E’ uno dei Paesi più poveri al mondo (al 163esimo posto della ricchezza), ma ha dato vita a un modello d’accoglienza unico a livello planetario: un milione e mezzo di rifugiati (l’85 dei quali dei quali donne e bambini), molto più di quanto abbia fatto qualsiasi Paese ricco d’Europa. L’Uganda, infatti, ha creato un sistema d’accoglienza che negli ultimi anni ha permesso a un milione di sud sudanesi, 280mila congolesi, 40mila burundesi e quasi altrettanti somali di trovare rifugio e possibilità di iniziare una nuova vita. Per comprendere come questo sia stato possibile occorre da un lato ripercorrere la storia recente dell’ex colonia britannica, dal momento che la popolazione ugandese ha conosciuto, in prima persona, in anni recenti, il dramma della guerra e la necessità della fuga; dall’altro, osservare nel dettaglio l’iter d’accoglienza creato da Kampala: dopo che sono entrati in Uganda i profughi vengono registrati, ricevono un primo soccorso e poi, entro una settimana, massimo due, vengono ricollocati in una delle trenta tendopoli presenti sul territorio nazionale. Oltre a ricevere 12 chili di cibo al mese per persona e supporto sanitario gratuito, ogni famiglia ottiene anche un lotto di terreno di 900 metri quadrati dove costruire il proprio alloggio e coltivare la terra. L’obiettivo del governo è quello di accompagnare i rifugiati verso la completa autosufficienza e il pieno inserimento nella società: ai profughi viene anche concessa la libertà di circolazione su tutto il territorio nazionale; inoltre, una legge del governo centrale ha voluto che il 30 per cento degli aiuti internazionali sia destinato ai territori ospitanti e ciò ha permesso che nelle zone dove sono ospitati i profughi venissero create nuove infrastrutture, di cui beneficiari sono anche i cittadini ugandesi.
Busia è un luogo che non appare sulle carte geografiche, ma è un confine concreto tra il male e la speranza. E’ il nome di uno dei tanti ingressi clandestini disseminati sulla porosa frontiera tra Sud Sudan e Uganda da cui ogni giorno centinaia di uomini, donne e bambini transitano lasciandosi alle spalle l’orrore della guerra civile. Entrano in Uganda portando con sé i pochi effetti che sono riusciti a salvare e una tragedia assoluta negli occhi e nella memoria che confessano a bassa voce come un peccato originale di cui liberarsi prima di accedere in un luogo che a certe latitudini ha i connotati di un approdo biblico, una terra promessa. ”Sono appena arrivato con i miei figli, uno ha la malaria e tutto quello che abbiamo è in questo baule”, dice Alex, 44 anni, mentre apre il bagaglio. Dentro ci sono vestiti, dei libri da colorare, una pentola e una vestaglia da donna. ”Questa vestaglia – racconta – è tutto ciò che sono riuscito a salvare di mia moglie. E’ stata rapita dai soldati Dinka e di lei non ho più notizie. Forse è stata uccisa, magari violentata prima di venire ammazzata o magari è viva ed è la schiava sessuale dei soldati. Non lo so. Questa vestaglia è il solo ricordo che ho di lei e mi dà la forza di pensare oggi ai nostri figli”.
Anche il modello ugandese, naturalmente, non è scevro da difetti. Il presidente Yoweri Museveni, in carica da oltre trent’anni e che sta cercando di cambiare la costituzione per rimanere alla guida del Paese a vita, attraverso questo modello d’accoglienza è riuscito a ottenere consenso politico interno e internazionale distogliendo l’attenzione dai metodi antidemocratici e autoritari del suo esecutivo e inoltre sono in corso delle indagini nei confronti di alcuni membri del governo di Kampala accusati di aver ingrossato il numero dei rifugiati per ottenere così maggiori finanziamenti dai donatori. Eppure al di là delle critiche e delle ombre che aleggiano sul modello ugandese, quello che più conta lo dice Emma, 27 anni, approdata due anni fa nella tendopoli del Rhino Camp insieme ai suoi due figli: ”Vivere in un campo profughi non è semplice. Ogni giorno ci sono tantissime sfide da affrontare, siamo poveri e siamo soli perché mio marito e altri miei parenti sono rimasti in Sud Sudan e non ho più loro notizie da mesi. Ma a noi, che siamo arrivati in Uganda, un’altra possibilità per continuare a vivere ci è stata data”.