite esigenze di risparmio sui costi) consiste nella decisione di non mostrare loro le scene per intero. Lo ha spiegato un esperto quale Paolo Buglioni proprio sul sito di Genna: “Da un po’ di tempo a questa parte, e questo vale per grandissimi film con grandissimi lanci promozionali, siamo costretti a doppiare guardando uno schermo su cui in sovraimpressione ci sono nomi, scritte, croci nere, numeri, una sorta di monoposto di formula uno… Lo fanno per evitare la pirateria, dicono, ma vi assicuro che è come se un pittore dipingesse senza vedere la tela e i colori. Insomma per chi come me pensava di recitare, di dare emozioni al pubblico, e si ritrova a dover solo dire battute in un tempo prestabilito, senza alcuna analisi del personaggio, senza alcuno studio della drammaturgia di quel film… Beh, viene proprio voglia di smettere”.
Si tratta di un sistema che fa pensare agli albori della catena di montaggio: il doppiatore di oggi va incontro alla stessa forma di alienazione vissuta nella fabbrica dal povero Charlot, l’operaio costretto a avvitare un unico bullone – si veda il film, per fortuna muto, Tempi moderni. Esattamente come lui, egli si trova incatenato a una serie di frammenti dell’invisibile prodotto finale: movimenti delle labbra, cifre, segni. Come nella figura retorica della “sineddoche”, la parte finisce insomma per sostituire il tutto.
Ma come interpretare le parole di un attore di cui si riescono a vedere a malapena le labbra, tra indicazioni sovraimpresse e scarabocchi, magari ignorandone l’atteggiamento, l’espressione facciale o addirittura la sua posizione in rapporto agli altri personaggi sulla scena? Cosa potrà venir fuori da uno schema di produzione tanto selvaggiamente parcellizzato? Quali prodotti nasceranno da una divisione del lavoro così violenta e primitiva? Mistero. Non resta che aspettare, per vedere se il “doppiese”, con tutti i suoi pro e i suoi contro, riuscirà a sopravvivere dinnanzi a una simile, brutale limitazione.
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