La Bosnia somiglia all’Italia del dopoguerra. Ma più deserta. Scavalcata l’impressione visiva, parlando con gli abitanti, comincia la conta delle differenze. Nel numero di due.
Prima differenza: la Bosnia vive il disagio del dopoguerra mentre si trova incastonata in un’Europa capitalista, che la soffoca – anzi, in quello che per le società del cosiddetto benessere è ormai post-capitalismo. Questo dopoguerra non è quello di un corpo collettivo che si rialza e si scrolla di dosso la polvere delle macerie, pronto a ricostruire un’economia ferita. Possiamo rappresentare il dopoguerra bosniaco come un corpo vestito dai panni allegri, cupi e duri della società agricola socialista, che sia stato precipitato nell’angoscioso individualismo neoliberista, fatto di molte disperate solitudini costrette a desiderare di venire incluse nel ciclo del consumo che, fino a pochi anni fa, non sapevano neanche esistesse. L’automobile a vent’anni, per intenderci. Per inseguire questo solitario e sovradimensionato riscatto, i giovani bosniaci si stanno preparando a migrare in massa verso il Nord Europa.
Seconda differenza: usciti tra gli ultimi dal socialismo, i bosniaci hanno il ricordo recente dei diritti sociali elementari che il socialismo garantiva, primo fra tutti il lavoro. I maggiorenni si sentono umiliati dall’ozio imposto dalla disoccupazione, che li costringe a coabitazioni forzate con genitori che, alla loro età, avevano intrapreso da un pezzo il giusto percorso di emancipazione e indipendenza.
I giovani bosniaci del 2018 sono bruciati dall’ansia della brevità della vita. Ma la solitudine sociale è il terreno dell’odio. E l’odio è il terreno del fascismo. E il fascismo è il terreno della guerra. O della rinuncia. Questo è il racconto di quattro giorni di attraversamento del territorio bosniaco. (…)
L’ articolo completo è pubblicato su Reportage n°35, acquistabile qui in cartaceo e in versione digitale