Teresa Gullace è la donna che fornì lo spunto a Rossellini per girare la scena più celebre di Roma città aperta: Anna Magnani che viene uccisa a colpi di mitra dai nazisti mentre insegue il camion che le porta via il marito. A un certo punto, nel film, tra i tanti Pina (il nome della Magnani) si sente gridare anche Teresa (un omaggio alla donna). A Roma ci sono una lapide che la ricorda in viale Giulio Cesare e un murales con il disegno di quella scena accanto al suo nome in piazza Cavalieri del Lavoro. La prima volta che ho sentito raccontare da Umberto Gullace l’uccisione di sua madre andavo alle elementari. Nonno di una bambina che frequentava la classe accanto alla mia, Umberto era stato invitato dalle maestre proprio nei giorni dell’anniversario della morte della mamma, uccisa il 3 marzo 1944 di fronte a una caserma in viale Giulio Cesare. La donna era là per chiedere la liberazione del marito, preso prigioniero dai tedeschi insieme ad altri uomini e che sarebbe stato inviato nei campi di lavoro in Germania. Incontro Umberto e mi faccio raccontare la sua vita, segnata da quel momento, ma non solo.
Nato il 5 gennaio 1930, Umberto è il secondo di cinque figli, tre maschi e due femmine. Tutti insieme vivono in una baracca a vicolo del Vicario 14, dalle parti di Porta Cavalleggeri: “Da casa nostra potevamo vedere la cupola di San Pietro, ma quando pioveva fuori dalla baracca c’era la fanga e di notte sopra le coperte mettevamo l’incerata perché l’acqua ci veniva proprio addosso. All’epoca non c’erano i palazzi ma le baracche, molti che erano emigrati pugliesi e calabresi, i quali più avanti sono diventati proprietari di un appartamento per aver dato in cambio ai palazzinari i loro orti di guerra”. La sua famiglia viveva in condizioni di graned indigenza: “Con mamma andavo alle Cucine economiche del Vaticano, lì ci davano il pane, la verdura, le zuppe e la farina latte. Carne non se ne vedeva quasi mai. Le prime scarpe di suola le presi con la befana fascista al cinema Rosa”.
Una mattina i baraccati ricevono una visita importante: “Era il 1940, io ero a casa, infortunato, perché tentando di recuperare la palla finita sopra un tetto, sono scivolato su di un mattone e sono caduto. Al Santo Spirito mi misero dei punti e non andai a scuola per qualche giorno. Quella mattina tutti me dicevano: “Umbè, ma viene a casa tua?”. E io non capivo chi doveva venire fino a quando non ho visto la principessa del Piemonte – Maria José del Belgio, consorte di Umberto II – con le damigelle di compagnia e altra gente in alta uniforme. Siccome mia sorella piccola era ammalata e la principessa aveva l’abitudine di girare tra i poveri dopo aver raccolto le segnalazioni della Croce Rossa, vennero anche da noi. Ricordo che il pennacchio che aveva sul cappello faceva ballare la lampadina che pendeva dal soffitto. Le rimasi simpatico perché mi chiamavo Umberto”.
Il suo impatto diretto con la guerra avviene con il bombardamento del quartiere San Lorenzo, il 19 luglio 1943: “Quel giorno lavoravo in una pasticceria del quartiere Aurelio. Lasciai perdere tutto e andai a nascondermi a Monte Mario, vicino allo stadio Olimpico. Poi ci fu il bombardamento del 17 agosto, a San Giovanni vidi una fosse spaventosa. I ricoveri pubblici avevano le panche ma se arrivava una bomba poteva crollare tutto. La notte suonava la sirena e uscivamo con gli asciugamani addosso, le famiglie c’avevano l’ordine di aprire a chi scappava per i bombardamenti. Vedevo il cielo pieno di aerei”.
Girolamo, il padre di Umberto, viene fermato dai nazisti durante un rastrellamento il 26 febbraio del 1944 e condotto nella caserma dell’81° fanteria di viale Giulio Cesare 54. “Quella mattina mio padre era uscito per fare due passi dopo aver trascorso una settimana a letto con l’influenza, era una bella giornata. Qualche giorno dopo il suo arresto, mamma mi disse: ‘Prepariamo qualcosa per papà perché mi sa che non mangia. Così preparo due sfilatini con le patate lesse”. Con Girolamo, davanti alla caserma, ci sono più di seicento uomini in attesa di essere deportati in Germania o destinati al lavoro coatto nei fronti di Cassino o Anzio. Il 3 marzo Umberto accompagna nuovamente sua madre Teresa a viale Giulio Cesare: “Era pieno di gente, tante donne che cercavano di salutare mariti, figli e nonni, i quali che si affacciavano dalle finestre della caserma. Ogni tanto passava una motocicletta con due Ss che c’avevano il mitra in mano, così cercavo di evitare che mamma fosse a tiro. Poi capisco dai cenni di mio padre che devo andare a Monteverde”.
A Monteverde si trovava il cantiere dove Girolamo lavorava come manovale: “Mio padre mi portava al cantiere in piazza Rosolino Pilo, i proprietari erano due tedeschi. Io andai lì cercando di avere un documento che attestasse questa cosa, che mio padre lavorava per due tedeschi. Ma i proprietari non c’erano”. Umberto torna a viale Giulio Cesare, sono passate circa due ore ma la scena è completamente cambiata: “La folla era sparita e c’erano solo dei capannelli di persone, ma nessuno parlava. Cerco mi madre con l’amica sua che ci aveva accompagnato, ma non la trovo. Mi accorgo che al ciglio del marciapiedi c’era una montagna di mimose, ho pensato che fossero di un vecchietto che stava lì a venderle”. Allora Umberto si reca a via Candia, a cercare l’amica di Teresa, la moglie di un ciabattino: “Quella mi disse ‘viè qui che mo’ mamma viene’, ma poi ha cominciato a piangere e ho capito”. Qualche giorno dopo, per evitare guai con la popolazione romana, i tedeschi liberano Girolamo, che torna da suo figlio.
Teresa Gullace aveva 36 anni ed era incinta del sesto figlio: “Io e mio padre andammo a riconoscerla al Santo Spirito e posso dire che quella scena non me la scorderò mai. Poi è iniziata la vita senza madre, io facevo la madre perché dovevo spiccià casa. Quando sono arrivati gli americani mi sono messo a fare lo sciuscià a largo Goldoni. Rimediavo un sacco di cose, carne in scatola e mangiare vario, poi le lattine di limonata, che non le avevo mai viste”.