L’Italia è fra i Paesi europei con il più alto tasso di abbandoni scolastici, ovvero giovani che lasciano gli studi dopo la licenza media, senza conseguire altri titoli o qualifiche professionali. L’obiettivo fissato dall’Unione Europea per il 2020 è di contenere entro il 10 per cento il numero dei giovani fra i 18 e i 24 anni che non raggiungono il diploma. Ma se il dato attuale complessivo è incoraggiante (10,6 per cento), quelli dei singoli Paesi presentano divari importanti. Il primato in negativo spetta a Malta con il 18,6 per cento di ragazzi che si fermano alla scuola dell’obbligo, seguita da Spagna (18,3 per cento) e Romania (18,1 per cento).
L’Italia è quarta con il 14 per cento e, nonostante ci sia stato un miglioramento dal 19 per cento del 2009 a oggi, si deve purtroppo parlare ancora di fallimento formativo, soprattutto se si considera che l’abbandono scolastico è più frequente nel Mezzogiorno e in contesti socio-economici difficili. Perché per molti giovani l’istruzione rappresenta l’unica occasione di riscatto: ritirarsi dalla scuola prima del tempo taglia ogni possibilità di crescita, e aumenta esclusione sociale e difficoltà nella ricerca di un lavoro stabile.
Open Polis ha stilato un rapporto con i dati dell’abbandono scolastico, analizzando la quota di giovani fra i 18 e i 24 anni il cui titolo di studio più alto è la terza media. Esistono però alcuni limiti in questa metodologia che la stessa piattaforma evidenzia: prima di tutto il punto di vista è retrospettivo, nel senso che non fornisce elementi sull’evoluzione del fenomeno in tempo reale, mentre dovrebbe essere possibile monitorare anno per anno il percorso di ogni singolo studente; inoltre, questo criterio potrebbe risultare insufficiente per misurare il fallimento formativo, visto che anche a parità di titolo si registrano fra gli studenti livelli di competenza molto diversi fra loro. E in questo caso non solo la terza media, ma neppure il diploma rappresenta una garanzia di obiettivi raggiunti.
Per ridurre la dispersione scolastica, il governo italiano è intervenuto nel 2013 con un decreto poi convertito in legge, che provava ad allargare l’offerta di attività didattiche in via sperimentale, con l’obiettivo di estendere gli orari di apertura degli istituti e promuovere le attività sportive soprattutto nelle scuole primarie e nelle zone più a rischio di abbandono degli studi. L’anno dopo la Commissione cultura e istruzione ha avviato un’indagine conoscitiva sulle strategie per ridurre la dispersione, e ha analizzato elementi come la formazione degli insegnanti, l’apprendimento della lingua italiana per gli studenti stranieri, il divario digitale.
Dal 2008 a oggi il dato è migliorato, ma l’Italia resta comunque lontana dall’obiettivo europeo del 10 per cento e dai numeri di Francia (8,9 per cento), Germania (10,1 per cento) e Regno Unito (10,6 per cento). Sul dato pesano evidenti differenze territoriali: alcune aree del Paese come le regioni del Nord-Est e del Nord-Ovest si avvicinano agli standard dell’Europa con percentuali fra il 10,3 per cento e l’11,9 per cento, nel Sud ci sono ancora zone dove il 18,5 per cento dei giovani lascia la scuola.
Sardegna e Sicilia sono le regioni con il tasso di abbandono più elevato, oltre il 20 per cento, seguite da Campania (19,1 per cento) e Puglia (18,6 per cento). Le regioni più virtuose si trovano al Centro: l’Abruzzo è al primo posto con il 7,4 per cento, l’Umbria al secondo con 9,3 per cento e l’Emilia Romagna con 9,9 per cento. Se si osservano le singole province emergono ulteriori differenze territoriali: in Sardegna, Nuoro, Sassari e Cagliari confermano il dato regionale, Oristano rispetta ampiamente gli obiettivi europei con l’8,7 per cento di giovani con la sola licenza media. In Sicilia, Caltanissetta e Catania superano il 25 per cento mentre Messina e Agrigento si fermano al 16 per cento.
Il fenomeno dell’abbandono scolastico, rileva Open Polis, s’inserisce in quello più ampio della dispersione, che comprende fasi diverse e difficili da rilevare statisticamente: interruzioni nel percorso d’istruzione, ritardi, evasione dell’obbligo di frequenza, fino alla rinuncia agli studi prima della fine del ciclo formativo. Questa condizione è stata definita povertà educativa a partire dagli anni Novanta, ed è spesso alimentata dalla povertà economica, perché scarse opportunità nello sviluppo dei propri talenti e nell’accesso allo sport, al gioco, alla cultura, incidono negativamente sulla crescita di bambini e adolescenti.
La povertà educativa va oltre il dato statistico, perché deve tenere conto di diverse variabili: opportunità culturali, scolastiche, relazioni sociali, attività formative. In Italia il 12,5 per cento dei minori si trova in condizioni di povertà assoluta, il che vuol dire che più di un milione di giovani che non ha ancora compiuto i 18 anni vive in un contesto sociale in cui non può permettersi uno stile di vita accettabile. Se si guarda ai dati Ocse elaborati dall’Università di Tor Vergata per Save the Children, i ragazzi più poveri ottengono risultati scolastici inferiori ai coetanei che non hanno problemi economici; mentre il 61 per cento dei 15enni con una condizione socio-economica migliore raggiungono un livello di competenze che gli consentirà di continuare ad apprendere per tutta la vita.
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