Un’idiosincrasia tra Stato e religioni sembra aver travolto il Rwanda negli ultimi mesi. Il presidente del Paese delle Mille Colline, Paul Kagame, ha infatti dato il via a una serie di manovre radicali contro chiese, moschee e templi di molteplici confessioni. Una campagna, quella intrapresa dal leader dello stato africano, che ha portato alla chiusura di luoghi di culto, all’arresto di leader religiosi e all’imposizione di molteplici restrizioni. Le manovre del governo di Kigali sono state accompagnate da una pluralità di giustificazioni, ma il disegno politico dell’attuale presidente, ex leader del Fronte patriottico rwandese, è evidente: limitare l’azione politica e sociale delle confessioni per impedire che possano essere destabilizzanti per il Paese.
Tutto ha avuto inizio a fine febbraio quando le autorità rwandesi hanno ordinato la chiusura di oltre 700 chiese nella capitale Kigali, dal momento che i luoghi di culto in questione non rispettavano le misure igienico-sanitarie richieste. A diffondere la notizia è stato il quotidiano locale The New Times che ha raccolto la dichiarazione di Justuts Kangwagye, funzionario statale rwandese il quale si è occupato dell’operazione e dei sopralluoghi: ”Alcune chiese sono semplicemente delle tende sprovviste persino di parcheggi e questo crea ingorghi perché i fedeli si riversano sulle strade per poter partecipare alle funzioni. La libertà di culto non deve interferire con i diritti delle persone”. Fino a qui può sembrare un’operazione di pubblica sicurezza da parte di un Paese che negli ultimi anni ha fatto dell’ordine costituito uno dei perni su cui basare la sua palingenesi post genocidio. Poi la politica di Kigali contro le strutture religiose ha colpito anche la comunità islamica: oggi i muezzin non possono più chiamare i fedeli alla preghiera e gli altoparlanti dei minareti delle moschee del quartiere di Nyarugenge, dove si concentra la maggior parte delle moschee della capitale, devono tacere perché disturbano. In questo caso, quindi, il limite al rito religioso deriva dalla tutela dei cittadini dall’inquinamento acustico.
Ma il governo ha scoperto le carte quando, dalle misure restrittive e la chiusura dei templi è passato agli arresti dei leader confessionali. A inizio marzo sei pastori pentecostali sono stati arrestati con l’accusa di aver sfidato le leggi governative. Ma lo stesso presidente, in merito alla chiusura dei luoghi di culto, ha dichiarato: ”Settecento chiese in Kigali? Ma sono per caso dei pozzi che danno da bere alla gente? Io non credo proprio. Abbiamo noi per caso così tante fabbriche nel Paese? Aver fatto proliferare tutte queste chiese è stato un errore”. Adesso il Rwanda vuole introdurre una nuova legge che obbligherà, nel caso il Parlamento l’approvasse, le guide spirituali ad avere una laurea in teologia. Una misura che vuole mettere così al bando i pastori improvvisati e assicurarsi che all’interno dei luoghi di culto venga predicata soltanto quella che le autorità rwandesi definiscono ”la vera dottrina”.