Nel 2017 hanno raggiunto l’Europa, attraverso le rotte del Mediterraneo, 171.694 persone. Nel 2016 erano state 363.504, l’anno prima oltre un milione. In particolare, in Italia sono approdate circa in 120mila, il 34 per cento in meno rispetto ai numeri dell’anno precedente. L’ultimo rapporto Migrantes sul diritto d’asilo, da cui questi dati sono tratti, dice che a fronte di una così pronunciata diminuzione degli sbarchi è però aumentata l’incidenza delle morti sul totale di chi ha deciso di attraversare il mare: 3.119 fuggitivi, uomini, donne e bambini che sono saliti su imbarcazioni di fortuna, non sono mai arrivati a destinazione, ed è una stima per difetto.
Il primo paese di provenienza si conferma la Nigeria, seguito da Guinea, Costa d’Avorio, Bangladesh, Mali ed Eritrea. Secondo i dati del ministero dell’Interno, sempre nello scorso anno, 130 mila persone hanno chiesto protezione: di queste domande 80mila sono state esaminate, 30 mila con esito positivo, 50mila respinte. Sul totale dei residenti, la somma di richiedenti asilo e rifugiati raggiunge appena il 3 per mille della popolazione.
Dal rapporto emerge quanto poco le richieste di asilo e rifugio siano effettivamente accolte, a dispetto dei proclami istituzionali, in Italia e in Europa, circa la volontà di contrasto allo sfruttamento delle persone in fuga e di prevenzione delle morti in mare: chi scappa da una guerra o da una dittatura, ha realisticamente poche probabilità di trovare un canale “legale” per ottenere un visto di protezione umanitaria e giungere nel paese di destinazione senza rischiare la vita. L’esempio dei corridoi umanitari, certamente virtuoso, coinvolge numeri molto bassi rispetto al bisogno reale, mentre il calo generale degli arrivi via mare è conseguenza degli accordi con Turchia e con Libia, che sollevano forti perplessità morali e forse anche giuridiche dal punto di vista del diritto internazionale. Impedire l’accesso in Europa, ignorando cosa succede dall’altra parte del mare, dove le violazioni dei diritti umani sono conclamate, non ha nulla a che fare con la protezione internazionale. A ciò si somma il fatto che nell’impiego delle risorse sotto la voce “cooperazione” sono state privilegiate logiche securitarie più che umanitarie, dirottando quote considerevoli della spesa verso il rafforzamento delle frontiere e dei sistemi di controllo.
I sistemi di riammissione
L’altra faccia della “protezione” (o meglio, del suo eventuale diniego) è quella della cosiddetta riammissione. A partire dal 1999, con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, è nata l’esigenza di sviluppare una dimensione bilaterale delle politiche migratorie, attraverso accordi con i paesi di origine e di transito dei flussi, primo fra tutti quelli di cooperazione in materia di riammissione, ossia di rimpatrio dei migranti.
Nell’ultimo decennio, come denuncia il rapporto di Migrantes, la procedura è diventata sempre più informale, limitata ormai a un arcipelago di memorandum, documenti, accordi verbali, dichiarazioni congiunte, senza mai attingere il livello di veri e propri accordi (con le relative garanzie). La conseguenza è stata la sempre più frequente messa in pericolo dei diritti fondamentali delle persone: in queste condizioni “rispedire” i migranti nel paese d’origine (o in alcuni casi di transito) significa esporli al rischio, se non alla certezza, di torture, violenze e conflitti.
Così certamente è stato nei casi delle già citate cooperazioni con Libia e Sudan. Per non parlare dell’intesa fra Unione Europea e Afghanistan del 2016, che ha facilitato frettolosamente il rimpatrio dei cittadini afghani la cui richiesta d’asilo venga rigettata, verso un paese in cui le condizioni di sicurezza sono in netto peggioramento.
I minori non accompagnati
Il 2017 è anche stato l’anno dell’entrata in vigore in Italia della legge 47 sulla protezione dei migranti stranieri non accompagnati, che ha disciplinato le procedure di accertamento dell’età da adottarsi nei casi in cui non siano rintracciabili documenti di identità, e che introduce il divieto di respingimento prevedendo nuove garanzie in caso di rimpatrio assistito e volontario.
Il permesso di soggiorno fino al compimento della maggiore età è ora parzialmente facilitato. Viene inoltre contemplato l’affidamento ai servizi sociali per i ragazzi dai 18 ai 21 anni, e l’istituzione di un tutore volontario che ne promuova i diritti e l’inclusione.
Una legge all’avanguardia, si direbbe, ma che si scontra miseramente con le carenze del sistema di accoglienza: al 31 agosto 2017, a fronte di 18.486 minori stranieri presenti in Italia, i posti disponibili nello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo, rifugiati e minori stranieri non accompagnati), erano appena 2.865, pari al 15 per cento del bisogno.
Un altro problema è la scarsa distribuzione dei minori fra le regioni: più del 40 per cento del totale di bambini e ragazzi stranieri restano in Sicilia, ossia dove sono sbarcati, alloggiati in strutture non idonee come centri di prima accoglienza per adulti, senza adeguati percorsi di inclusione sociale e scolastica. Ad ottobre scorso 5.500 minori risultavano irreperibili a seguito di allontanamenti volontari nel tentativo di raggiungere altri posti in Italia o più spesso altri paesi europei. Il sistema è lento anche nelle procedure di ricongiungimento familiare, il che spinge i parenti ad attraversare illegalmente le frontiere pur di non attendere tempi lunghi e incerti.
L’accoglienza diffusa
Un dato interessante riguarda l’esperienza di “accoglienza diffusa” avviata a Torino nel 2008 e poi sviluppata anche in altre città d’Italia, fino al picco del 2015, con la cosiddetta crisi europea dei rifugiati. La mancanza di strutture pubbliche in grado di fronteggiare la richiesta ha portato a esperimenti di accoglienza in famiglia: la disponibilità di singoli nuclei familiari ha fatto la differenza in un panorama in cui il quadro è dipinto con tinte decisamente fosche. Alle esperienze nate nell’ambito dei sistemi istituzionali, si sono unite così quelle extraistituzionali completamente autogestite, come Refugees Welcome.
Presente e futuro
A fronte della retorica dominante, i dati del primo quadrimestre 2018 raccolti dall’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), rivelano con certezza che gli arrivi sono in calo. Da gennaio ad aprile sono sbarcate in Italia solo 9.300 persone, vale a dire il 75 per cento in meno rispetto allo stesso periodo del 2017 (anche se va detto che il picco annuale si raggiunge solitamente nel periodo estivo).
Logica vorrebbe che la sensibile diminuzione degli arrivi avrebbe dovuto rendere più sostenibile il sistema di riconoscimento del diritto d’asilo. Purtroppo non è stato così: il numero di richieste esaminate mensilmente è rimasto costante. Il saldo negativo fra le domande presentate e quelle esamine presenta un carattere endemico, nonostante il calo delle domande: solo così si comprende come mai a gennaio 2014 le richieste erano meno di 15mila, per divenire150 mila all’inizio di quest’anno, pur in presenza di un netto calo degli arrivi.
Secondo l’Ispi, per smaltire le sole domande già pendenti senza accumulare ulteriore ritardo, gli uffici preposti avrebbero bisogno di lavorare per oltre un anno e mezzo senza che neppure una singola nuova domanda fosse presentata.
Per valutare la strutturale (voluta?) lentezza del nostro apparato amministrativo, basterà fare un paragone con un altro Paese europeo: la Germania esamina 50mila domande al mese (oltre sette volte di più delle nostre circa settemila).
Il ruolo delle Ong e la bomba demografica subsahariana
Il numero di arrivi via mare non si accompagna a una diminuzione del rischio della traversata. L’Organizzazione mondiale per le migrazioni ha messo in evidenza come, fra gennaio e marzo, l’incidenza di questo rischio sia quasi raddoppiato rispetto allo stesso periodo del 2017.
Al netto delle situazioni di conflitto, il fattore più eclatante che non sarà possibile ignorare è la crescita della popolazione nell’Africa subsahariana, che fra il 1990 e il 2017 è raddoppiata da 500 milioni a un miliardo di persone (entro il 2050 la Nigeria sarà il terzo paese più popoloso al mondo).
Nel frattempo sono anche mutate le rotte di migrazione: se vent’anni fa meno del 10 per cento della popolazione si spostava al di fuori dell’Africa subsahariana, oggi la quota di chi lascia la regione supera il 40 per cento. Fra questi, dal 1990 al 2017, il 25 per cento dei migranti subsahariani ha raggiunto l’Europa (dati del Pew research center). Se ricordiamo che le Nazioni Unite prevedono una crescita costante della popolazione in quell’area fino a raggiungere i 2,2 miliardi nel 2050 e ipotizziamo che resti invariata la tendenza a migrare, il numero di cittadini internazionali provenienti dall’Africa Subsahariana crescerebbe da 24 a 54 milioni e solo in Europa aumenterebbe di altri 7,5 milioni di persone.