Didascalie – di Valerio Magrelli

Didascalie, la rubrica quindicinale di Valerio Magrelli per il sito di Il Reportage, che si affianca a quella da lui tenuta sul trimestrale cartaceo.

 

Caserta, reggia et circenses

Tempo fa abbiamo parlato di un articolo in cui Tomaso Montanari criticava una mostra dello stilista Alaïa allestita alla Galleria Borghese per l’incongruità di certi accostamenti. Difatti, in Francia, la stessa iniziativa era stata ospitata nel museo della moda al Palais de Galliera, e non certo al Louvre. Come è stato possibile pensare di mettere sullo stesso piano i marmi, i quadri, gli arredamenti della Galleria Borghese (uno dei più miracolosi organismi estetici della storia) e le opere di un sarto alla moda? Lo stesso problema ritorna un po’ ovunque in Italia, dallo sciagurato musical allestito l’anno scorso sul Palatino, alla sciaguratissima Reggia di Caserta, il cui direttore ha invitato Federica Pellegrini a nuotare nella stessa vasca che, d’altra parte, ha già accolto gare di canottaggio.

Bisogna aprire, diventare popolariha spiegato il direttore generale Mauro Felicori, e siccome il popolo vuole essere intrattenuto, il patrimonio diventa cornice e location di qualsiasi evento. Ma dove averne fatto il teatro di film (da Guerre Stellari a Angeli e demoni), serie televisive (Elisa di Rivombrosa) e festeggiamenti privati (le nozze di Naomi Campbell), sarà bene chiedersi se è giusto trasformare la Reggia di Caserta in un brand commerciale. Così, sulla “Stampa”, Giulia Zonca ha sollevato molte riserve su questo tipo di valorizzazione del patrimonio: “Come ricavare un quagliodromo nella cupola del Pantheon, un’arena al Colosseo, una parete per climbing sulla Torre di Pisa e una sala da banchetti a Ponte Vecchio”. Lo stesso ha ribadito su “l’Espresso” Manlio Lilli, denunciando il rischio che tanti beni culturali finiscano per diventare “un po’ Eataly un po’ centro commerciale”.

Ebbene, credo che la risposta più convincente, venga ancora una volta da Montanari, anzi, da una sua citazione. Al tempo del marketing anzi, del “marketting” del patrimonio (battuta facile ma efficace), forse dovremmo tornare alle parole di Don Milani, che già ai suoi tempi metteva in guardia contro il rischio di abbandonare i beni culturali alla “ricreazione dei padroni”. Siamo regrediti all’antico regime, ha spiegato Montanari, col principe che benevolmente apre ogni tanto le porte del palazzo alla plebe, salvo affittarlo per le feste dei più facoltosi. Peccato che oggi, a differenza del passato, quel patrimonio lo mantiene la “plebe” stessa con le sue tasse: “Si torna a una società predemocratica, dove contano solo i soldi. La Reggia torna a essere dei ricchi e non dei nuovi sovrani cioè del popolo”. Più chiaro di così.

 

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Dio non è morto, è soltanto scaduto

 

Dentro al campo di tiro,

la mano sul grilletto,

mentre sparavo ho appreso

che i proiettili hanno

la data di scadenza

[…]

Missile a lungo raggio,

alta tecnologia.

Impazienti si aspettano

di riuscire a lanciarlo

prima che sia scaduto.

Si intitola Scadenza delle armi (in originale Caducidad de las armas) questa poesia di Pedro Luis Ladrón de Guevara dedicata alla sua antica esperienza di recluta. La composizione è inserita nella raccolta Tornerò dov’ero (Edizioni Ensemble), uscita da poco in italiano a cura di Matteo Lefèvre. Come ricorda Claudio Magris nella prefazione, la scrittura di questo autore presenta una forte componente sociale, un doloroso, fermo ripudio della nostra condizione storica, una taciuta ma disperata ripulsa del presente: “L’Io lirico di Pedro Luis Ladrón de Guevara non vuole ‘essere qui’, se qui e ora significano essere al passo con la disumanizzazione”. 

Se ho riportato questi versi, tuttavia, non è per un intento critico-letterario, bensì per una ragione strettamente tematica (pare del resto che, per lo stesso motivo, la lirica incuriosì anche un romanziere come Antonio Tabucchi). Confesso, infatti, che non avevo idea di una notizia così singolare, la scadenza delle armi, e a quanto pare nemmeno molti utenti del web, almeno a giudicare dal gran numero di interventi sull’argomento.

Ne cito uno a caso: “Scusate se la richiesta che vi sottopongo è banale o inappropriata, ma il munizionamento dei fucili d’assalto in 5.56 o quello in uso in precedenza in 7.62 hanno una scadenza? E se sì, dopo quanto tempo devono essere distrutti o inertizzati?”, chiede ad esempio l’utente Saigon 70. La migliore risposta al suo quesito suona così: “Le cartucce standardizzate Nato hanno assolutamente una scadenza, non tanto perché oltre tale scadenza non siano più utilizzabili, anzi, tutt’altro, ma perché devono garantire sempre la sicurezza operativa. Generalmente le scadenze sono di dieci anni per le munizioni per arma corta (anche se impiegabili su pistole mitragliatrici) e cinque per quelle da arma lunga (5,56 – 7,62 – 12,7 ecc.)”.

Capito? Proiettili e pistole come yogurt! Lo ammetto: la scoperta mi ha lasciato interdetto, ma fino a un certo punto. Infatti, sulla scorta dei bei versi spagnoli, mi è ritornata in mente una storiella datata 1998… Ormai sappiamo tutto sull’obsolescenza programmata di tanti ritrovati della tecnica (costruiti cioè per invecchiare entro una data prestabilita), ma pochi forse immaginano che il discorso riguardi anche la religione. 

L’allarme fu lanciato giusto vent’anni fa da “l’Avvenire”, che scrisse: “Per legge, anche le ostie adesso scadono, e potrebbe non essere lontano il momento in cui sulle confezioni di azzimi per la messa si vedrà trascritta la fatidica dicitura Consumarsi preferibilmente entro…”. Trascinata sul banco degli accusati fu la legge 283, intesa a disciplinare la vendita di prodotti alimentari. Così, su “La Repubblica”, Marco Politi scrisse un articolo intitolato Ostie con la scadenza. E la Chiesa protesta, nel quale si leggeva: “La Chiesa cattolica, a differenza di quella Ortodossa, prescrive che l’ostia sia fatta di pane azzimo, non lievitato, […] Per evitare il proliferare di bollini con le date di scadenza, qualcuno propone di cuocere il pane (azzimo) lì per lì. Ma poiché il diavolo si nasconde nei dettagli, ecco spuntare chi grida allo scandalo e al sacrilegio, dato che il pane fresco di cottura, spezzandosi, potrebbe far cadere delle briciole. E che succederebbe di loro, dal momento che sono già consacrate?”

Il discorso ci porterebbe lontano, tanto più oggi, visto il recente divampare delle polemiche tra sacerdoti (sull’ostia senza glutine) e rabbini (sui carciofi alla giudia). Fermiamoci qua, magari limitandoci a parafrasare Nietzsche, e immaginarlo proiettato nell’universo della mercificazione totale: “Dio non è morto, è soltanto scaduto”.

 


Un museo per la memoria di Amatrice

 

Lo scorso 21 marzo ho trascorso una giornata ad Amatrice. Era la prima volta che tornavo nella zona dopo oltre cinquant’anni, ossia dall’epoca delle mie vacanze infantili. Mentre mi avvicinavo, emergevano nomi sempre più familiari: Antrodoco, Nerola… Qui sorgeva ad esempio la famigerata casa del “mostro”, un bandito che, dopo aver bucato le ruote delle auto di passaggio, ospitava i malcapitati viaggiatori per derubarli, sgozzarli e seppellirli nell’orto. Ricordo i brividi che provavo da piccolo, passando davanti alla dimora degli orrori. Poi Posta, Cittaducale: del terremoto, però, nessuna traccia. Scendemmo in una splendida conca, fra alberi spogli, in una mattinata radiosa. Ma quando Amatrice era ormai a pochi chilometri, una strada bloccata ci obbligò a un lungo giro. Era il primo annuncio di una tragedia che la natura non lasciava affatto presagire. Boschi, sole: possibile?

Ed eccoli, infine, i camion dell’esercito, accanto ai primi casolari distrutti. Arrivando dalla macchia e dal verde, sembrava di trovarsi d’improvviso in un film sui Balcani, con i bombardamenti al posto del sisma: differente la causa, non l’effetto. Varcammo un viadotto ricostruito dal Genio, “Ponte della rinascita”, e risalimmo dal fondovalle, fino a incontrare un avviso che recitava: “Città dell’Amatrice. Uno dei borghi più belli d’Italia”. Del centro, sbarrato dai pompieri, si intravedevano solo le rovine, difficili da rimuovere perché chiamate a sostenere i muri rimasti in piedi. L’immagine assunse subito una portata allegorica: macerie che proteggevano quanto era scampato al sisma! Morti chiamati, quindi, a salvare i vivi! Le vittime erano state 239, e quasi chiunque aveva avuto un lutto. Insomma, stavo visitando una comunità devastata.

Mentre pensavo a un “Museo della Memoria”, mi apparvero gli otto desolati alberelli piantati davanti alla scuola per ricordare altrettanti allievi scomparsi. Malgrado la tristezza del quadro, l’istituto mi sembrò un bell’esempio di solidarietà. Finanziato dalla regione Trentino, aveva un’aria vagamente dolomitica. A parte il retrogusto jugoslavo, sembrava insomma di stare sulle Alpi, in una località sciistica. Il sole, il freddo, le cime innevate alle spalle, l’aria azzurra e frizzante… Come Sarajevo, osservò una ragazza, sorprendendomi: “Ma a Sarajevo – aggiunse – sei circondato dai monti e ti senti sempre sotto tiro. Qui è diverso”. O no?

Molti operai: un cantiere a cielo aperto. Operai e militari, anzi, con la polizia municipale di Roma e altri corpi delle forze dell’ordine prestati da varie città, come Milano. Rimasi colpito dalla mescolanza di allerta e normalità. Sospensione, incertezza: tutto era doppio. Ancora un anno fa, per esempio, gli abitanti i cui edifici non erano stati danneggiati, si rifiutavano di dormire in casa: preferivano trascorrere la notte in roulotte. Vivevano sì nelle proprie camere, ma senza potersi abbandonare al sonno; era come se fosse venuta meno ogni fiducia nella notte. E questo, specie dopo la seconda scossa, nell’ottobre del 2016, quando il timore dei superstiti si era raddoppiato (peraltro, il 4 dicembre scorso si è verificato nelle vicinanze un terremoto di magnitudo 4, che per fortuna non ha causato danni). D’altronde, anche all’Aquila, tanti anni dopo la catastrofe, la vita tende a restare all’esterno, e stenta a riappropriarsi del centro storico. Ad Amatrice, era addirittura come se il senso stesso della quotidianità fosse ormai fuori asse, sfocato.

In effetti qui c’era davvero bisogno di “appiccare vita”, di ridestare interesse, di riaccendere quella fiducia che la notte e la neve avevano portato via. Mangiammo nella mensa, destinata a nutrire, tutti insieme, abitanti e addetti alla ricostruzione: una specie di immensa serra gialla che mi ricordò un camping, o la cerimonia del pasto collettivo durante una gita scolastica. Mi parve un buon segno. Ma oggi?

Alla fine dell’anno scorso, Matteo Renzi ha postato dall’Alpe di Siusi la foto di una pista innevata con le parole: “Stamattina alzati presto per andare a sciare. Ma nevica alla grande, tutti a letto di nuovo. Primo giorno dell’anno imbiancato, bellissimo. Auguri, viva il 2018”. Le risposte al segretario del Pd non si sono fatte attendere. Mostrando l’immagine di una tenda completamente sommersa dalla neve, uno dei terremotati ha commentato: “Anche qui ad Amatrice non possiamo sciare”.

 

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Segre, l’esempio dei senatori a vita ai giovani

Ce l’abbiamo fatta: la scelta del nuovo senatore a vita è stata finalmente degna di un paese civile. Il 19 gennaio 2018, in occasione dell’80° anniversario delle leggi razziali, il presidente della Repubblica  ha nominato senatrice a vita, “per altissimi meriti in ambito sociale”, Liliana Segre, quarta donna a ricoprire la carica dopo Camilla Cederna, Rita Levi-Montalcini e Elena Cattaneo. Scampata alla Shoah, la neo-eletta fu uno dei venticinque sopravvissuti fra i 776 bambini italiani di età inferiore ai 14 anni deportati ad Auschwitz.

Non posso nascondere che questa notizia mi ha provocato una profonda soddisfazione, o meglio, ha trasformato in gioia una lunga, precedente irritazione. Proprio su questa rubrica, mesi fa, scrissi infatti un articolo sdegnato contro l’idea, circolata fra alcuni parlamentari, di proporre per la stessa funzione Piero Angela (il quale, precisavo subito dopo, declinò l’offerta con molta eleganza e ragionevolezza). La mia convinzione era e resta semplice: mi era parso insensato porre il nome di un onesto divulgatore sullo stesso piano di quello di scienziati e artisti, inventori e imprenditori. Ora, osservavo, per quanto preziosa e benemerita, l’attività di Piero Angela si limita alla pura e semplice parafrasi, ossia alla diffusione del sapere nei confronti del grande pubblico, non certo alla sua creazione.

Il titolo di senatore a vita, invece, andrebbe assegnato a cittadini italiani che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Si tratterebbe cioè di suggerire esempi in grado di funzionare come un incitamento alla crescita della collettività. Che senso avrebbe, allora, proporre ai giovani, come modello di vita e di comportamento, un dignitoso giornalista che ha sempre lavorato per amplificare ricerche altrui? Certe scelte civili dovrebbero fare da segnavia, costituire una sorta di stella polare per l’educazione di tutti i cittadini, eleggendo a campioni persone particolarmente rappresentative dello sviluppo e della fama della Nazione. Si tratta di una discussione tutt’altro che futile, talmente importante da coinvolgere anzi il senso stesso delle nostre istituzioni. Poiché la questione riguarda niente di meno che i valori fondanti della nostra cultura.

PS. Resta però un mistero: non è strano che, per veder tramontare candidature quanto meno immotivate, si siano prima dovuti mandare a casa i parlamentari? Non è bizzarro il fatto che una senatrice a vita come Liliana Segre sia stata nominata a camere sciolte? A meno che, per “eleggere” una figura tanto esemplare e autorevole, non si debbano, per l’appunto, sciogliere le camere.

 

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E la poesia sdogana il captcha e gli emoticon

Parole astruse come technopaegnia o carmina figurata, ma anche calligrammes, allontanano immediatamente il lettore comune dalla pagina. Sarebbe come mostrare al cliente di un ristorante una mosca affogata nella minestra. Nel nostro caso, però, sarebbe un errore abbandonare il piatto, poiché, al contrario, termini così ributtanti nascondono pietanze prelibate. Siamo infatti di fronte ai raffinati esiti di una stranissima miscela fra segno e disegno, alfabeto e immagini. Ma per trovare qualcosa di simile, non c’è bisogno di tornare all’antichità greca o latina, risalendo per esempio alla Zampogna di Teocrito, o alla Scure, alle Ali e all’Uovo di Simia di Rodi, su su fino agli artisti bizantini, che nei loro mosaici mescolavano caratteri e parole alle figure. Non serve nemmeno riandare a Ardengo Soffici, autore delle tavole parolibere futuriste, oppure a Apollinaire. E’ sufficiente pensare agli emoticon 🙂

Potrà sembrare strano, ma bastano tre pulsanti sulla tastiera del cellulare per ricollegarci a una tradizione millenaria, che va dall’antica poesia araba, alla Divina Commedia. Così, in maniera quasi inavvertita, la tecnologia ha rilanciato sui nostri display una pratica antichissima: giocare con le lettere (o la punteggiatura) per tratteggiare figure.

Nei calligrammi i versi sono disposti in modo da riprodurre la forma dell’oggetto descritto, passando dalla funzione semantica a quella visiva. Insomma, quelli che Pozzi definisce “geroglifici dell’uomo moderno”, obbligano a una lettura doppia, verbale e ottica, costringendo a una continua convergenza e divergenza fra due differenti linee di forza. Non per niente, esaminando i calligrammi di Apollinaire, Alain-Marie Bassy ha parlato di un esercizio diverso dal consueto, insubordinato sia al senso (da destra a sinistra), sia ai ritmi (strettamente consequenziali) delle forme abituali. A conferma di questo atteggiamento rivoluzionario, Bassy ha poi riferito i casi di alcuni lettori che, davanti a un simile sconvolgimento spaziale del tempo nella pagina, reagivano addirittura con sentimenti di nausea e vertigini.

Ma al di là dell’unione fra parole e disegni, c’è un terreno altrettanto fruttuoso ed è quello che prevede, da parte della poesia, l’adozione di codici diversi all’interno del consueto alfabeto. Un esempio magnifico si scopre nei versi di Aldo Palazzeschi intitolati La passeggiata (da L’incendiario, 1910).

Grande liquidazione!

Ribassi del 90%

Libero ingresso.

Hotel Risorgimento

e d’Ungheria.

Lastrucci e Garfagnoni,

impianti moderni di riscaldamento:

caloriferi, termosifoni.

Via Fratelli Bandiera

già via del Crocefisso.

Saldo

fine stagione,

prezzo fisso.

Accanto alla scelta più che blasfema di far rimare la parola sacra “crocefisso” con l’espressione profana “prezzo fisso” (in un accavallarsi di termini commerciali tra cui “Saldo / fine stagione”), i “Ribassi del 90%” provocano l’irruzione di cifre e segni inauditi nelle auliche stanze della lirica. Si badi: l’autore avrebbe potuto facilmente scrivere “Ribassi del 90 per cento”. Se non lo ha fatto, se ha scelto di celebrare il simbolo “%”, è stato appunto per mescolare la poesia con il linguaggio pubblicitario delle insegne che costellano qualsiasi “passeggiata” in città.

E oggi? Questa considerazioni possono fare da premessa a una raccolta di poesie che si colloca nel solco delle sperimentazioni sinora descritte. Mi riferisco a Esercizi di vita pratica, di Gilda Policastro (edizioni Prufrock). Ebbene, nelle ultime composizioni del volume vediamo apparire, inserita nei versi, una presenza incongrua, sorprendente e inquietante: quella dei cosiddetti Captcha. Avete mai visto emergere sul display delle sigle alfanumeriche volutamente deformate e distorte? Ebbene, scritte del genere indicano un test per determinare se l’utente sia un umano e non un computer. Con l’acronimo inglese per “Completely automated public turing test to tell computers and humans apart” designano cioè una o più domande e risposte per accedere a spazi protetti. Benché dei software intelligenti siano oggi in grado di risolvere Captcha di varie tipologie, la loro funzione, a oltre vent’anni dalla loro invenzione, rimane indispensabile per evitare disturbi (si pensi all’infiltrazione delle spam).

Con una mossa a sorpresa, Policastro ha dunque pensato di impiegarli in una lirica intitolata Usa le cose che vedi – forse la prima lirica al mondo che non potranno leggere i robot! Difficile illustrare meglio le tesi di Elio Pagliarani, il maestro del Gruppo 63 che proprio a questo compito invitava ogni autore. “Usa le cose che vedi”, era difatti la parola d’ordine dei suoi laboratori di poesia, tenuti a Roma a partire dal 1976. Ma oggi quell’invito ha anche un altro scopo: cercare di capire fino a che punto possiamo dire d’essere davvero uomini.

 

 


Che cosa c’è di più oltraggioso degli allarmi delle auto?

Stanotte è andata bene: solo due volte. La prima verso le tre, la seconda alle quattro. In entrambi i casi, mi ha svegliato la solita sirena di una macchina. Queste, probabilmente, rappresentano le uniche occasioni in cui simpatizzo coi ladri: forza, portatela via quest’auto infame! Rubatela, ma presto, fate presto! Nel caso dovesse servire, vi do una mano. Fategli un danno, e grave, al proprietario di questo “sistema-acustico-per-disturbare-i-vicini”.

Eppure, lo so bene; quest’espressione non è affatto corretta. Infatti, nell’arco di chilometri e chilometri, non esiste alcun essere vivente che risulti minimamente disturbato. Infelice prodotto di un salto evolutivo della specie, io e solo io, unico tra gli abitanti della zona, sono stato dotato di un udito. Ma come fate, a sopportare questo urlo straziante, intermittente, infinito? Quali miracolosi tappi in cera vi ha regalato Ulisse, per resistere con tanta calma al furibondo Canto delle sirene?

Quando ero giovane, confesso, l’ho fatto. Con un passamontagna e qualche attrezzo, una notte sono sceso tra i veicoli parcheggiati e ho divelto il Vascello Fantasma da cui saliva l’allarme. Che meraviglia, forzare lo sportello e tagliare i cavi uno a uno, recidere l’antenna! Lo scatto delle tenaglie. Tutto, giuro, tagliai tutto quanto potesse avere un vago aspetto filiforme. Cavi, cavetti, e l’urlo continuava. Continuai anch’io, nel cofano spalancato, senza ottenere risultati. Taglio anche la fettuccia che regge il corno appeso allo specchietto, finché, d’incanto, tutto cessa. Fu un guizzo, un’esecuzione capitale, la giusta punizione del colpevole. Ma oggi, oramai anziano, come potrei ripetere quel lontano beau geste

Ormai sono passato alla persuasione. Questo pomeriggio, ad esempio, il consueto barrito mi ha accompagnato per quasi un’ora. Scendo per strada e mi trova davanti una mia dolce vicina che, con il più radioso dei sorrisi, ammette d’essere lei, la responsabile: “Che sbadata! Avevo lasciato il finestrino aperto”. Che vuoi che sia, mi hai solo rovinato mezza giornata lavorativa.

Adesso invece è quasi mezzanotte, sono sceso di nuovo, ma stavolta ho incontrato un distinto signore, seduto al posto di guida nella macchina con la sirena a tutto volume: “Sono davvero dispiaciuto, ma l’allarme si è rotto, e sto aspettando mia figlia”. Ne sono lieto, rispondo, ma dato che è parcheggiato qui da mezz’ora, adesso la va a aspettare da qualche altra parte. Infatti mi pare giusto che il fastidio venga distribuito in maniera equa fra tutti i residenti del quartiere. Non crede? Ha ragione, risponde, accende l’auto e si allontana per infestare una via limitrofa.

Cosa dedurre da queste tristi esperienze? Semplice, che il rispetto per gli altri è sacro e va collocato al primo posto della scala-valori. Dunque, non il cristiano AMA il prossimo tuo, bensì un laico RISPETTALO. Per quanto mi riguarda, puoi anche detestarmi, ma a patto di non importunarmi. Da qui, le Nuove Tavole della Legge. Primo comandamento: non infastidire il tuo prossimo. Secondo comandamento: non infastidire il tuo prossimo. Terzo comandamento: non infastidire il tuo prossimo. Seguono gli altri sette, tutti rigorosamente identici. Deve essere questa la religione del futuro.

Ciò significa comprendere che l’allarme acustico corrisponde, di fatto, a un’autentica arma. Così come non posso girare con un mitra, non ho il diritto di possedere una sirena, il cui uso metterebbe a repentaglio la tranquillità altrui – ossia la cosa più importante che esista al mondo. Molestare centinaia di persone, vuol dire turbare la quiete pubblica, indipendentemente, eccoci al punto, dal motivo per cui si commette un simile reato.

Proviamo a vederlo, allora, questo motivo. Cosa connette il furto di un bene privato alla necessità di molestare il circondario? Non si capisce perché subire un danno, ossia provare un dolore, implichi il bisogno di comunicarlo a chi ci sta intorno. Mi affaccio forse alla finestra, io, per urlare al vicinato che ho mal di schiena? Ebbene, il furto di un’auto o lo scassinamento di un’abitazione sono esattamente la stessa cosa. Il relativo allarme andrebbe dato solo ed esclusivamente al proprietario, alla polizia o a una guardia privata – SENZA per questo disturbare il vicinato. È proprio così difficile comprenderlo? Una legislazione consapevole vieterebbe, pertanto, ogni sirena, delegandone il monopolio, come le armi, unicamente allo Stato. Così si fa. Così si dovrebbe fare.

 

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Firenze, lo scaricabarile dei musei

“Ahi Pisa, vituperio de le genti / del bel paese là dove ‘l sì suona”. Così imprecava il sommo Dante in Inferno, XXXIII, versi 79-80. Pisa, d’accordo, ma anche Firenze non scherza. Sono tornato a visitarla, poco tempo fa. Mi sveglio in una splendente domenica mattina. Chiese o musei? Non c’è che l’imbarazzo della scelta, e inizio a consultare la rete per conoscere gli orari di visita, quando… Quando mi accorgo, con orrore, che nessuno dei miei progetti sarà realizzabile. Scopro infatti, in rapida successione, che la Basilica di Santa Croce chiude alle 12.30 per riaprire un paio d’ore dopo, mentre il leggendario Bargello (con statue di Donatello, Michelangelo e Verrocchio) è chiuso la seconda e la quarta domenica del mese. Quanto alle strepitose Cappelle Medicee, monumenti che valgono da soli un viaggio transoceanico, fate attenzione, prego: chiudono sì all’13.30, ma un cartello avvisa che è vietato entrare mezz’ora prima. E fin qui posso anche capire. Tuttavia, pur ammettendo l’aberrazione, un turista qualsiasi penserebbe di poter arrivare almeno fino alle 13. Giusto? Macché! Tanto per strappare quella decina di minuti che può sempre tornare comoda, il calcolo è stato anticipato alle 13.20. Dunque, limite ultimo alle 12.50.

Miracoli del turismo all’italiana. Altro che Fiscal compact o tagli lineari: a danneggiare il nostro Stato è soprattutto la stupefacente impudenza di chi lo amministra. Protesto con un’addetta di Santa Croce, che mi risponde in rapida successione tre cose diverse: 1) la Basilica è aperta tutto l’anno, tranne cinque giorni (encomiabile); 2) la chiusura è dovuta alla sospensione degli straordinari (grave); 3) anche “loro”hanno diritto a passare una domenica in famiglia (e qui censuro la mia risposta).

Che dire? In un Paese basato sul turismo, bisognerebbe ricordare che il proprietario di un tesoro pubblico ha un doppio dovere: da un lato mostrarlo agli interessati (che fino a prova contraria hanno il sacrosanto diritto di vederlo, previo pagamento), dall’altro, ricavarne denaro (per una nazione che, nel patrimonio artistico, ha in pratica la sua unica materia prima).

Ora, io non so perché sia impossibile unificare gli orari dei musei e delle chiese, così come gli scienziati stanno provando a fare da un secolo con le grandi leggi della fisica. Ignoro da chi dipendano le loro differenti, complicatissime, bizantine attribuzioni – Stato, Regione, Province, Comune, Curia, Vaticano. Certo è che in questo totale, duplice disinteresse, sia per l’utente, sia per l’attività che tiene in piedi la nostra economia, si annida lo sfascio del Bene Comune. E per finire, quel che è peggio, poi, è che a Firenze non possiamo neanche accusare Virginia Raggi…

 

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L’assurdità di proporre Angela senatore a vita

È uscito nei giorni scorsi sul “Foglio” un appello al capo dello Stato per nominare Piero Angela senatore a vita. Va detto che, subito dopo, l’interessato ha declinato con molta sensatezza e eleganza. Resta però una questione cruciale: come si è potuti arrivare a un abbaglio tale, da porre il nome di un onesto divulgatore sullo stesso piano di quello di scienziati, artisti, inventori, intellettuali, imprenditori? La notizia potrebbe essere presa sottogamba, come l’incauta iniziativa di una singola testata, ma a ben guardare la situazione risulta assai più grave, dal momento in cui anche un importante organo di informazione come il “Corriere della Sera” ha rilanciato l’ipotesi, dimostrando così una stupefacente incapacità di valutare adeguatamente i possibili candidati. Sarà allora il caso di fare un po’ di chiarezza.

Non dovrebbe essere difficile afferrare la differenza che passa tra un lavoro di autentica ricerca (sia esso svolto nel campo della scienza o dell’industria, dell’arte o della tecnologia) e le mansioni di un divulgatore. Eppure, a quanto pare, non è così. Nel caso di Piero Angela, che peraltro attinge largamente e giustamente a contributi già preparati da altre televisioni (a cominciare da quella inglese), siamo di fronte a un’attività che, per quanto preziosa e benemerita, si limita alla pura e semplice parafrasi, ossia al chiarimento e alla diffusione del sapere nei confronti di quelle che un tempo si chiamavano “le masse”. Ora, com’è possibile confondere l’originalità di chi prova nuove strade, con la diligente applicazione di chi, anni dopo, le spiega al grande pubblico? Come è possibile scambiare due compiti tanto radicalmente diversi? In breve, com’è possibile non riuscire a distinguere il fornaio dal suo simpatico e volenteroso fattorino?

Ritengo inaudito pensare che un onesto, serio giornalista come Piero Angela possa essere adatto a una carica significativa e simbolica come quella ricoperta, per capirci, da Rita Levi Montalcini (neurologa) e Eugenio Montale (poeta), da Claudio Abbado (musicista) e Elena Cattaneo (neurobiologa), da Renzo Piano (architetto) e Carlo Rubbia (fisico). Insomma, non bisognerebbe dimenticare che stiamo parlando di cittadini italiani che hanno “illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario“. Naturalmente, il motivo di questo imperdonabile equivoco è uno soltanto, sempre il solito, e si chiama tv; esso corrisponde a ciò che potremmo definire il “gradiente di visibilità” di un personaggio. Se qualcuno ha potuto formulare un’idea tanto balzana (Angela come Padre della patria), è solo perché abituato a vederlo tutte le sere sul piccolo schermo. D’altra parte, è stato con un identico criterio catodico che si è compiuto uno dei maggiori crimini civici dei nostri tempi, ossia i Funerali di Stato concessi a un presentatore televisivo, pur simpatico come Mike Bongiorno.

Nel migliore dei casi, resta un mistero il fatto d’aver osato proporre ai giovani, come modello di vita e di comportamento, un dignitoso piazzista. Le pubbliche esequie, così come la carica di senatore a vita, dovrebbero fare da segnavia, costituire una sorta di stella polare per l’educazione di tutti i cittadini, eleggendo a campioni persone particolarmente rappresentative dello sviluppo e della fama della Nazione. Di conseguenza, si tratterebbe di suggerire esempi in grado di funzionare come un incitamento alla crescita della collettività. E dunque finiamola, una volta per tutte, di rivolgerci a politici, presentatori televisivi o divulgatori come se fossero davvero figure di spicco della nostra cultura, altrimenti ripeteremmo quanto accadde durante una sciagurata Fiera del Libro di Francoforte, quando, nell’edizione dedicata all’Italia, invece di eleggere come nostri portabandiera Galileo o Marconi, Vico o Fermi, gli organizzatori ebbero la faccia tosta di optare per Pulcinella…

 

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Siamo veramente sicuri di saper riconoscere i segni?

Pxing”. Tutto comincia qualche anno fa da questa semplice scritta, che un neuroscienziato francese di stanza in California scopre un bel giorno dipinta sull’asfalto davanti a casa sua. Cosciente dell’alto grado d’integrazione raggiunto dalla società americana pre-Trump nei confronti delle diverse comunità d’immigrati, Lionel Naccache si complimenta con l’amministrazione per l’intento di aver voluto raggiungere addirittura i parlanti coreani. Niente di tutto ciò, scoprirà più tardi. L’indicazione si limitava ad abbreviare l’espressione inglese “Pedestrian crossing”, ossia attraversamento pedonale, con la croce (cross) simboleggiata da una “x”.

L’aneddoto è all’origine di un suo bel saggio uscito per le edizioni francesi Odile Jacob (pagine 172, euro 22,90), con il titolo Le chant du signe. Psychopathologie de nos interprétations quotidiennes (“Il canto del segno. Psicopatologia delle nostre interpretazioni quotidiane”). A partire dal gioco di parole un po’ abusato fra signe (segno) e cygne (cigno), l’autore propone la fondazione e lo sviluppo di una nuova, ipotetica disciplina chiamata “collisionologia”. Vediamo come e perché.

Tutti conoscono l’etimo della parola “semaforo”, cioè, dal greco, “portatore di segni”. Ebbene, sviluppando un concetto analogo, vari anni fa il grande Juri Lotman propose di descrivere l’ambiente umano attraverso il termine di “semiosfera”. Coniato sul modello di “atmosfera” o “stratosfera”, il neologismo sta a indicare lo spazio al di fuori del quale non è possibile l’esistenza della semiosi – ossia  il processo in cui qualcosa assume la funzione di segno. Con questa parola, il grande studioso sovietico volle sottolineare come l’ambiente umano sia di per sé, esso stesso un immenso “portatore di segni”. Ma questi segni sono davvero chiari?

Lungi dal comportarci come semplici autonomi che applicano degli ordini, in realtà noi “inventiamo” i significati di quelle segnaletiche quotidiane cui invece crediamo di obbedire in maniera passiva e irriflessa. Croce verde = farmacia; croce rossa = ambulanza; luce rossa = stop; luce verde = via libera. Tutta la giornata, ora dopo ora, ci troviamo teleguidati da una quantità di simboli, icone, immagini, emoticons e compagnia bella. Si tratta di elementi in apparenza espliciti e privi di ambiguità, ma a ben vedere pronti a dischiudere interpretazioni completamente differenti.

Crediamo di conoscere bene il loro significato e di doverci limitare a decodificare il segnale che indica ora la direzione per andare in bagno, ora lo stato delle batterie nel cellulare. Secondo Naccache, però, l’aspetto più istruttivo di questi automatismi è rappresentato dai momenti in cui non funzionano – momenti rari, è vero (e per fortuna!), ma degni d’essere analizzati con estrema attenzione. Che succede quando interpretiamo male un segno? O quando fraintendiamo qualcosa e in seguito scopriamo il nostro errore? Ecco l’oggetto del libro di Naccache.

Ma è tempo di tornare alla “collisionologia”.  La proposta di questo nuovo campo di studi parte da fenomeni assai diffusi, i cosiddetti lapsus cognitivi, accidenti di segnalizzazione o “bascules sémantiques”, che ci inducono a commettere errori, spesso bizzarri come quello ricordato poc’anzi. Ebbene, Naccache interpreta questi esempi come rivelatori del modo in cui “la nostra soggettività cosciente si racconta in queste finzioni incongrue che noi stessi costruiamo”. In tale prospettiva, una possibile definizione della libertà del pensiero potrebbe consistere nella capacità del cervello umano di produrre senso. Non per niente, il neuroscienziato ama citare una frase di Paul Valéry sull’effettivo stato della nostra libertà: La coscienza regna, ma non governa”.

 


 

La storia dell’arte passa anche dal wc

La storia dell’arte occidentale rappresenta una miniera praticamente inesauribile. Resta però curioso che sinora nessuno avesse mai organizzato una ricerca come quella portata a termine dal francese Jean-Claude Lebensztejn con il saggio Figures pissantes. 1280-2014 (Macula, “Patte d’oie ”, 170 pages, € 26). Il titolo, non ancora tradotto, solleverà un bel problema di traduzione: figure orinanti? che fanno pipì? Ad ogni modo, partendo dal dettaglio di un puer mingens spesso nascosto nell’angolino di grandi opere (dai sarcofagi romani, al Sogno di Poliphilo e ai putti rinascimentali), l’autore arriva fino ai nostri giorni. Solo nel Settecento farà irruzione l’erotismo, come nella Femme qui pisse di Boucher (chiamata assai a proposito L’Occhio indiscreto), cui via via subentreranno le scandalose “pisseuses” di Picasso e Gauguin.

Nel corso del XX secolo, poi, l’urina abbandona lo statuto di acqua santa del bébé per diventare vettore di profanazione e depravazione: sarà il caso di artisti quali Otto Muehl, Andres Serrano, Sophy Rickett o Andy Warhol. In tal senso, ha notato qualche settimana fa Marianne Dautrey su “Le Monde des livres”, le 161 illustrazioni del volume (talvolta infantili, talvolta licenziose fino all’aggressività) formano un corpus sui generis, “che ci trasporta dall’innocenza all’indecenza”. Sembrerà strano, ma nella cultura del gender, della corporeità, della body art, di una sessualità dai confini sempre più ampi, un tema come quello degli escrementi resta comunque un tabù – situazione tanto più paradossale, se si tiene conto che proprio dalla provocatoria manipolazione questo liquido, nella fontana-orinatoio di Marcel Duchamp, è nata quell’arte concettuale che ha segnato così a fondo il Novecento.

Lebensztejn mira insomma a ricostruire l’albero genealogico di un particolarissimo motivo iconografico relativo alle cosiddette “figure orinanti” presenti in tante opere, ma molto spesso invisibili. Non ce ne eravamo mai accorti, o almeno non le avevamo degnate di attenzione, e tuttavia queste “figures pissantes” sostavano sulle fontane o nei quadri, nei bassorilievi o sul vasellame, in tante pagine letterarie e infine sulle facciate di alcune banche. In quest’ultimo caso, non serve certo chiedersi chi sia il bersaglio degli infami schizzi, visto che tutti noi, vili correntisti, ne siamo rimasti imbrattati.

 

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 Il mio ricordo di Tullio De Mauro

Sono rimasto colpito dalla morte di Tullio De Mauro, nato a Torre Annunziata il 31 marzo 1932 e spentosi il 5 gennaio nella sua casa a Roma. La notizia della scomparsa è stata diffusa da “Internazionale”, diretto dal figlio Giovanni e in cui lo studioso curava alcune rubriche. Sul sito della rivista si leggeva: “E’ morto Tullio De Mauro. Linguista, docente universitario, autore del Grande dizionario italiano dell’uso e della Storia linguistica dell’Italia unita, aveva 84 anni. È stato ministro della pubblica istruzione dal 2000 al 2001″. Molte altre sono ovviamente state le onorificenze, le cariche e le lauree honoris causa ricevute da Tullio De Mauro, che fu ad esempio presidente del comitato direttivo del Premio Strega, socio dell’Accademia della Crusca e direttore della Fondazione Bellonci. Ma credo sia importante ricordarlo soprattutto per un altro legame di carattere personale.

Il professor De Mauro era infatti il fratello di Mauro De Mauro, il giornalista de “L’Ora” di Palermo, rapito e ucciso dalla mafia nel settembre del 1970. Ebbene, per una singolare coincidenza, proprio il 6 gennaio scorso è caduto il 36º anniversario della morte di Piersanti Mattarella (fratello dell’attuale Presidente della Repubblica), che venne ucciso dalla mafia nel 1980. Questo per dire come, nell’arco di appena dieci anni, alcuni familiari di due fra le nostre massime autorità politiche e culturali fossero stati assassinati dalla criminalità organizzata. Non dobbiamo dimenticare la storia del nostro sventurato Paese, poiché, per sopravvivere, la democrazia dovette attraversare quel mattatoio.

Per tornare a Tullio de Mauro, lo vediamo seguire la lezione di Antonino Pagliaro e insegnare nelle università di Napoli, Chieti, Palermo e Salerno. Docente di Filosofia del linguaggio e poi di Linguistica generale presso la Sapienza di Roma, diresse il Dipartimento di Studi Filologici Linguistici e Letterari di quella Facoltà di Scienze Umanistiche che contribuì a fondare insieme ad Alberto Asor Rosa. Lo incontrai, da studente, ben 40 anni fa. Naturalmente i programmi vertevano sul Ferdinand de Saussure, di cui nel 1967 aveva tradotto e commentato, per Laterza, il leggendario Corso di linguistica generale. Oltre ad altri classici (tra cui Wittgenstein), il suo interesse andava soprattutto al semiologo argentino Luis Prieto, di cui fu grande ammiratore. Per un certo periodo, arrivò addirittura a sviluppare in proprio la teoria prietiana (nel suo Saggio di teoria formalizzata del noema lessicale, posto in appendice a Introduzione alla semantica, Laterza, 1971).

Ebbene, se ho pensato al pensiero di Prieto, è perché in qualche modo esso riflette la vita e l’opera di De Mauro. Tratta da una generalizzazione della fonologia di Trubeckoij, l’idea base del suo libro più celebre Pertinenza e pratica, è infatti che ogni conoscenza debba essere inserita in una pratica. Insomma, si conosce solo ciò che può servire a qualcosa. Ora l’intera attività di De Mauro, nel passaggio dagli studi all’impegno civile, può essere ricondotta a questo stesso atteggiamento. La passione didattica, editoriale, organizzativa riflette appunto una simile convinzione. Fu questo che lo spinse a diventare consigliere della Regione Lazio (1975-80), membro del Consiglio di amministrazione dell’università di Roma (1981-85), delegato per la didattica del rettore (1986-88) e presidente dell’Istituzione biblioteche e centri culturali di Roma (1996-97), e, come già detto, ministro della Pubblica Istruzione nel governo Amato II – tempi ormai davvero lontani, remoti, quando i ministri, almeno quelli dell’Istruzione, erano professori o laureati, e comunque, a differenza di oggi, avrebbero certo evitato di attribuirsi un titolo di studio mai conseguito…

 

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Che cosa significa “non” curare un libro 

Ho pensato che il titolo di questo pezzo potesse essere: Gli ubriachi dell’editoria. Per spiegarne il motivo, mi limiterò a quattro esempi, assai diversi fra loro ma ugualmente sintomatici di un atteggiamento preoccupante. Caso numero uno: le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Vediamo infatti un cantautore che firma l’introduzione ai versi di un poeta già noto. Lo scopo è ovvio: così facendo, il grande editore pensa di attrarre verso la poesia un maggior numero di lettori. Peccato che il risultato sia spaventoso: in questo modo il pubblico, specie se giovanile, attribuirà al musicista un’importanza maggiore del letterato – visto che il presentatore è tale proprio in virtù della sua autorevolezza.

Caso numero due: mia figlia torna a casa furibonda, perché, sul retro di copertina di Anna Karenina di Tolstoij, appare la trama intera, con tanto di finale. Ora, molti diranno che si tratta di una cosa veniale. Ma i libri non devono andare solo agli specialisti, bensì, e direi anzi soprattutto, a chi non conosce ancora la letteratura. E allora, perché rovinare la sorpresa? Il cosiddetto “plot” fa parte integrante dell’opera e non deve essere assolutamente svelato. L’inglese ha una bella parola a tale riguardo: spoiler. Il termine, che a rigore significa “saccheggiatore”, “spogliatore”, indica chiunque anticipi i punti salienti delle vicende narrate in un romanzo o un film. Adesso abbiamo dunque anche editori-spoiler…

Caso numero tre: ricordo che sempre mia figlia, allora sedicenne, mi riportò un romanzo francese dell’Ottocento che le avevo prestato (e in edizione tascabile!), chiedendomi se ne avevo una versione italiana. Pensavo stesse scherzando, invece mi spiegò che quella traduzione a lei risultava praticamente incomprensibile. Per dimostrarlo mi citò una frase che recitava: “Gli vibrò un fendente all’epa”. In effetti, dovetti ri-tradurla, affidandomi a un’espressione assai più piana, e del resto perfettamente corrispondente all’originale: “Gli diede una coltellata al fegato”.

Caso numero quattro: questa volta la parola passa a mio figlio. Deciso a leggere Guerra e pace, sempre di Tolstoij, dopo pochi capitoli mi affronta furibondo, chiedendomi: possibile che i russi parlino tutti francese? Allora si usava così, rispondo sorridendo. Dove sta il problema? Il problema, ribatte, sta nel fatto che, in questa sciagurata edizione, il francese non viene tradotto. Resto senza parole: come è possibile che un editore non offra la versione italiana dei dialoghi intercorsi in una lingua straniera? A meno che non ritenga che chiunque debba sapere il francese…

Fine della mia triste campionatura. Tutti gli esempi sinora riportati convergono verso un unico concetto, sintomo del convulso sviluppo cui è andato incontro il mercato librario. Mi riferisco alla mancanza di cura, ossia a un atteggiamento fatto di fretta, approssimazione, sciatteria. Qui, non si tratta di condannare singole pecche, quanto piuttosto di rilevare una sistematica disattenzione verso il pubblico, specialmente, lo ripeto, se giovane. Infatti, un volume “sbagliato” può allontanare anche i lettori più volenterosi, rischiando inoltre di far perdere all’editoria potenziali, futuri clienti.

 

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Il crepuscolo del ricercatore

La notizia era nell’aria, ma solo da qualche settimana ho capito che qualcosa si è rotto per sempre. In breve, è stato cancellato l’ideale della moderna università, quel binomio ricerca-didattica concepito nel 1810, quando Wilhelm von Humboldt fondò l’Ateneo di Berlino propugnando la totale indipendenza del mondo accademico dall’economia e dalla politica. Come ha ricordato Juan Carlos De Martin sul “Sole 24 ore”, il cuore dell’università dovrebbe consistere in una serie di “spazi pubblici dove uomini e donne che professano il loro pensiero su argomenti che hanno a cuore (i professori) si confrontano con giovani uomini e giovani donne che vogliono farsi coinvolgere, che vogliono essere indotti a riflettere (gli studenti)”. Ebbene, tale confronto ha sprigionato potenza da più di mille anni, finché… Finchè, la Thatcher istituì burocrazie di valutazione impostate secondo modelli di provenienza business school. Così, ha concluso De Martin, dopo decenni di Research assessment exercise (Rae), la situazione è questa: “Si pubblica quasi solo più nei modi e sugli argomenti che riceveranno un punteggio più elevato dalla burocrazia statale di valutazione. Ne va infatti non solo della carriera dei singoli ricercatori, ma anche della stessa esistenza di interi dipartimenti”.

Insomma, siamo al crepuscolo del modello humboldtiano. Le aule non saranno più un laboratorio dedicato al sapere e alla sua trasmissione. Ormai, in maniera esplicita e aggressiva, il valore della routine burocratica ha finito per assumere esattamente la stessa portata delle lezioni svolte e dello studio – il che significa assistere alla marcia funebre del mondo accademico.

Avevo già parlato di lutto culturale, quando vennero celebrati funerali di Stato per Mike Bongiorno (ossia tv e merce) invece di Edoardo Sanguineti (vale a dire libri e poesia). Diciamo che adesso è un po’ come se la salma del secondo venisse addirittura esumata, per essere gettata in una fossa comune. Tutto questo ha un nome preciso: iper-valutazione del lavoro gestionale, posto addirittura sullo stesso piano della didattica e della ricerca.

Nessuno nega che all’interno di un istituto serva organizzare orari, preparare riunioni, ordinare il lavoro di valutazione (secondo quanto dettano le ultime, volutamente macchinosissime norme). Quello che non avrei mai immaginato, è che questa forma di impegno strumentale, servile, secondaria, laterale o sussidiaria, comunque la si voglia chiamare, sarebbe prima ricaduta sui professori, poi arrivata ad assumere la stessa, identica importanza dell’impegno profuso nella docenza o nella scrittura di libri.

D’altronde c’è chi lo ha scritto a chiare lettere. Ad esempio, nel recente Universitaly (Laterza), Federico Bertoni ha affermato che la vera domanda da porre all’università italiana del XXI secolo è la seguente: “Perché un luogo di elaborazione e di trasmissione della conoscenza diventa uno straordinario concentrato di stupidità, in cui l’automazione frenetica delle pratiche svuota di significato le azioni quotidiane?” E ancora: “Drogata da un falso miraggio efficientista, l’università sta svendendo l’idea di cultura e la ragione stessa su cui si fonda, ostaggio passivo e consenziente di indicatori astrusi, procedure formali, parole vuote […] quali eccellenza, merito, valutazione, qualità, internazionalizzazione”.

Morale: il professore si trasforma in segretario scolastico, non importa se manager o bidello. Quello che conta è che smetta una volta per tutte di leggere e insegnare.

 

  1. A mo’ di semplice nota a piè di pagina, riporto quel mio vecchio acrostico:

 

Niente funerali di Stato per Sanguineti,

ovvero Le ceneri di Mike

 

Per Andrea Cortellessa

 

Mi sembrava di dover celebrare una morte,

Invece sono qui a piangerne due;

Kyrie eleison per l’Università

E per l’alfiere della sua alterità.

Bello non era. Un Bronzo di Riace,

Ostentava: “Dei due, quello che più vi piace”.

Nell’Aula Magna della Sapienza

Guizzava la civetta dell’alta sua sapienza,

Innesto dello Studio sull’amata Poesia,

Ossia: metà cultura, metà idiosincrasia.

Ripeto: oggi perdiamo sia lui, sia l’Accademia,

Nel Tele-Stato che scarta un Professore

Osannando la merce e il suo pastore.

 

 


In morte dello scrittore Nahed Hattar

Quante volte avrò visto un sorriso simile? Quando mi chiedono a cosa serve la poesia, rispondo sempre: “A viaggiare”. Come tanti scrittori italiani, quasi tutti i miei viaggi all’estero sono scaturiti da inviti letterari. Festival, convegni, reading mi hanno permesso di scoprire nuove nazioni e, ovviamente, di incontrare intellettuali che mai altrimenti avrei avuto la fortuna di conoscere. Ecco perché torno a domandarmi quante volte avrò visto un sorriso come quello di Nahed Hattar, il narratore giordano ucciso poco tempo fa con tre colpi di pistola. Si trovava nel centro di Amman, davanti al tribunale dove era stato convocato per rispondere di un’accusa ignobile: aver condiviso su Facebook una vignetta considerata “oltraggiosa” per l’Islam. Secondo i media giordani, l’assassino sarebbe stato un imam cinquantenne, Riad Abdullah, proveniente da un quartiere povero della capitale.

Cinquantaseienne, cristiano laico e progressista, come ha ricordato Maria Serena Natale sul “Corriere della Sera”, Hattar era stato arrestato lo scorso 13 agosto dopo aver postato sul suo profilo una caricatura con un jihadista del sedicente Stato Islamico, il quale, a letto insieme a due donne, chiede a Dio di portargli un drink. Hattar stava dunque per presentarsi in aula rispondendo a un’accusa che parlava di “incitamento alla discordia confessionale e insulto all’Islam”. Dopo l’arresto, lo scrittore era stato liberato a settembre su cauzione. Rischiava fino a un anno di carcere. Non era la prima volta che Hattar aveva avuto problemi con la giustizia. In passato era stato assolto in diversi processi, anche per oltraggio al re Abdullah II.

Ancora legami fra satira e violenza. Discorsi che, almeno in Europa, tutti o quasi condividiamo, specie quando non riguardano la nostra religione – a questo proposito, il papa farebbe bene a spiegare cosa intendeva, giusto a proposito delle vignette di “Charlie Ebdo”, affermando che egli stesso avrebbe schiaffeggiato chiunque avesse offeso sua madre. Strana rilettura della passo in cui Cristo, nel Discorso della Montagna, invita a offrire l’altra guancia… Evidentemente non tutte le gote devono essere uguali.

Ma voglio tornare a me, e alla mia modestissima, privatissima impressione. Chissà, magari ci saremo anche incontrati, con lo scrittore giordano. Gli occhiali, i baffi già brizzolati, camicia chiara e giacca blu, insomma nella fotografia ritrovo i soliti abiti e il solito atteggiamento di chi partecipa a un convegno. Sì, per un attimo ho pensato che siamo uguali. Esiste però un’atroce differenza: dopo il dibattito fra colleghi, io me ne torno a casa, lui invece no. Lui viene messo alla sbarra solo perché ha diffuso una vignetta, e oltretutto in uno Stato fra i più aperti e laici del Medio Oriente! Il tutto, mentre lì accanto, con il pretesto del golpe, Erdogan falcia la borghesia più illuminata del suo paese.

Dico soltanto questo: la democrazia è il preziosissimo, fragilissimo frutto di due o tre millenni, tanto raro quanto delicato. Ricordiamo la sua vulnerabilità, e ringraziamo Dio – o meglio, gli innumerevoli martiri laici che lo hanno combattuto – per il dono che ci hanno lasciato sotto forma di libertà di pensiero, di parola e di stampa. È appunto grazie al loro sacrificio che oggi esistono zone del mondo sottratte alla teocrazia.

 

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Un “bonus” all’aglietto

Diciottenni: è arrivato il bonus da 500 euro per la cultura. L’offerta interessa 574 mila giovani che diventano maggiorenni nel 2016, e varrà anche per gli stranieri residenti in Italia con regolare permesso di soggiorno. Sarà spendibile fino a dicembre 2017 per musei, parchi, gallerie d’arte, eventi culturali, cinema e teatro, sull’applicazione “18app”. Per lo Stato, un costo di 290 milioni di euro. Il mio giudizio sul bonus non potrebbe essere peggiore. Siamo al panem et circenses: i diritti vengono cancellati, sostituiti da graziose donazioni. Ti tolgo quanto di sarebbe dovuto, ma in compenso ti allungo una paghetta, anzi, la mancetta una tantum. Lo si capisce bene con il secondo passo del progetto governativo. Dopo il bonus cultura per i diciottenni, il prossimo anno toccherà infatti ai professori, che beneficeranno anche loro di 500 euro per l’aggiornamento professionale. Tutto bene? Mica tanto. La rete Eurydice è intervenuta durante la giornata mondiale dedicata agli insegnanti pubblicando una raccolta di informazioni sui loro stipendi. I risultati, relativi a 36 paesi del nostro continente, vanno dal livello pre-primario a quello dell’istruzione secondaria superiore. Ebbene, questi dati mostrano che gli stipendi degli insegnanti continuano a rimanere congelati soltanto in sei paesi, tra cui, inutile dirlo, l’Italia. A differenza della Romania o della Turchia, chi insegna da noi non ha diritto ad alcuno scatto. In compenso, però, gli arriva il bonus! Dovendo commentare questo stato di cose, consiglio il dizionario del “Corriere della Sera”, alla voce aglio: “Si tratta di una pianta originaria dell’Asia centrale, e nelle sue diverse varietà trova largo impiego in cucina e in medicina. Cresce in terreni sabbiosi ma fertili e si raccoglie in estate. Il sapore acre e l’odore pungente sono dovuti a un olio essenziale ricco di solfuri, con importanti proprietà medicamentose […] In passato i raccolti correvano più rischi che nei tempi attuali, ed era frequente che andassero perduti. I contadini che attingevano alla piccola agricoltura il sostentamento di tutta la famiglia potevano alle volte considerarsi fortunati se avevano salvato almeno l’aglio. Da qui l’espressione consolarsi con l’aglietto, cioè rassegnarsi a una perdita, un fallimento, un investimento sbagliato, considerandosi già fortunati che non sia andata anche peggio”.

 

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Cara Lorenzin, sarebbe più utile un “Infertility day”

Solo Totò potrebbe commentare l’incredibile idiozia del Fertility day. Solo Totò, allorquando, disperato, sbottava: “Anche il limite ha una pazienza!”. Dopo di che, con un salto di registro solo apparentemente azzardato, potremo proseguire con un’altra esclamazione, stavolta dal taglio più classico: “Quousque tandem abutere […] patientia nostra?”. Fino a quando, Matteo Renzi, abuserai della nostra pazienza? Una cosa è certa: che provenga dal principe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio (vero nome del comico) oppure dalle Catilinarie (un tempo studiate al liceo), a questo punto limite e pazienza sono stati entrambi definitivamente varcati – il che ci porterebbe piuttosto a esclamare: “Il dado è tratto”, con tutto il cesarismo che ne consegue…

In ogni caso, non c’è dubbio che enormità come quella costituita dall’ultima, sciagurata campagna del ministero della Salute, non dovrebbe essere consentite. Con che impudenza, invitare (o istigare) a fare figli, fingendo di ignorare come la crescita zero sia soltanto l’inevitabile conseguenza del malfunzionamento che affligge la società italiana, a cominciare proprio da quei tagli alla sanità voluti dalla stessa ministra Lorenzini. Come tacere che, rispetto al resto dell’Europa, il nostro governo non ha fatto praticamente nulla per l’assistenza infantile, dedicandosi semmai a remare contro? In Francia o in Germania, le famiglie con prole incontrano facilitazioni d’ogni tipo, da asili nido pubblici, ad angoli-gioco in banca. Da noi, invece, chi ha figli va incontro a una specie di esclusione sociale. Fortuna che abbiamo avuto 80 euro!

Ma per commentare un simile incitamento “ecclesiale governativo”, come ha scritto un amico, incitamento sostanzialmente voluto per “dare figli alla patria” (magari per contenere l’effervescenza demografica musulmana), preferisco passare la parola a Annarita Briganti, autrice del romanzo memoir dal titolo Non chiedermi come sei nata (Cairo, 2014), vincitore del Premio Comoinrosa e successivamente rappresentato a teatro. Dopo aver narrato la perdita di un figlio, il testo parla infatti di una sofferta ricerca della maternità con la fecondazione assistita in Italia.

Scrive Annarita Briganti: “Apprendo con sgomento del Fertility day. Credo che in Italia servirebbe l’opposto, e allora lancio questa proposta: organizziamo un Infertility Day per aiutare tutte le donne che sono ancora costrette ad andare all’estero per diventare madri, per aprire la fecondazione ai single e agli omosessuali, per facilitare l’adozione e l’affido. Una discriminazione che nel nostro Paese premia ancora i ricchi, che possono fare figli quando e come vogliono, impedendo alle persone normali, a tutti gli altri, di costruire una famiglia. Oltre all’urgente necessità di velocizzare il sistema adottivo, occorre colmare lo scandaloso vuoto legislativo sulla procreazione assistita in tutte le sue forme”.

Prendiamo in parola questo appassionato invito. Lottiamo a nostra volta per un radioso, cosciente, concreto Infertility Day!

 

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Omicidio stradale, una legge tardiva e concepita male

Tardi e male. Fra aprile e maggio del 2002 scrissi lo stesso articolo due volte. La prima, a proposito di una bambina tredicenne e di una donna trentasettenne investite da pirati della strada; la seconda, riguardo a un incidente analogo capitato a due studentesse, nel quale una delle due morì sul colpo. Inutile dire che, in tutti e tre i casi, il colpevole era fuggito senza prestare aiuto. L’Italia, scrivevo allora (ossia quattordici anni fa), somiglia a un autodromo impazzito, dove ormai sembra lecita ogni cosa nell’impunità generale. “L’esile e arresa fragilità dei pedoni – scriveva in quel periodo Antonio Debenedetti – va assumendo tinte sempre più fosche”. Ebbene, se torno su quei vecchi interventi, è perché, qualche mese fa, è stata finalmente approvata una legge sull’omicidio stradale.

Una notizia simile, ovviamente, dovrebbe essere accolta con la massima gioia, malgrado siano stati necessari quattordici anni e centinaia di vittime per arrivare alla soluzione del problema. Perché un ritardo del genere? Naturalmente per la sordità, per la conclamata indifferenza della nostra classe politica rispetto ai concreti problemi dei cittadini. È stato così difficile, per i nostri lentissimi e occupatissimi legislatori, immaginare cosa significhi essere travolto e abbandonato al margine di una carreggiata? Eppure uno sforzo del genere non avrebbe richiesto troppa fantasia… Ma lasciamo stare.

Ora l’osservatorio dell’Asaps (Associazione sostenitori amici polizia stradale) comunica che, relativamente al primo semestre 2016, i risultati della legge sull’omicidio stradale non sarebbero confortanti, precisando però che “solo alla fine del 2016 e al giro di boa del primo anno della legge, potremo farci un’idea più chiara dell’andamento della pirateria stradale, e ancor di più dell’andamento dell’incidentalità in generale”. Tuttavia, c’è anche chi ritiene sin d’ora che la legge sia stata un flop (come Tommaso Canetta nel sito Linkiesta). Il punto, però, è un altro, e molto preoccupante, visto che il dato sulle omissioni di soccorso negli incidenti con morti registrerebbe un’impennata del 20 per cento.

Qui sorge l’oscuro timore che i nostri governanti abbiano almeno in parte sbagliato obiettivo. La legge, infatti, non avrebbe dovuto punire solo l’atto dell’incidente automobilistico (colposo al pari di tanti altri), bensì, soprattutto, quello della pirateria (imperdonabile come pochi altri). Non si dovrebbe punire tanto chi investe per errore, quanto in primo luogo chi scappa per nascondersi. Invece, l’introduzione dell’omicidio stradale nel nostro ordinamento (che peraltro, secondo alcuni, rischia di essere censurata come incostituzionale dalla Consulta) parrebbe sottovalutare l’orrore di chi non si ferma a prestare soccorso. Per il momento, comunque, conviene salutare con favore un intervento che, una volta tanto, riguarda da vicino i cittadini piuttosto delle solite lobby.

 

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Quello di Pistorius non è un femminicidio?

Nei giorni scorsi, un amico compositore, Luca Lombardi, mi ha fatto notare che una delle più celebri opere musicali, quella Carmen di Bizet peraltro tanto amata da Nietzsche, è il racconto di uno squallido femminicidio. L’accostamento mi ha immediatamente colpito, poiché, negli stessi momenti, stavo seguendo l’atroce storia dell’ex-sportivo e neo-omicida Oscar Pistorius, il sudafricano che correva con protesi in fibra di carbonio. Atroce non soltanto per la barbara uccisione della moglie, ma soprattutto per la scandalosa, irrisoria pena comminata all’assassino (sia detto per inciso, pensando al rampollo milanese Ruggero Jucker, che ammazzò la fidanzata con 22 coltellate e venne liberato dopo 10 anni di carcere, per non dire di O. J. Simpson, addirittura assolto: indubbiamente soldi e fama premiano).

Tornando a Pistorius, ha scritto su “Repubblica” Paolo G. Brera: “Niente da dire: come atleta sui blocchi di partenza era forte, ma come criminale alla sbarra non lo batterà nessuno: sei anni di carcere per aver ucciso la sua fidanzata Reeva Steenkamp nel bagno di casa, alle 4 del mattino di San Valentino 2013. Tra tre anni potrà chiedere la condizionale e tornerà a casa. Il minimo della pena era 15 anni, ma la giudice Thozokile Masipa ha deciso che il suo ‘sincero pentimento’ vale uno sconto come nemmeno al banco dei salumi dell’hard discount: 60 per cento”. Questo mi porta a riprendere una mia vecchia convinzione: Pentimento… Che meraviglia! Toglietemi una curiosità: perché, con il pretesto (vero o falso che sia) di essersi pentito, il malfattore pretende la riduzione della pena? Perché diamo per scontata questa equazione? Non riesco a trovare alcun nesso logico fra le due cose, anzi, semmai penserei al contrario: il pentimento dovrebbe piuttosto implicare una accresciuta coscienza della colpa commessa, e quindi sarebbe giusto che portasse l’imputato a chiedere un aggravio della sanzione, magari proprio del 60 per cento.

Ricordiamo ad esempio il cantante rock che uccise di percosse la figlia di Jean-Louis Trintignant e venne scarcerato dopo appena sei anni di pena. Evidentemente si dichiarò pentito solo e soltanto allo scopo di uscire prima. Bella forza! Invece mi sarebbe piaciuto sentirlo dichiarare: “Ora capisco per intero l’orrore di aver picchiato a morte una donna indifesa; ora sono pentito, e per dimostrarlo, domando di trascorrere tre anni in più nell’istituto di detenzione”. Così si fa. Tanto di cappello! Permesso accordato.

Con il che non si vuole certo condannare quel fenomeno del “pentitismo” che ha permesso lo smantellamento e la sconfitta delle Brigate Rosse. Tutto ciò non ha nulla a che fare con il pentimento. Sento di nuovo un odorino d’incenso assai familiare… Ah, Santa Chiesa! Ah, Controriforma! Come non afferrare l’efficacia profondamente gesuitica del termine “pentimento”! Che capolavoro, tirare in ballo i sentimenti, quando si trattava di una semplice negoziazione, di un evidente baratto fra libertà e delazione! L’Italia, questo paese grondante ipocrisia cattolica, naturalmente non avrebbe potuto tollerare una mossa tanto spregiudicata; ecco perché fu necessario nasconderla sotto i panni del tormento psicologico. Non sono solamente dettagli lessicali. Bisogna riconoscere che dobbiamo al “pentitismo”, ossia lo “speak to go” (parla per essere assolto, denuncia i tuoi complici per ottenere la libertà), la soluzione democratica di uno stato di emergenza. Ma chiamiamo le cose col loro vero nome. E cerchiamo di capire una volte per tutte che non si può deprecare il femminicidio e insieme assolverne i colpevoli.

Leggo che, subito dopo la sentenza, Pistorius ha abbracciato la sorella scoppiando in lacrime. Peccato che piangesse solo per sé. Perché le vittime hanno il brutto vizio di sparire, e gli assenti, si sa, hanno sempre torto.

 

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 Brexit assurda, ma la Ue se l’è cercata

La decisione del Regno Unito di uscire dall’Unione Europea è una tragica assurdità, di cui probabilmente pagheremo a lungo le conseguenze. Fra le tante analisi del voto, resterà memorabile quella relativa all’attesa di vita dei cittadini: si è visto infatti che persone anziane (con pochi anni davanti) hanno finito per decidere di giovani che stanno preparandosi a un lungo futuro incerto. Ma rispetto a questo autentico dramma, che investe specialmente gli stranieri e i numerosissimi italiani trasferitisi in Gran Bretagna, vorrei provocatoriamente provare a capire le ragioni di chi si è schierato per il Brexit. Qualche giorno fa, il “Washington Post” ha pubblicato un elenco con sette fra i motivi per cui molti cittadini europei nutrirebbero riserve e diffidenza nei confronti della Ue. La prima ragione sarebbero le ricche prebende dei burocrati europei: “La maggior parte dei collaboratori dell’apparato dell’Unione Europea riceve uno stipendio generoso con un’imposizione fiscale minima”. La seconda ragione è costituita dalle costose spese di viaggio, dato che il Parlamento europeo è obbligato a riunirsi ogni mese a Strasburgo, nonostante la maggior parte delle attività della Ue venga regolata a Bruxelles (dei costi del mantenimento della sede a Strasburgo e Bruxelles, stimati in 200 milioni di dollari all’anno, abbiamo però già parlato in questa rubrica). Al terzo posto del malcontento, troviamo il bizantinismo delle norme Ue. L’articolo ricorda la cosiddetta “legge della curvatura della banana”, che regola appunto la forma dei frutti per i produttori ed i loro grossisti. Passiamo poi alle critiche rivolte contro la mancanza di trasparenza, visto che le decisioni chiave della Ue vengono prese a porte chiuse, “anche se si tratta di una riunione della Commissione Europea”. E siamo agli ultimi tre punti. Uno riguarda il fatto che la UE non presta alcuna attenzione ai segnali provenienti da consultazioni e referendum. Ad esempio, nel 2005 gli elettori francesi e olandesi si dichiararono contrari alla bozza di Costituzione proposta da Bruxelles. Ebbene, due anni dopo, a Lisbona, l’Unione Europea firmò un trattato molto simile al testo bocciato. Glissando sul sesto motivo (l’enorme quantità di interpreti che lavorano nella Ue e i loro relativi costi), arriviamo a quello finale, che sostanzialmente li riassume tutti: l’eccessiva burocrazia.

Burosauri strapagati e inefficienti, necroburi, finanzieri e banchieri: forse sarà anche demagogia, ma sostenere che la Ue stia perpetrando un autentico “economicidio” del nostro continente, a cominciare dalla Grecia, è sotto gli occhi di tutti. Che tristezza, vedere una fra le più entusiasmanti idee del Novecento scippata da una lobby di affaristi! Meglio consolarci con una parabola che lo scrittore inglese Julian Barnes ha raccontato a “Le Monde”, per cercare di rendere il senso di sconforto suscitato dall’eurocricca abusiva. Un delegato britannico si reca a Bruxelles per avanzare alcune proposte, sensate, ragionevoli, dettagliate. Tuttavia, il commissario preposto non si decide ad accettarle, e continua a riflettere a lungo. Poi scuote la testa perplesso, e risponde: “Il suo progetto, in pratica, funziona molto bene… Ma in teoria?”.

 

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Un Benigni senza frontiere

È brutto autocitarsi, ma talvolta, purtroppo, non si può fare a meno di violare le regole del bon ton. In un libro uscito cinque anni fa, dunque iniziato almeno verso il 2009, avevo scritto un capitoletto intitolato: Parole definitive sui voltagabbana. Ecco cosa affermavo: “Parole definitive sui voltagabbana ci vengono da due maestri della televisione, Guido Pancaldi e Gennaro Olivieri, presentatori dello storico programma intitolato Giochi senza frontiere. Secondo le regole di quella gara, ogni squadra poteva disporre di un unico jolly, chiamato Fil rouge. Ebbene proprio questo è quanto dovrebbe essere offerto a ognuno di noi sul piano politico. Mi spiego. Fatta una scelta di campo, ossia puntato il jolly, possiamo tranquillamente rinnegarla, ma così facendo avremo perso per sempre il diritto di fungere da portabandiera del nuovo schieramento. Chi cambia squadra, cioè, sarà costretto almeno a militare nella retroguardia, lontano dagli araldi, in fondo in fondo. Insomma: non certo divieto di cambiare parere, bensi di “pontificare” da due opposte fazioni.

Il terrorista, quindi, si potrà pure convertire alla non-violenza, ma non avrà più il diritto di tenere banco sulla sua conversione. Idem per il comunista o per il fascista pentito: vietato predicare sotto la nuova casacca. Sembrerà poco, ma a ben vedere la pena del silenzio risulterà tremenda, per la vanità di molti transfughi. È una vera condanna all’anti-gogna: l’atroce berlina della non visibilità”.

Questo dunque notavo, concludendo con le smaglianti parole di Friedrich Nietzsche: “Un’affettazione nel congedo. Chi si vuol separare da un partito o da una religione, crede che sia ora necessario per lui confutarli. Ma ciò è pensato assai superbamente. Necessario è soltanto che egli comprenda chiaramente quali ganci lo tenevano finora legato a questo partito o a questa religione, e che essi non lo fanno più, quali intenzioni lo avevano spinto verso quelli e che esse ora lo spingono altrove. Noi non ci siamo schierati dalla parte di quel partito o di quella religione per stretti motivi di conoscenza: neanche dobbiamo, separandocene, affettare ciò”.

Se oggi ritorno su quelle vecchie carte, è a causa del comportamento di Roberto Benigni. Cambiare idea è legittimo, ripeto, ma non dopo aver tenuto banco tanto a lungo su quella che si abbandona (nello specifico, con un intero spettacolo dedicato alla sacralità della nostra Costituzione). Dopo averli combattuti per anni, è imbarazzante pensare di difendere coloro che intendono cambiare una Carta scritta dai nostri Padri Fondatori. Insomma, come sostenevo in tempi ormai remoti, il portabandiera di una fazione, non può diventarlo di un’altra. Egli dovrebbe avere la decenza di militare in fondo al nuovo schieramento, mesto, pensoso e, soprattutto, in silenzio.

Ahimè, la situazione politica italiana si è evoluta, e adesso, per nostra disgrazia, un titolo come Giochi senza frontiere ha spaventosamente cambiato di significato. Siamo di fronte a una specie di 8 settembre: il nemico è cambiato. Renzi propone cose che Silvio Berlusconi non si sarebbe nemmeno sognato di tentare. I “giochi” sono fatti. “Senza frontiere”, sì, ma fra sinistra e destra. Il trasformismo ha toccato il suo apice. Pare che Totti passerà alla Juve.

 

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Perché non vendere Strasburgo o Bruxelles?

“Ho spesso sognato una legge che mandasse sulla forca una mezza dozzina di banchieri all’anno: varrebbe almeno a ritardare, sia pure di poco, l’ulteriore rovina dell’Irlanda”. Così scriveva l’incorreggibile Swift nel lontano 1727. Come si vede, non c’era bisogno di aspettare Brecht, e la sua celebre, acuminata osservazione: “Che cos’è rapinare una banca, in confronto al fondarla?”. A meno di non voler ricorrere a quel Dizionario dei luoghi comuni cui Gustave Flaubert lavorò per trent’anni, dal 1850 alla sua morte, e che, alla voce Banchieri, recita: “Tutti ricchi […] lupi feroci” (loups cerviers).

Certo, slegate dal loro contesto, queste battute finiscono per suonare tanto generiche quanto qualunquistiche. Ma al fondo del discorso resta una verità, che gli ultimi dieci anni hanno tragicamente portato alla luce. Per uscire da ogni banale considerazione e spingerci nel vivo della ferita (autentico vulnus sociale e politico), meglio rivolgersi a un film quale The Big Short, ossia La grande scommessa (ma meglio sarebbe stato tradurlo forse Il grande scoperto). Girata da Adam McKay, con attori prestigiosi quali Brad Pitt, Christian Bale, Ryan Gosling, Steve Carell e Marisa Tomei, la pellicola racconta di come alcuni esperti scoprirono la gigantesca “bolla”, cresciuta in seno al mercato immobiliare e destinata a scoppiare con effetti disastrosi. Il suo maggiore pregio, tuttavia, sta nello svelare che l’instabilità del sistema fu causata dalla vendita smodata di pacchetti azionari pressoché nulli, etichettati in maniera fraudolenta. Mutatis mutandis, vi dice niente la Banca Etruria, con il suicidio del povero correntista?

Il vero dolore, comunque, va cercato altrove, cioè nel tradimento di un ideale, forse l’ultimo. Infatti, dopo il crollo del muro di Berlino e la caduta delle ideologie, molti europei avevano guardato all’Europa come a una possibile salvezza. Da qui proviene un senso di profondissimo scoramento. L’Europa dei banchieri rappresenta insomma l’ennesimo, cocente fallimento storico.

Intendiamoci: la trasformazione di un paradiso teorico in inferno pratico è la più umana delle esperienze. Basti pensare alla Chiesa o al Comunismo – e, al riguardo, non posso dimenticare la battuta di un regista cubano, secondo cui la parola di Marx è una splendida sceneggiatura da cui sono stati tratti solo dei brutti film. Eppure, che peccato, rovinare così anche l’estrema illusione comunitaria… Vedere l’ideale di un “Vecchio Mondo Unito”, ridotto ad una lobby di affaristi…

Inutile dilungarsi o cedere all’amarezza. Bisogna rimanere europeisti, non c’è dubbio e non c’è scelta. Vorrei però almeno avanzare una modesta proposta: si venda almeno uno dei tre costosissimi parlamenti-baracconi (Strasburgo, Bruxelles o Lussemburgo), devolvendo il ricavato a tutti quei poveretti gettati sul lastrico dalla famelica gestione dei “lupi feroci”, banchieri della Ue.

 

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Jeeg robot, o il superpotere dell’amore

Bella cosa il tam-tam, la voce che serpeggia tra gli amici fino a toccare gli estranei e in qualche modo renderli vicini, creando una specie di complicità. Il passaparola può riferirsi a un video, uno spettacolo, libro, qualsiasi cosa. In questo caso, la “soffiata” mi ha fatto scoprire un film intelligente e duro, rapido ma senza risultare schematico, fatto in economia eppure accurato: Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti. Il tutto, con attori di prim’ordine, dal più noto, potente Claudio Santamaria, al diabolico Luca Marinelli (che spiccava in Non essere cattivo), dai bravi comprimari, alla toccante Ilenia Pastorelli. Accanto agli interpreti, però, bisogna aggiungere il loro teatro, ossia una Roma vista con grande forza espressiva. Proviamo anzi a ricostruirne la geografia, passando (si perdoni il bisticcio) dal tamtam al Tom Tom. Questa pellicola diversa dal consueto, ci svela infatti una città diversa.

Seguendo l’apparecchio satellitare, i titoli di testa si aprono su un centro storico convulso, fra vicoli dove macchine e pedoni ostacolano la fuga di un ladruncolo già troppo in là con gli anni. Inseguito da poliziotti in moto, Enzo Ceccotti arranca pesantemente, finché, stremato, si acquatta lungo gli argini del Tevere. Non basta: dovrà immergersi nelle sue fetide acque. Stacco improvviso, e quello che tra poco diventerà un supereroe, sale su un autobus per trascinarsi a casa, destinazione Tor Bella Monaca. La storia proseguirà in questi paraggi, vuoi attraverso squallide giornate, vuoi in notti rischiarate dal neon o da graffiti che, di lì a poco, lo raffigureranno trasfigurato in icona criminale.

Altre sequenze, in verità, ci mostrano la zona e le sue famigerate torri in una luce che la fa sembrare addirittura accoglienti; non per nulla lo stesso protagonista ricorda un’infanzia felice, evocando un quartiere che, prima del degrado, era stato progettato con estrema cura. Si tratta tuttavia di impressioni passeggere, perché il racconto prosegue su un cantiere edile, sul raccordo o su strade analoghe, spazi di emarginazione riassunti molto bene nel garage-canile che fa da covo al perfetto villain (l’efferato Fabietto, detto “Zingaro”). Mentre la capitale continua ad essere punteggiata da esplosioni dovute a attentati mafioso-terroristici, va ricordato ancora un “non luogo” per eccellenza, ossia il solito centro commerciale dove l’umanità più derelitta cerca di ritrovare un’identità irrimediabilmente perduta.

Ma il cuore dell’opera sta forse negli interni: la desolata casa in cui Enzo-Jeeg vive da solo (e il pensiero va a Ghost Dog di Jim Jarmush, con Forest Whitaker) o l’atroce dimora di Alessia, una coinquilina con problemi psichici, figlia di un complice. Sarà appunto lei a funzionare come vero e proprio motore della trama, tratteggiando il personaggio di una povera ragazza abusata che allevia il proprio disagio immaginando di vivere in un cartone manga. In tal modo la brillante trovata iniziale, vale a dire la conquista casuale di super-poteri, si traduce in una struggente storia di compassione, comprensione e amore. E qui, bisogna dire, tanto di cappello al soggetto di Nicola Guaglianone.

Tuttavia, giunto all’incontro fra i due emarginati, il film si spacca in due: dalla felicissima congiunzione fra cruda analisi sociale e delirante fantascienza, si passa al più prevedibile conflitto fra titani, dove il piccolo borseggiatore, trasformato in eroe, salverà il mondo. È questa, a voler essere pignoli (preciserei ingenerosamente pignoli), l’unica riserva verso un autentico film-rivelazione. Adesso la scenografia cambia di nuovo, e dopo la breve parentesi in un interno napoletano, ci ritroviamo dentro e fuori lo Stadio Olimpico durante un derby. Il finale, sul Ponte della Musica, dà senso, se non altro, a un’infrastruttura nota soltanto per la sua sconcertante inutilità (parere personale, beninteso), riuscendo a fare, di un scialo urbanistico, un bel set cinematografico. Poi, nel controfinale, ritroveremo Enzo passeggiare assorto in cima al Colosseo, citando Sordi e insieme suggerendo, perché no, un Jeeg Robot 2. Ce lo auspichiamo, ma sarà assai difficile ripetere la sorprendente freschezza dell’originale.

 

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Lo scrittore algerino accusato dalla Francia di islamofobia

Bruttissima storia a Parigi. Dopo i violenti attacchi ricevuti per un suo articolo uscito il 31 gennaio su “Le Monde”, l’intellettuale francese di origine algerina Kamel Daoud ha annunciato la sua decisione di abbandonare il giornalismo. Intervistato da Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera”, Daoud ha dichiarato: “Firmerò ancora qualche articolo fino alla fine del mese, e da marzo chiudo. (…) Le pressioni sono troppo forti: in Algeria gli islamisti mi lanciano la fatwa, e adesso in Occidente c’è chi mi accusa di islamofobia. È un insulto immorale, un’inquisizione. In Francia è diventato troppo difficile esprimere le proprie opinioni”. Eppure non stiamo parlando di un brillante polemista (benchè pochi giorni fa abbia ha ricevuto il premio Jean-Luc Lagardère per il miglior giornalista dell’anno), bensì di uno fra gli autori più interessanti degli ultimi anni.

Sulla scia di una recente tradizione letteraria volta a proporre “riscritture” dei classici, nel 2014 Daoud ha pubblicato un romanzo in cui torna a raccontare la trama dello Straniero di Albert Camus (1942), ma dalla parte dell’arabo ucciso, invece che da quella del francese assassino. In questo modo, Il caso Meursault (tradotto in Italia da Bompiani) è arrivato in finale al Prix Goncourt. Lo scrittore, che da oltre vent’anni vive a Orano (la città in cui Camus ambiento La peste), collabora al “Quotidien d’Oran”, di cui è anche caporedattore, ma ormai molte testate accolgono i suoi interventi, dal “New York Times” a “Repubblica”. Apparso dunque su “Le Monde”, il coraggioso articolo che ha scatenato la bufera ricostruiva i fatti di Capodanno, quando in Germania, a Colonia, decine di immigrati nordafricani e mediorientali molestarono numerose donne.

Con ammirevole franchezza, Daoud affermava: “L’Occidente dimentica che il rifugiato proviene da una trappola culturale che si riassume soprattutto nel suo rapporto con Dio e la donna. (…) L’Altro arriva da questo vasto universo doloroso e spaventoso che sono la miseria sessuale nel mondo arabo-musulmano, il rapporto malato con la donna, il corpo e il desiderio”. Ebbene, anzi, “emmale”, pochi giorni dopo, sempre su “Le Monde”, un gruppo di 19 tra sociologi, storici e antropologi ha co-firmato un testo in cui accusano lo scrittore di “riciclare i più triti cliché orientalisti” per contrapporre l’Occidente come mondo della liberazione e dell’educazione all’Oriente islamico come mondo della sottomissione e dell’alienazione. A loro avviso, il risultato di tale scelta sarebbe quello di “produrre l’immagine di una fiumana di predatori sessuali potenziali, perché tutti colpiti dagli stessi mali psicologici”. Le parole di Daoud vengono infine bollate come islamofobe, termine che equivale a una scomunica. In particolare, però, lo scrittore e intellettuale è rimasto colpito dal paragone fra le sue tesi e quelle del movimento xenofobo tedesco Pegida: “Gli estremisti di destra criticano l’islamismo per rifiutare l’altro – ha confessato ancora a Montefiori – io per accoglierlo. Il loro scopo è l’esclusione, il mio è la condivisione. Io non sono affatto islamofobo. (…) Ma la Francia è un Paese con molti tabù, e io adesso ne faccio le spese”.

Fermiamoci qui. Secondo un’opinione diffusa fra molti intellettuali francesi, di sinistra, sì, ma critici rispetto all’attuale sinistra di Hollande, proprio questa ossessione del political correct avrebbe enormemente avvantaggiato la destra, questa realmente xenofoba, di Marine Le Pen. Si tratta di una storia purtroppo vecchia e nota anche in Italia. Il cosiddetto “angélisme” condannato da Douad corrisponde infatti alla nostra espressione (di origine hegeliana) “anime belle”. Ora, con tutte le sfumature del caso, come contestare “la miseria sessuale nel mondo arabo-musulmano”, la stessa, dovremmo peraltro aggiungere, che ha sempre caratterizzato, sia pure in misura minore, quello cristiano? D’altronde, come potrebbe essere diversamente, dato che entrambe le religioni, basate su testi ultra-millenari, riflettono culture agricole o pastorali, e dunque provengono da mentalità che hanno prodotto una turpe schiavizzazione della donna?

Ecco perché vorrei concludere con le parole di una donna filosofa, Elisabeth Badinter, che il 6 gennaio di quest’anno, sul giornale “Marianne”, ha affermato polemicamente: “Il ne faut pas avoir peur de se faire traiter d’islamophobe” – vale a dire: “Non dobbiamo avere paura d’essere trattati come islamofobi”.

 


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Le multe “random” dei vigili

Se dovessi dire cosa rappresenta per me lo Stato italiano, penserei a quanto mi è accaduto pochi giorni fa, quando, nel mio quartiere, sono arrivati i vigili. In un’area ormai da anni abbandonata a se stessa, fra tavolini abusivi che occupano parcheggi pubblici, musicisti da strada con altoparlanti (sic!), piramidi di immondizia equamente divorate da topi e gabbiani, ristoranti che non hanno mai avuto e mai avranno una canna fumaria in regola grazie alla sistematica assenza di controlli pubblici – in un western del genere, dicevo, gli abitanti sono faticosamente riusciti a trovare una qualche pallida forma di equilibrio (si chiama sopravvivenza). L’hanno trovata, sì, ma solo fino al momento in cui, terrore dei terrori, calano i vigili.

Perché, così, di colpo, compaiono d’un tratto? Perché non ieri, e perché non domani? Mistero. E qual è il loro scopo? Spostare i tavolini abusivi? Rimuovere le sedie di chi si appropriano dei parcheggi pubblici? Punire chi lascia pattume o multare i chitarristi a mille decibel (sempre pattume è, in definitiva)? Magari, hai visto mai, far rispettare le regole d’igiene? Macché! La loro spaventosa apparizione ha per unico fine multare una serie di macchine che si trovano in sosta regolare. Che dico? Più ancora che regolare, ambìta, anzi ambitissima da tutti gli automobilisti della zona: in breve, una posizione che, in oltre vent’anni di cronaca locale, non era stata mai – dico mai – sanzionata. Almeno fino ad oggi.

Perché allora colpire? Perché lo Stato italiano è arbitrario per definizione, e colpisce soltanto, sempre, i deboli. Ho provato a spiegarlo alla centrale operativa. Mi hanno risposto in maniera compunta (ah! lo zelo…), ricordandomi l’esistenza di una legge secondo cui è vietato un parcheggio che non consenta, tra l’automobile e il muro dei palazzi, spazio per i pedoni: “Lei non sa che occorre lasciare uno varco per far transitare i cittadini?”. Dopo una serie di repliche irriferibili, ho ribattuto: “E lei non sa che sto parlando di Roma, e che a Roma, molto ma molto spesso, non esistono marciapiedi? Cosa dovremmo fare: parcheggiare in mezzo alla strada?”

Ecco, nel caso migliore abbiamo davanti persone che, qualora non siano corrotte, risultano indifferenti allo stato della loro città, o meglio, completamente disinteressate alle condizioni di vivibilità dello spazio urbano – quelle condizioni che dovrebbero invece costituire l’obiettivo della loro professione. D’altronde, lo dicevano anche i romani (antichi): “Summum ius, summa iniura”. Ho insistito, chiedendo come comportarmi in futuro, ossia se parcheggiare o meno in una strada priva di marciapiedi, sì, ma anche di divieti di sosta, e a cui non è umanamente possibile rinunciare (è stato appena allargato un marciapiede vicino che ha tolto altri preziosi posti macchina). Risposta: “Non si preoccupi. Questi interventi, tanto, sono casuali. Vedrà, la prossima multa gliela faremo fra vent’anni”. Alla faccia della legalità, e soprattutto alla faccia di chiunque abbia ancora la voglia di richiederla.

 

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Dai fatti di Colonia solo l’Illuminismo ci può salvare

Di fronte agli orrori compiuti nella notte di Colonia, vorrei riportare le parole di Patrizia Zappa Mulas: “Accettiamolo una volta per tutte: l’obiettivo dell’integralismo islamico non è il capitalismo (i Sauditi ne sono una prova) e neanche l’imperialismo (il Califfato è un progetto imperialistico). Non è la finanza cinica, né l’amoralità occidentale, ma quel principio, evidentemente insopportabile, che ogni essere umano abbia uguale valore e uguali diritti. Il conflitto non è culturale ma antropologico, e il terreno su cui si combatte è il corpo femminile”.

Patrizia Zappa Mulas ha scritto queste righe presentando un copione intitolato Chiudi gli occhi – processo allo sguardo e tratto da una cronaca giudiziaria iraniana su una ragazza distrutta dall’acido. Il racconto cerca di spiegare dall’interno la violenza musulmana sulle donne. Nel caso di una pratica barbara quale lo sfregio chimico, il viso femminile viene cancellato. Come ha commentato Khaled Fouad Allam, un intellettuale arabo spentosi nel giugno scorso, così facendo “si rivela la traduzione traumatica del velo imposto, perché quel velo è più che un velo, è un divieto, un muro che cancella ogni diritto. Così le donne sono condannate a una specie di martirio profano”.

Le nostre democrazie laiche, invece, dicono altro. Rispetto al passato brutale e maschilista di ogni civiltà arcaica, esse insegnano che, al vertice delle conquiste dell’Occidente, oltre alla tecnologia (sia bellica che terapeutica, dalle granate alla penicillina), stanno i diritti riconosciuti alle minoranze. Con buona pace di Adorno, l’Illuminismo è stato il primo movimento intellettuale capace di dar voce a un’esigenza di eguaglianza fra ogni individuo. Neri, zingari, donne, omosessuali, poveri – tutti i diversi, i pochi, i derelitti, possono infine godere, almeno in linea di principio, dello stesso trattamento. Ecco il motivo per cui giudico imperdonabili i fatti avvenuti a Colonia e in altre città tedesche, contro le donne in quanto tali.

La donna rappresenta infatti il simbolo dell’emancipazione e del rispetto che va riconosciuto a ogni soggetto, e non soltanto al maschio alfa. È questa la ragione dell’accanimento dimostrato sia dai terroristi che hanno organizzato gli agguati, sia dai gregari che li hanno seguiti – fortunatamente pochi, rispetto all’immensa maggioranza di arabi integrati, per non parlare delle centinaia di migliaia di musulmani turchi che vivono in Germania. Forte è la tentazione di trascendere, spiegando cosa avrebbe dovuto fare la polizia in difesa di quelle creature inermi: cercherò di non cadervi. (Ma dove sono i poliziotti, quando c’è da picchiare? Perché leggiamo di Cucchi o della Diaz, ma mai di stupratori malmenati? Mi fermo qui, davanti a quello che per me rimane il quarto mistero di Fatima). Morale: sono innumerevoli i martiri europei immolatisi nei secoli per ottenere le conquiste di cui godiamo nelle nostre società occidentali, a cominciare appunto dalla parità di diritti fra uomo e donna. Facciamo in modo che la loro morte non sia stata vana.

 

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Prigionieri a Fiumicino

Perché tanto malumore negli ultimi giorni? Ovvio, perché sarò costretto a prendere un aereo. O meglio, perché sarò costretto a prendere un aereo abitando a Roma. Ma andiamo per ordine. Chi deve imbarcarsi a Fiumicino si trova di fronte a una situazione anomala. Ecco che mi è successo venti giorni fa. Appena arrivato in largo anticipo (io arrivo SEMPRE in largo anticipo), mi sono sistemato al bar vicino ai gate, convinto che, per raggiungere il mio, avrei dovuto camminare non più di cinque minuti. Brutta scoperta, invece, quando mi sono accorto che il G (come pure l’H), si trovava a dieci-quindici minuti di distanza.

Ma il bello viene adesso. Raggiungo trafelato l’obiettivo, e qui mi aspetta la grande sorpresa. Infatti, una volta giunto al gate, scopro che, da qui, sarà necessaria una navetta per arrivare al VERO gate, navetta che naturalmente passa soltanto ogni quindici-venti minuti (inutile dire che, pontili o finger essendo da noi opere di fantascienza, dovrò poi prendere un secondo autobus per salire infine sull’anelato velivolo). Oltre il danno, la beffa. Vengo infatti aggredito da una hostess che, in puro stile Alitalia, mi rimprovera di essere ritardatario! Io! Io ritardatario!

Morale della favola: per non perdere un aereo a Fiumicino, dovete aggiungere almeno mezz’ora alle due ore canoniche, e questo perché, a causa dell’incendio di qualche tempo fa, le cose si sono complicate. Chiunque sarebbe disposto a comprendere un simile stato di emergenza. Ma allora, ci si domanda, perché non tappezzare l’aeroporto di manifesti che avvertano di questo contrattempo, magari lanciando avvisi a livello nazionale, visto che il fatto, oltre agli abitanti della capitale, riguarda anche chiunque abbia la sciagura di prendere una coincidenza? E già che ci siamo, perché non limitarsi a semplici comunicazioni, invece di chiamare (a caro prezzo) il solito personaggio di richiamo, magari indagato per evasione fiscale?

Ecco: dovendo dirlo in una battuta, chiamerei tutto ciò una semplice forma di analfabetismo deontologico con gravi ricadute sull’utente, e pertanto definirei i nostri interlocutori come dei totali analfabeti civili. Quando comincerà la vasta impresa della loro rieducazione forzata?

 

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Una rivista araba contro l’oscurantismo

Parigi, due settimane dopo gli attentati. È mattina e sto andando vicino al luogo in cui, fra circa un’ora, il presidente della Repubblica, François Hollande, celebrerà le vittime del massacro. Vado a incontrare Camilla Cederna, una mia amica docente a Lille, traduttrice e poetessa (nipote della grande giornalista omonima).

Mi aveva chiamato ieri per una cosa urgente, precisava. E infatti mi regala immediatamente il secondo numero della rivista internazionale “La Vague culturelle”, edita in arabo e in francese con il sottotitolo Sexualité, corps, religion et art (il precedente suonava invece: La poésie contre Daesh). Si tratta della prima rivista marocchina decisa a difendere i valori della laicità e della libertà d’espressione, gli stessi che ispirano l’associazione Adhoc (Secularist, Modernist and Pluralistic), creata dalla politica siriana Randa Kassis, coordinatrice generale della rivista. Come scrive il direttore, il poeta Mohamed Moksidi, questa pubblicazione mira a promuovere un pensiero libero e critico, sottratto all’oppressione della religione, lottando con la poesia, l’arte e la cultura in genere contro ogni forma di oscurantismo estremismo e intolleranza (indirizzo revueculturelle@gmail.com, sito atargatismag.com).

“La vague culturelle” vuole insomma rappresentare un’onda d’amore e di libertà che avanza inesorabile, diffondendosi ovunque contro violenza, fanatismo, oscurantismo. Dal mondo arabo ci giungono forti le voci degli spiriti liberi in difesa dei valori di laicità, umanità, tolleranza, mi spiega Camilla, leggendo un passo di disarmante fiducia: “Amici, venite! Venite tutti a nuotare in quest’oceano di poesia contro la barbarie!”

Scopo di questi coraggiosi scrittori, artisti e giornalisti (spesso perseguitati dai regimi delle nazioni in cui vivono) è dunque la difesa dei diritti dell’uomo e soprattutto della donna, che oggi, nel mondo arabo, è destinata a subire ogni sorta di ingiustizia e brutalità. Insomma, davanti alla deriva dei fondamentalismi, qui si lotta per affermare nei paesi musulmani quella laicità che proprio essi espressero per primi con i falasifa, ovvero quei filosofi che, dall’VIII secolo all’XI secolo, riscoprirono Platone e Aristotele. Basti soltanto dire che, per Averroè, la verità può essere raggiunta sia attraverso la religione rivelata, sia attraverso la filosofia speculativa…

Mentre lascio Parigi, il giorno dopo, imperversano gli scontri attorno alla Conferenza sul Clima. Buon segno: segno cioè che la vita democratica, anche con i suoi eccessi, riprende a fluire. Ma non dimentichiamoci del disagio che da decenni cova nelle periferie, né degli amici della “Vague culturelle”.

 

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I cantautori del ministro Franceschini

Per chi non lo sapesse, nel pugilato l’espressione “uno-due” rappresenta la combinazione di due jab (ossia due colpi diretti)  portati in sequenza. Il primo pugno viene tirato con l’intento di nascondere il secondo, sferrato con una potenza maggiore e spostando l’altro braccio in posizione di guardia. In genere una simile combinazione è la prima a venire imparata dai pugili principianti – la prima, ma in definitiva la più efficace. Ebbene, senza che ce ne fossimo accorti, è proprio questa la stategia adottata dal responsabile dei Beni e delle Attività Culturali.

Tutti conoscono la sciagura abbattutasi sul Colosseo (se ne è accennato anche nello scorso numero della nostra rubrica). Il ministro Dario Franceschini ha pensato bene di destinare 18,5 milioni di euro per coprirne l’arena gladiatoria, ignorando le necessità della manutenzione ordinaria e lo stato precario di opere quali la Domus Aurea o le Mura Aureliane. Soltanto pochi, invece, sanno cosa è accaduto qualche mese fa, per l’esattezza il 2 marzo scorso. In occasione dell’apertura di “Casa Dalla” a Bologna, intrattenendosi con Gianni Morandi, Renzo Arbore e il sindaco della città, Franceschini ha affermato: “Leggendo le parole, ascoltando i messaggi, i valori, la cultura che è stata trasmessa con stili formidabili nelle canzoni dei cantautori italiani, penso sia arrivato il momento di insegnarli a scuola come parte della letteratura italiana”.

Portare i cantautori a scuola, dunque. Per una volta, mi astengo da ogni commento, lasciando la parola a un lettore che, firmandosi “fluyten”, ha osservato:

“Con tutto il rispetto per la musica e i testi dei cantautori italiani, mi sembrerebbe il caso, intanto, di dare una seria  formazione musicale agli studenti italiani a partire almeno dalla scuola elementare fino alle medie superiori. In questo curriculum potrebbero trovare posto anche i cantautori italiani, ma, prima, ci sarebbe  ben altro da imparare, mi sembra. Franceschini farebbe studiare l’arte poetica di Dalla, Rossi, Nek ecc. in assenza totale di un curriculum scolastico di Italiano? Queste proposte, pur lodevoli,  provengono da un background di ben nota italica ignoranza e disinteresse in campo musicale”.

Si tratta della solita, spinosa questione del raporto fra cantautori e letteratura. Fateci caso: chi vuole sottolineare il loro valore artistico, si riferisce sempre e solo a testi, mai alla loro musica. Sarebbe come se, per far conoscere un’opera lirica, ci si attenesse all’esame del libretto – cosa degnissima, come hanno dimostrato Mario Lavagetto o Marzio Pieri, ma certo non sufficiente per la formazione di un adolescente. Conosci Rigoletto? Come no! La musica non l’ho mai sentita, ma pensa che so a memoria tutte le parole. Il motivo di questa aberrazione, inutile dirlo, è da ricercare nelle lacune storiche della nostra scuola. Perché concentrarsi sulle parole, piuttosto che la musica? Ma perché la musica è difficile, mentre le parole le capisce chiunque!

Mi spiego. Sarei d’accordo con l’idea di analizzare la produzione di un cantautore, a patto, però, che a farlo fossero allievi in grado di eseguire anche la parte musicale delle sue opere, o meglio ancora, ragazzi capaci di suonare il piano o la chitarra (strumenti che rivelano il tessuto armonico di un brano), oltre che il flauto dolce (limitato alla sola melodia). Eccoci al punto: la grande assente dalla nostra scuola è la MUSICA, non certo la poesia, la quale, viceversa, viene studiata attraverso decine di scrittori.

Insomma, la proposta dei cantautori nei programmi dell’obbligo rappresenta il consueto alibi, la foglia di fico per evitare l’autentico problema, anzi, lo scandalo di una nazione che, pur avendo fatto dell’italiano la lingua stessa dell’Opera, ciononostante continua, colpevolissimamente continua, a ignorare la musica.

 

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Bernini, Caravaggio e l’alta moda

In un recente articolo per “Repubblica”, Tomaso Montanari è intervenuto su una sciagurata (il che vuol dire “consueta”) iniziativa culturale italiana.

Le sue riserve si sono appuntate su una mostra dedicata allo stilista franco-tunisino Azzedine Alaïa. Il perché è presto detto: mentre in Francia l’evento è stato allestito nel museo della moda al Palais de Galliera (e non certo al Louvre), in Italia si è pensato bene di occupare niente meno che la Galleria Borghese. Sul piano generale, le obiezioni del critico sono sostanzialmente due: da un lato l’incapacità di sapere usare in maniera adeguata il nostro patrimonio culturale, dall’altro quella di costruire luoghi specificatamente dedicati alla produzione contemporanea. Ma atteniamoci alla mostra vera e propria, intitolata Couture Sculpture e aperta fino al prossimo 25 ottobre.

L’errore principale, sostiene Montanari, consiste nel non percepire l’incongruità di certi accostamenti. La Galleria Borghese, infatti, rappresenta uno dei più miracolosi organismi artistici creati nella storia occidentale, scaturita com’è dall’ispirata collaborazione tra arti, epoche e stili diversi. Il risultato è un contesto perfetto, in cui ogni aggiunta è una diminuzione: “Ebbene, in un ambiente simile, è proprio necessario affiancare alla Pala dei Palafrenieri dipinta da Caravaggio per un altare di San Pietro, un manichino femminile che mette in forma un lungo abito bordeaux? E far scortare il David di Bernini da due vestiti minigonna, uno bianco e uno nero? Ed è necessario che un terzo abito, con pelliccia, sia esposto proprio di fronte alla candida Paolina Borghese di Canova?” Insomma, come è possibile mettere sullo stesso piano i marmi, i quadri, gli arredamenti della Galleria Borghese, e le opere di un celebre sarto alla moda?

Se a qualcuno può ancora sembrare imbarazzante usare i musei come location di lusso, lo scopo strettamente commerciale di tali operazioni finisce per mettere d’accordo tutti, sotto il magico segno del fund raising (ossia “raccattare”, o forse meglio “accattare” denaro). La mostra della Borghese, conclude l’articolo di “Repubblica”, ha invece una ben diversa ambizione culturale: “Punta, fin dal titolo, sull’equivalenza tra la couture di Alaïa e la scultura di Bernini e Canova”. Che dire? Consoliamoci con l’ultima trovata del ministro dei Beni Culturali (sic!) Franceschini, il quale (Dio lo perdoni, perché noi non possiamo farlo), ignorando le necessità della manutenzione ordinaria e lo stato precario di opere quali la Domus Aurea o le Mura Aureliane, ha appena assegnato 18,5 milioni di euro per coprire l’arena gladiatoria del Colosseo. E dire che ci lamentavamo del sindaco Alemanno, quando voleva portare le corse delle bighe al Circo Massimo… In tutto ciò, una domanda resta nel mistero: che cosa abbiamo fatto di tanto grave, in tutte le nostre vite precedenti, per meritare una sinistra del genere?


Nel Paese dei necroburi

E dodici! Sono state dodici le pagine del modulo che ho dovuto pazientemente riempire per ottenere il compenso legato a un mio intervento in un convegno universitario. Il tutto, per un importo di circa € 57 netti. Benissimo, ma chi mi pagherà un altro adeguato compenso per le ulteriori due ore che ho passato come un mulo alla macina, al fine di ottenere quanto mi era dovuto per il mio primo, originario lavoro?

Fino adesso le avevo considerate semplici forche caudine (per chi non conosce l’espressione, rinvio alla nota in fondo a questo articolo), ma una mia amica ha formulato un’espressione molto più calzante: siamo di fronte a veri e propri “intenti ostativi”. Se qualche tempo fa, in una prospettiva paradossale, avevo definito i nostri amministratori autentici “necroburi”, ossia portatori di morte attraverso la burocrazia, ormai il loro obiettivo mi è diventato chiaro. Essi hanno il solo, preciso scopo di ostacolare, impedire, dissuadere il lavoro altrui. Così, prima di accettare il prossimo convegno, ci penserò due volte, anzi, dodici, come i fogli che mi aspettano (con la paga di € 4,75 a pagina, ovvero la metà di una baby sitter).

Ma ecco un’altra terribile scoperta. Quel che speravo fosse una aberrazione italiana, alligna ormai in tutto il pianeta. Vengo invitato negli Stati Uniti, e scopro con ribrezzo che, per poter incassare i soliti $ 125 netti (questo in genere lo standard per i cosiddetti lavoratori cognitivi) dovrò nientemeno che iscrivermi al loro Servizio Sanitario Nazionale. Ora, a mia conoscenza, se c’è qualcosa che negli Stati Uniti non esiste e non è mai esistito, se c’è qualcosa per cui Obama ha lottato strenuamente e inutilmente, è appunto un sistema del genere. Certo, mi rispondono, ma per poter essere pagato è comunque indispensabile farne parte, per quanto, aggiungono poi sottovoce, in effetti la pratica è un po’ complessa (per chi volesse averne una vaga idea, rinvio alla seconda nota in fondo a questo articolo). Ringrazio il mio ospite e saluto. Viaggio annullato.

Piccola riflessione conclusiva. A me risulta che negli Usa l’evasione fiscale sia molto bassa, con pene spaventose e, udite udite!, da scontare realmente – il che, forse, giustifica tanto accanimento nei confronti di ogni utente, compreso chi traffica con poche centinaia di dollari. Come accettare, però, le stesse richieste in un Paese che, al contrario, ha da sempre esplicitamente favorito l’evasione, grazie a condoni tombali, scudi, e in ultimo la soglia per le frodi fiscali?

E qui torno a lanciare una mia vecchia proposta. Lasciamo almeno il contribuente libero di scegliere fra due opzioni. La prima resta quella già esistente, con trattenute fra il 30 o 40%, previa necessaria, estenuante compilazione di moduli. La seconda, invece, fissa direttamente una trattenuta del 50% alla fonte, prevedendo però la TOTALE scomparsa dell’interlocutore necroburo, odioso come quello americano, e per di più borbonicamente iniquo. Io so bene che cosa sceglierei. Non avrei infatti alcuna esitazione a pagare anche il 10% in più, pur di poter cessare ogni contatto con il nostro morbo amministrativo. Ma chi non pagherebbe, per evitare la lebbra?

 

Note

  1. Cito dalla Treccani.it: “Passo appenninico, presso l’antica città di Caudium (oggi Montesarchio). Durante la prima guerra contro i Sanniti, i Romani vi furono sorpresi e bloccati dal nemico; costretti ad arrendersi, ebbero salva la vita, ma a condizione di passare inermi sotto il giogo (321 a. C.). La grave sconfitta, di cui gli storici (cfr. specialmente Livio IX I ss. e Orosio Hist. III XV 2-5) sottolineano le circostanze ignominiose, è considerata dalla tradizione come uno dei rovesci peggiori subiti dal popolo romano nel corso della sua storia”.
  2. “Glacier is a secure web-based nonresident alien (Nra) tax compliance system used by all 10 Uc Campuses that foreign visitors use to provide tax-related information to Ucsd via the internet. Glacier helps determine tax residency, withholding rates, and income tax treaty eligibility”.

 

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Un’altra scuola è possibile

Su un recente numero di “Micromega”, Andrea Bagni, intervistato da Giacomo Russo Spena, condanna la riforma della scuola voluta da Renzi come ideologica e improntata a criteri neoaziendali. Insomma: avrebbe vinto il modello Marchionne. Docente e vice direttore della rivista “École”, Bagni sostiene (ma userei piuttosto il verbo “ratifica”) che il governo, con il suo autoritarismo, ha umiliato il mondo della scuola: “Nelle piazze di questi mesi si è difesa la scuola pubblica che poi significa difendere un modello di democrazia e i principi della nostra Costituzione”. Per comprendere il rovescio emotivo, esperienziale di queste osservazioni, per scoprire il risvolto drammaticamente umano di simile obiezioni, niente di meglio che leggere il libro di Giovanni Accardo Un’altra scuola. Diario verosimile di un anno scolastico, pubblicato da Ediesse nella collana Carta Bianca, diretta da Angelo Ferracuti.

“Leggendo queste pagine avrei voluto esclamare: signori, ecco un insegnante!”. Già la prefazione di Eraldo Affinati svela un atteggiamento accorato e partecipe, per descrivere un insegnante come Accardo che invita scrittori, divide il tempo con gli alunni, li guida nelle gite, sfida la sorte consigliando capolavori, prende sempre posizione, soprattutto quando scopre la fragilità dei più deboli: “Alcuni scorci del libro, un’autobiografia stilizzata, sono impietosi: la ragazza che cerca di scappare di casa e non sa con chi confidarsi; quella che viene dileggiata in rete; i ricatti fra i giovani scoperti per caso; le assenze degli studenti che rivelano lo sfacelo dei mondi sociali nei quali essi crescono”. E mentre si comincia a leggere il testo, la domanda si fa via via più assillante: possibile che la riforma abbia sistematicamente rifiutato di ascoltare le vere esigenze della nostra didattica?

Una confessione laica e deontologica come questa, andrebbe semplicemente letta nei cortei, nelle aule, nelle poche scuole pubbliche che resteranno dopo il brillante intervento “alla Jaruzelskij” della nostra sinistra – ricorderete certo l’ufficiale polacco che nel 1988, per evitare l’invasione da parte dell’Urss, preferì operare lui stesso un colpo di stato stalinista. Tutto sommato, è la formula di Renzi: “Perché lasciare fare a Berlusconi, o a chi per lui, quel che possiamo fare da noi stessi?”. Da parte mia, mi limito a riportare una pagina da cui, accanto all’orrore dei politici, dei burocrati, di certi genitori e (perché no?) di certi insegnanti, emerge, ahimè, anche quello di certi studenti, già pronti, perfettamente pronti, per “scendere in campo”. Il titolo è Marzo. Lunedì 11:

In terza porto le relazioni sui libri di Bajani. Inizio con Davide. Gli domando se ha chiesto aiuto a qualcuno per il riassunto della trama. “È scritta molto bene, con un lessico ricercato e una quantità di subordinate da fare invidia a Giorgio Manganelli”. Mi guarda interrogativo. “Non conosci Manganelli?”. “No”. “Ti ha aiutato qualcuno, hai fatto particolari ricerche?”. “Mi ha aiutato mio fratello che studia Lettere a Trento”. “E ha letto Ogni promessa di Andrea Bajani?”. “Sì”, risponde, ma sento il tono perplesso, forse ha capito dove sta andando a finire. “Non è che tuo fratello si chiama così?”, e cito il nome del sito da cui ha copiato, mostrandogli la pagina stampata. “Perché vedo che corrispondono pure le virgole”. “Ma le altre risposte le ho scritte io”. “E ti devo credere?”. “Certo che mi deve credere”. “E se invece ti dicessi che mi rifiuto di correggere la tua relazione e ti do due?”. “Non può farlo, le altre risposte le ho fatte io e lei me le deve correggere”. “E io invece non te le correggo”. “Non è giusto!”. “Vai dalla preside e dille che il professore fa delle scorrettezze. Anzi, dille che prenda un provvedimento disciplinare nei miei confronti“. “Ci vado subito”. “No, subito non vai da nessuna parte. Siediti e se ci vuoi andare, ci vai alla pausa oppure pomeriggio”. Guardo Deborah, ma lei, più intelligente di Davide, non mi dà nemmeno il tempo di parlare. “Io ho copiato qualche frase, so che ho sbagliato, mi scusi”.

 

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I dinosauri dell’Isis

Cortocircuiti. Il diluvio di immagini da cui siamo quotidianamente travolti, può provocare talvolta strane sovrapposizioni. Forse sarebbe meglio definirle interferenze impreviste e imprevedibili dalle quali scaturisce un’inedita visione della realtà. Sì tratta di scambi tra finzione e cronaca, fra telegiornali e film, che ci lasciano stupiti, se non interdetti, suggerendoci domande, più che proponendoci soluzioni. È appunto quanto mi è successo qualche giorno fa, vedendo l’ultima pellicola della serie di Jurassic Park.

Nulla di nuovo a confronto dei primi due bei capitoli. Ma c’è una variazione piuttosto interessante introdotta nella trama. Questa volta, a subire le aggressioni degli animali preistorici, non è un gruppo di eroi, né una massa di cittadini indifesi, come avviene nel racconto di King Kong (con lo scimmione che prima calpesta i passanti, poi si protende dalla cima di un grattacielo). In questo quarto episodio, Jurassic World, il terrore colpisce un pubblico balneare in visita a uno speciale zoo. È infatti su bambini, madri, padri e anziani in infradito, magliette e occhiali da sole, che piombano i terribili pterodattili liberati per errore dalla loro gabbia. In tal modo, la catastrofe si abbatte su una tranquilla, familiare visita in uno zoosafari (grande riserva naturale recintata, al cui interno vivono quasi in libertà varie specie di animali esotici). Sbucando improvvise dal nulla, le forze del Male seminano il panico, mietendo vittime inermi.

Ebbene, per una di quelle stranezze cui si alludeva pocanzi, queste immagini provocano nello spettatore medio una sorta di improvviso, lacerante déjà vu. Dove ho già visto questa strage degli innocenti? Quando mi è capitato di assistere a scene simili? Negli Uccelli di Hitchcock, ovviamente, ma la risposta è un’altra, e va ben oltre il campo cinematografico. La risposta viene dalla tv, dove, appena poche ore prima, era stata trasmesso il massacro dei bagnanti europei sulla spiaggia di Soussa. Nel film vediamo uccisioni commesse da animali preistorici, in Tunisia omicidi perpetrati dall’altrettanto preistorico Stato Islamico. Da un lato c’è il ritorno della natura, dall’altro il rimosso della storia. E questo sarebbe cinema d’evasione?

 

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Come (non) migliorare l’università

Continua ad avanzare l’allegra brigata di chi vorrebbe applicare all’Università italiana il sistema di tipo statunitense. Autonomia, sponsor, valutazione. Il tutto, nel disperato tentativo di trasformarci in “genti / del bel paese là dove ‘l yes suona”. Vasto programma, certo, ma non dimentichiamo che l’espressione è tratta dall’Inferno (XXXIII, 80), e forse non a caso. Come si fa a pensare di estrarre un elemento appartenente ad una specifica cultura, e pretendere di trapiantarlo artificiosamente su un’altra? Non è bastata l’esperienza degli sciagurati che hanno cercato di “esportare la democrazia”?

Lo stesso risultato si otterrebbe introducendo in Italia un’Università e una scuola meritocratiche, basate sul libero mercato e su stipendi liberi. Non sarebbe né meglio né peggio: solamente impossibile. Questioni storiche, culturali, religiose, che affondano nei secoli, dovrebbero farci capire che, almeno adesso, noi siamo completamente refrattari a questo genere di assetto.

Ragion per cui, bisognerebbe operare in direzione esattamente contraria a quella dell’insegnamento Usa. Nessuna valutazione basata sul merito, mai poi mai!, visto che si tratterebbe di far giudicare degli italiani da altri italiani. I risultati sono sotto gli occhi di tutti (spropositati costi inclusi). Introdurre piuttosto dei parametri di controllo il più oggettivi e specifici possibile, puntando su criteri incontrovertibili come quello dell’anzianità, sia pure strettamente verificati anno per anno in base all’effettivo lavoro svolto. Ridurre al minimo le commissioni, anzi mirare a abolirle, visto che tutto ciò che rappresenta un centro di potere, finisce inevitabilmente, italianissimamente, per alimentare manovre, manovrine e manovrette (secondo il rodatissimo meccanismo del vassallaggio). Puntare a un sistema anonimo, automatico, impossibile da scalfire, qualcosa come uno “statalismo corretto”.

E non dimenticare mai l’unico motto della nostra bandiera. “In God we Trust”? Macché. “Liberté, egalité, fraternité”? Figuriamoci. “Italien über alles”? Niente di tutto ciò, ma solo un delicato abracadabra: “Fatta la legge, trovato l’inganno”.

 

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Vitalizi

Tanti anni fa, lessi in un sussidiario alcune pagine dedicate all’avvento del basso medioevo. Dopo l’invasione dei Longobardi, la popolazione si ritirò a vivere in villaggi montani inerpicati sulle alture. La pianura e il fondovalle vennero abbandonati, le strade costiere dismesse, mentre i fiumi tornarono ad essere attorniati da paludi. In breve, l’Italia riprese la fisionomia che la caratterizzava prima della conquista romana.

Ebbene, scorrendo l’agghiacciante resoconto, ho avuto la netta sensazione che qualcosa di simile stesse accadendo sotto i nostri occhi. La civiltà si ritira, si rattrappisce, colpita da una sorta di mostruosa piorrea, insieme etica e politica. Un esempio?

I deputati e i senatori condannati in via definitiva a pene superiori a due anni per tutti i delitti di mafia, e per quelli che vanno dal peculato alla concussione, non riceveranno più il vitalizio. Grazie alle 520.000 firme consegnate due giorni fa ai Presidenti Boldrini e Grasso, è stato fatto “un grande passo avanti”. Sul sito Libera, unio fra i principali promotori dell’iniziativa a cui ovviamente ho dato la mia adesione, leggo stupito queste frasi di esultanza. Esulto anch’io, e tuttavia mi chiedo: è veramente il caso di accettare, di fare propria un’espressione come “un passo avanti”?

Davanti a un tale scandalo, sia pure almeno in parte scongiurato (evidentemente “solo” due anni di pena definitiva non bastano per togliere un vitalizio), mi domando: non sarebbe meglio citare Altan? Penso in particolare al suo ineffabile personaggio che, negli anni scorsi, scandiva le nostre settimane indicando a ogni vignetta, col suo leggendario ombrello: “Oggi siamo arrivati fino a qui?” Certo, dopo l’approvazione della delibera da parte degli Uffici di presidenza del Senato e della Camera dobbiamo essere felici.

Si poteva fare meglio? Naturalmente. Poteva andare peggio? Non c’è dubbio. Basti soltanto dire che, per quanto riguarda la riabilitazione (termine che in certi casi mi fa francamente sorridere!) prevista dal Codice penale per tutti i cittadini e decisa dal Tribunale di Sorveglianza, cioè dalla magistratura, Libera ha proposto che si modifichino gli articoli del Codice penale. Udite udite! Questi pericolosi rivoluzionari pretentederebbero (ma si può tollerare gente del genere?) che non sia possibile riabilitazione se non si è restituito almeno il maltolto. Cose da pazzi! Come se il più sincero pentimento non bastasse!

Ma torniamo ad Altan. Oggi sarà pure un bel giorno per la nostra democrazia, visto che ha vinto la più grande petizione della storia del web italiano. Eppure la realtà resta desolante: se le discussioni vertono ancora su principi così elementari e primari come quello di NON PAGARE CON I SOLDI PUBBLICI DEI PREGIUDICATI APPARTENENTI ALLA CASTA, ebbene, dobbiamo essere consci che allora la marea di escrementi in cui, “altanianamente”, sprofondiamo è ancora, decisamente, molto alta.

 

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Messico, il mistero dei 43 studenti scomparsi

Il 2 ottobre 1968, durante le Olimpiadi di Città del Messico, i reparti speciali dell’esercito e della polizia spararono sui partecipanti a una manifestazione, uccidendo oltre 300 giovani. Fu il cosiddetto massacro di Tlatelolco. Ebbene, a distanza di tanti anni, una notizia altrettanto drammatica è apparsa sulla stampa italiana il 9 novembre scorso, denunciando quanto in realtà era già stato annunciato poco prima. Il 26 settembre, infatti, un gruppo di studenti della Scuola magistrale “Raul Isidro Burgos” di Ayotzinapa, in maggioranza indios, era arrivato a Iguala, nello stato meridionale di Guerrero (una zona del Messico con una lunga storia di violenza politica, nota per le sanguinose lotte tra i cartelli dei narcos di Sinaloa, della famiglia Michoacana e dei Beltran Leyva).

Protestando contro la riforma dell’istruzione, i ragazzi intendevano anche celebrare il 46esimo anniversario della strage di Tlatelolco. Purtroppo l’esito della dimostrazione si rivela tragicamente simile a quello dell’anniversario: dopo l’assalto di alcuni uomini armati e di alcuni agenti della polizia municipale, il bilancio finale è di sei morti e 25 feriti. Tuttavia, ecco il dato più inquietante, 43 studenti sono dati per dispersi. Torniamo così alla notizia del 9 novembre 2014, in base alla quale, dopo un mese e mezzo di attesa, in una fossa vicina alla città sarebbero stati ritrovati tutti i loro corpi bruciati in un immenso rogo – o meglio, le loro ossa, sebbene non ancora identificate. Nell’occasione, il procuratore generale di Iguala, chiamato a indagare sul ruolo della polizia nella vicenda, ordinò l’arresto dei 22 agenti, accusati di aver sparato agli studenti. Quanto al mandante, venne accusato il sindaco di Iguala, corrotto e legato ai narcos. Come scrisse Guido Olimpio sul “Corriere della Sera”, quei 43 aspiranti maestri si aggiungevano così alle lista dei quasi 25 mila persone cadute nella “guerra messicana”, a causa degli strettissimi legami fra apparati statali e criminali.

E qui arriviamo al nocciolo della nostra storia: nel febbraio scorso il quotidiano spagnolo “El País”, interrogandosi sulla “matanza de Iguala”, ha pubblicato un documento sconcertante. Dopo lunghe ricerche, una équipe argentina di antropologia forense invitata dalle famiglie delle vittime, ha segnalato gravi inconsistenze procedurali da parte del Governo, negando che esistano sufficienti prove scientifiche dell’eccidio. Insomma, a tutt’oggi non sarebbe possibile affermare con sufficiente oggettività cosa accadde davvero ai 43 studenti. Da parte sua, il rapporto di Amnesty international per il 2014 afferma: “Le incomplete e limitate indagini su questo caso hanno messo in evidenza i rapporti di collusione fra autorità di pubblica sicurezza e criminalità organizzata”.

Così arriviamo alla parziale fine di questa atroce storia. Non resta che attendere ancora, perplessi come davanti a uno di quegli aerei spariti nel misterioso Triangolo delle Bermuda, un Triangolo delle Bermuda che questa volta riguarda il mondo della comunicazione. Per usare l’espressione del grande Juri Lotman, in una semiosfera tanto brulicante e fitta di notizie, può accadere che finisca nel nulla quella relativa alla sorte di alcuni giovani aspiranti maestri (ricordiamolo), colpevoli soltanto di sperare in un futuro democratico.

 

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Il cinema dei traduttori tra Molière e Pynchon

Parliamo un po’ di cinema, di cinema italiano, anzi, di come il cinema italiano tratta quello straniero. Se ne dicono tante, contro il sistema del doppiaggio, e io credo a ragione. Per una volta, però, vorrei spostare l’attenzione su un problema lievemente diverso, “intrinseco” a quel sistema, ma non direttamente ad esso connesso. Potremmo definirlo un “vizio di forma”.

Mi spiego. Prima ancora di scagliarsi contro o a favore dei sottotitoli, la questione riguarda un altro passaggio che troppo spesso resta sotto silenzio. Sì, perché se la voce del doppiatore si sostituisce a quella dell’attore per parlare in italiano, c’è innanzitutto bisogno di qualcuno che gli abbia tradotto la parte da recitare. Eccoci al punto: chi fa queste traduzioni, e soprattutto, come vengono fatte? Il meno che si possa rispondere è “con la mano sinistra”. Sembra un dettaglio, ma due piccoli esempi dimostrano quanti danni possa provocare l’incompetenza o anche l’indifferenza verso questa delicatissima funzione di adattamento culturale. Il tutto, va da sé, nel caso di un cinema che dia un’importanza perlomeno minima alla parola.

Il primo affondo ha avuto luogo con Molière in bicicletta, un film di Philippe Le Guay con Fabrice Luchini e Lambert Wilson, uscito all’inizio dell’anno scorso con un discreto successo di critica e pubblico. La storia è quella di un teatro al quadrato, dove una messa in scena del Misantropo di Molière (capolavoro in versi del Seicento francese) trasformerà l’attore nel suo stesso personaggio. Da qui una serie di scambi fra presente e passato, fra la corte di Re Sole e i salotti della borghesia parigina di oggi. Tutto ben fatto, se non fosse, appunto, per la traduzione.

Infatti gli sciagurati addetti alla bisogna hanno pensato bene di ricorrere a una versione italiana a dir poco preistorica, dove i cristallini e lineari versi di Molière vengono scempiati da inverosimili arcaismi. Per certe mancanze di sensibilità, sarebbe bene stabilire adeguate sanzioni. Se così fosse, l’idea di far pronunciare a un personaggio esclamazioni come “Giuraddio!” (laddove si potrebbe tradurre “Caspita!”), esigerebbe addirittura pene corporali. Morale: per un feroce paradosso, la traduzione dei versi del Misantropo risulta più incomprensibile dell’originale! Di più: per una vergognosa incompetenza, la versione italiana risulta così macchinosa e desueta da sembrare di molto precedente al testo molieriano del Seicento. Abbiamo cioè il paradosso di una traduzione che risulta più vecchia dell’originale!

E veniamo al secondo scempio, che ha avuto come bersaglio Inherent Vice, un film di Paul Thomas Anderson, con Joaquin Phoenix e Benicio del Toro. Emanuele Sacchi ha osservato che a volte è bene soffermarsi sul titolo, specie se in esso risiede la chiave di un’opera come quella tratta da un romanzo di Thomas Pynchon. Ora, Inherent Vice andrebbe tradotto, letteralmente, “vizio intrinseco”: questo termine tecnico del ramo assicurativo sta a indicare “l’incapacità di un sistema nel reggere l’instabilità centrifuga delle sue componenti interne, ma insieme esprime la reale sostanza sia del libro di Pynchon, sia della pellicola di Anderson”. Senonché…

Senonché, ora arrivano i nostri, ossia i baldanzosi traduttori, che pensano bene di cancellare le tracce dell’unica possibile soluzione. Siccome la trama è complicatissima, arzigogolata e in sostanza incomprensibile, perché aiutare lo spettatore nell’unico punto in cui sembrerebbe possibile intravedere una soluzione o almeno un’allegoria? Confondiamo tutto, si sarà detto l’abile anglista o chi per lui (mai trascurare le nozioni linguistiche dei distributori, dei produttori, o di chiunque ruoti intorno al film). Così la problematica espressione viene tradotta due volte in maniera diversa! Il titolo infatti recita Vizio di forma, ma nella scena madre i personaggi parlano invece di “vizio intrinseco”.

Concludo. Che pensare? E’ peggio un incompetente o un deficiente (nel senso di chi accusa un deficit di attenzione, o di cure, o di applicazione, o magari di retribuzione)? E infine: dietro un simile vizio di forma, non se ne nasconderà uno di contenuto?

 

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Rezza-Mastrella, tra il riso e la morte

Chi ebbe la fortuna di assistere, nel 1995, allo spettacolo di Antonio Rezza e Flavia Mastrella intitolato Pitecus, o magari di rivederlo nella retrospettiva dell’anno scorso al Teatro Vascello di Roma, non avrà dimenticato quell’esperienza. Come poche altre volte in vita mia, mi ritrovai davanti a autentico fenomeno teatrale – nel senso di una celebre interiezione romanesca (pur essendo, il Nostro, nativo di Nettuno), che recita: “Ah fenomeno!” – ma quale segno, grafico o diacritico, potrà mai descrivere l’allungamento straziante della “o”? Forze bisognerebbe trascrivere la parola su un pentagramma, magari solfeggiandola…

Torniamo a bomba. Per avvicinarci alla poetica insieme anarchica, amara e dada del duo Flavia Mastrella-Antonio Rezza, ora possiamo leggere un loro libro uscito alla fine dell’anno scorso, Clamori al vento. L’arte, la vita, i miracoli (Il Saggiatore, 398 pp. con 80 fotografie a colori, € 19.50). Esaminando quella che Andrea Cortellessa ha definito su “Alfapiù” come la più impertinente macchina spettacolare del nostro tempo, occorre però seguire la sua precisazione: “Non una gioiosa macchina da guerra, quella assemblatasi ormai quasi trent’anni fa sul litorale laziale: perché non è gioia, si capisce, quella che si respira da queste parti (neppure tragedia, certo). Semmai un’eccitazione anomala, un’isteria creativa, un’euforia della disgrazia”.

È appunto la disgrazia dell’esistere e di essere un corpo, l’ispirazione prima di questa drammaturgia. Vero gimnopedista, Rezza appartiene alla linea dei saltimbanchi tracciata da Jean Starobinski, linea gnostica e metafisica, devota a un “Dio mozzo che ci ha fatto a pezzi”. Così come si può mischiare prosa e poesia, la sua arte miscela riso e morte: “Credo che rispetto ai vivi ci siamo persi il pubblico dei morti e di quelli che nasceranno dopo di noi. Chiunque è vivo, è di nicchia, se si esibisce solo per quei quattro vivi che saranno morti. Noi saremo per quelli che verranno dopo”. Che dire, poi, delle sue campagne di lettura? “Di Artaud ho tutti i libri ma non ne ho letto uno […] I libri belli non vanno letti, bisogna avere il coraggio di fidarsi. Bisogna averli in mostra senza sciuparli con la nostra approvazione. Di Artaud so più per sentito dire che per dovuto leggere. E mi fido del patema, dell’ansia posturale, del ragionamento limpido. Mi fido a tal punto che se Artaud definisce Sartre un pezzente, quasi quasi leggo Sartre. Perché di lui non mi fido. Senza conoscerlo”.

Ma non ho altro da aggiungere. Preferisco invitare il lettore all’ascolto. Sentiamo allora Rezza in un altro suo brano, dove vediamo il pensiero di Artaud passato al vaglio di una miseria degna del sommo Belli: “Quando vedo i corpi degli anziani distorti dall’età, con lo sterno che sporge invano contro un nemico che ha gia vinto, con le gambe rinsecchite sull’addome che si gonfia, io mi innamoro di questa immensità. La carcassa che da dentro si espande e modifica la sua struttura è la cosa più struggente che possa capitare. Dopo tanto tribolare ci si piega al tempo che soffia nel petto l’aria che ci gonfia. La morte, se non è prematura, trova corpi distorti e spiattellati. La morte è sempre intempestiva, arriva quando il guaio è fatto. Amo la carne violata dall’uso, le ossa curvate dai giorni, quest’accozzaglia che si muove al rallentatore dopo aver vissuto all’ombra di se stessa. Amo gli anziani perché non sono loro, hanno il corpo lontano da quello originale, continuano a far finta di essere per pura convenzione. E non vedo l’ora di esser vecchio per aggredire questa piaga sociale con il diritto dell’età. I colli gonfi sotto la parola che esce a fatica, le braccia storte dall’uso, i denti caduti, le palle allungate. Un affronto alla pelle, la grazia iniziale che diventa macchietta. Gli anziani sembrano residui della commedia dell’arte, con tutti i limiti che ne derivano. E anche per questo mi deformo, per anticipare l’inevitabile. E per essere pronto a quando non potrò più deformarmi perché già alterato. Il mio corpo deforme è un’invettiva al tempo che scorre. Voglio fare la faccia brutta alla morte, non posso rimanere ad aspettare ciò che la mente accetterà, sarebbe un gesto razionale. E io con il cervello mi ci pulisco il culo”.

 

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Gli infissi della Merkel

“Corriere della Sera”, 23 gennaio 2015, Valentino Paolo: “Quando tempo fa le chiesero cosa la rendesse orgogliosa della sua Germania, Angela Merkel diede una risposta sorprendente, ma illuminante: «I nostri infissi, che si chiudono isolando perfettamente le finestre» […] Forte della sua formazione scientifica e del prosaico retaggio tedesco-orientale, Angela Merkel sa sicuramente apprezzare il bello, ma non perde mai di vista la sostanza. Le finestre, appunto”.

Leggere queste parole e sobbalzare, per me è stato tutt’uno. La ragione, lo confesso, è squisitamente personale, visto che qualche anno fa scrissi una poesia proprio su questo tema: “Amo la carta igienica tedesca […] / E gli infissi! Quegli infissi massicci / dove tutto si incastra a perfezione / malgrado il peso, grazie all’enorme peso / di finestroni e porte”. Soltanto un popolo così atterrito dalla fragilità, terminava il testo, poteva fare cose talmente gravi e grevi, cose che lo proteggono dal Fuori (“infissi che si chiudono isolando perfettamente”, precisa la cancelliera tedesca), ma che insieme splancano le segrete del Dentro.

Fin qui si tratta una reazione individuale e circoscritta. Amen. Ma ben presto ho capito che c’era nell’aria qualcosa. Non si può sopprimere la Grecia impunemente (sia pure partendo da motivi assai fondati). Al di là dell’orizzonte politico, la nuova ferocia teutonica sta iniziando a diventare motivo di riflessione, letteratura, poesia. Ed ecco che, lo stesso giorno dell’intervista, scopro questa poesia di Franco Buffoni, una conversazione tra la Germania (testo corsivo) e il resto dell’Europa:

 

Siamo tra la crisi del ventinove
E la nomina di Hitler alla Cancelleria
Siamo qui nell’interim
A cavalcare
Nel timore di farci scavalcare…

Da Atene Roma Madrid e Lisbona?

No, da Berlino Nord Sud Est e Ovest.

Ma non volevate dominare il mondo?

E adesso che l’Europa l’avete conquistata…

Cercate di capire, il primo e il secondo
Dei nostri recenti tentativi
Non sono stati propriamente sbagliati:
Li abbiamo solo messi in atto
Con mezzi sbagliati.

E adesso

Che i mezzi sono quelli che funzionano,

Adesso che ci avete conquistati

Non ci volete più,

Non la volete più l’Europa?

Adesso abbiamo paura. Angst, nur Angst…

 

Dunque, fateci capire: l’Europa la volete

Ma non fisicamente…

Ne desiderate solo l’anima,

Il resto dobbiamo tenercelo

Nutrendolo come possiamo…

Ach so…

 

A firma Braaaaaaaaaains, il sito Tumblr presenta un commento puntuale, dove si legge che questa composizione riassume un “secolo breve”  di storia appena destinata a tornare incessantemente perché ancora irrisolta. Si tratta dell’epoca che va dal 1922 (anno della nascita dell’Italia Fascista e dell’Unione Sovietica) al nazismo, su su fino all’ultima dittatura (quella di Franco in Spagna, conclusasi nel 1975). Semplificando questo periodo storico all’orrore indicibile dell’Olocausto, la storia degli imperi europei del XX secolo è diventata un fantasma, un morto vivente che ritorna: “Cos’è un morto vivente? È una cosa che non sa di essere morta, che dovrebbe essere morta ma che ancora non lo è. Come Dio che, quando muore, se non si è fatto i conti con se stessi, si incarna in una potenza ancora più devastante dell’onnipotenza divina. Cos’è la riduzione della politica nazionalsocialista tedesca all’Olocausto senza una riflessione sulla sua politica, che tanto diversa dalla logica politica attuale – quella fatta di eccezioni, decreti e profitto – non è?”

Ma torniamo alla poesia. Infatti, con il suo recentissimo O Germania (Edizioni Interlinea, 60 pagine, 12 euro), Buffoni ha fatto di un tale argomento il centro focale di una felicissima ispirazione. Salutiamolo allora con un ultimo testo, Oggi che la Germania, aperto dalla struggente citazione di Heinrich Heine che recita: “Se penso alla Germania di sera, io non riesco a dormire”.

 

Oggi che la Germania,
Non è più il mostro accucciato
Che ho conosciuto nell’infanzia
Oggi che è tornata arrogante E la sua
Meticolosità nell’efficienza
Mi appare per che è
Nevrosi da obbedienza
Io le ripeto: quieta, zitta, a cuccia
Già hai dato il meglio, non strafare.

 

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Quando Lucera era una città musulmana

Forse non tutti sanno che, molti secoli fa, venne creata una sorta di Guantanamo italiana. Naturalmente l’Italia non esisteva ancora, anche se in compenso, presso la Corte palermitana di Federico II di Svevia (ritenuto fra i sovrani più illuminati e tolleranti), stava nascendo la poesia italiana. Come che sia, nella prima metà del XIII secolo, fu proprio questo grande sovrano (appassionato della cultura araba, tanto da guadagnarsi il soprannome di “Sultano battezzato”) a concepire una simile forma di apartheid ante litteram.

Certo, oggi per noi è difficile giudicare una scelta in apparenza così brutale; forse furono altre le ragioni che lo indussero ad agire. Oltretutto, in un contesto tanto remoto, tempestoso e complesso, una politica simile doveva essere alquanto abituale. Basti ricordare che, nel 1288, il regno di angioino di Napoli aveva decretato l’espulsione degli ebrei. Cinque anni più tardi, questi ultimi vennero sollecitati a convertirsi in cambio dell’esenzione ad vitam dal pagamento delle tasse. Non ottenendo nulla, nel 1293 le autorità decisero il massacro, un atto spesso ritenuto come il primo pogrom dell’Europa mediterranea. Purtroppo, anche tale avvenimento è stato dimenticato, sebbene negli anni ’20 del Novecento, a Napoli, esistesse ancora una strada chiamata appunto Vico Scannagiudei.

Torniamo però a Federico II, il cui progetto previde la deportazione (o comunque lo spostamento) di molti musulmani di Sicilia nelle Puglie, per la precisione a Lucera, dove ben presto numerose moschee sostituirono le antiche chiese. L’impatto demografico fu talmente potente che, già nel 1239, sembra non si arrivasse a dodici abitanti di religione cristiana. Lugêrah (questo il nome arabo della città) conobbe in quel periodo una notevole fioritura, tanto da essere paragonata alla Cordova degli emiri e dei califfi omayyadi.

Il resto è storia sin troppo prevedibile. Fedele alla casa sveva, dopo la morte di Federico II (1250) la Lucera musulmana parteggiò sia per Manfredi, sia per Corradino, per rifiutare invece l’obbedienza a Carlo I d’Angiò. Costretta a una prima resa, la città fu obbligata ad accogliere molte famiglie di origine provenzale, tuttavia, un’ulteriore ribellione le fu fatale. Infatti, nel 1300, Carlo II d’Angiò organizzò  quella “crociata angioina” che portò alla distruzione dell’abitato e all’eccidio degli abitanti musulmani, sterminati o venduti come schiavi.

Da quel momento, Lucera fu ribattezzata “Civita Sancte Marie” (città di Santa Maria), arricchita dalla Cattedrale dell’Assunta (sorta al posto della Moschea principale) e affidata al vescovo croato Agostino Kazotic (italianizzato in Casotti). Giunto direttamente da Avignone (che allora era la sede del papato), questo prelato riuscì in un solo anno a convertire il popolo lucerino, finché, nel 1323 fu ferito a morte da un saraceno… E qui torniamo alla cronaca dei nostri giorni.

Conclusione: fatta piazza pulita da qualsiasi tentazione di accostamento storico, rimane l’importanza, o forse l’obbligo di approfondire il passato, magari per scoprire che tante sciagurate soluzioni della nostra contemporaneità hanno avuto importanti precedenti. Il senso di questo articolo, ad esempio, sta tutto qua: pochi sanno che il nostro pur accogliente Meridione conobbe atroci persecuzioni religiose, culturali ed etniche. In questi giorni di rinnovata intolleranza, studiare la Storia potrebbe spingere ognuno di noi a dichiarare, volta per volta: “Io sono Charlie” a Parigi, “Io sono David” a Napoli, o “Io sono Muhammad” a Lucera.

 

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Che cosa sono le Chiese

Ha detto molto bene Paolo Flores D’Arcais sull’ultimo numero di “Micromega”. Non basta che l’islam moderato condanni come mostruosa la strage di “Charlie Hebdo”: è ineludibile che riconosca la legittimità e la normalità democratica di quanto quel giornale praticava in modo esemplare per intransigenza, cioè il diritto di criticare ogni forma di divinità, fino alla Madonna, al Profeta e a Dio stesso nelle sue multiformi confessioni concorrenziali, “anche, e verrebbe da dire soprattutto, quando tale critica è vissuta dal credente come un’offesa alla propria fede. Questo esige la libertà democratica, poiché tale diritto svanisce se dei suoi limiti diviene arbitro e padrone il fedele”.

Per fortuna, prosegue Flores D’Arcais, il cristianesimo è stato costretto a venire a patti con la democrazia laica, benché ancora non la accetti pienamente, ma non dimentichiamo che sono stati cristiani militanti quelli che hanno assassinato negli Usa medici e infermieri che rispettavano la volontà di abortire di alcune donne. Donne, medici, infermiere che Wojtyla e Ratzinger hanno più volte bollato come responsabili del “genocidio del nostro tempo”.

Questo mi ha fatto ricordare di quando, giusto cinque anni fa, il Vaticano amava interferire con le decisioni dello Stato italiano, tanto da attaccare apertamente la legge 194 sul diritto all’aborto. Davanti a tutto ciò, avevo rievocato, inorridito, il sessantesimo anniversario di Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer. Infatti, come è noto, secondo questo testo la causa del nazifascismo “non va cercata tanto nelle mitologie nazionalistiche, quanto nell’Illuminismo”.

Ero al liceo quando lessi questa teoria, e ne rimasi stupefatto. In effetti, con la loro meschina difesa borghese di libertà insignificanti e meramente formali, Voltaire e compagnia non fecero altro che protestare contro un pericolo del tutto inesistente quale l’intolleranza religiosa. I roghi, le torture, le persecuzioni che punteggiano la storia di quel pensiero libertino da cui scaturisce l’Illuminismo: niente. Da Bruno a Théophile de Viau, da Vanini a Gassendi, da Bayle a Diderot: tutti antenati delle SS. Ma vado errato, oppure, a distanza di secoli, oggi ci ritroviamo a combattere lo stesso immarcescibile avversario, ossia l’ingerenza cattolica nella vita pubblica? Quando si dice la dialettica…

Morale: ogni volta che si parla di libertà religiose, bisognerebbe ricordare che il Vaticano non ha mai scelto di rinunciare liberamente al suo bimillenario potere temporale, ma vi è stato costretto con la forza, a Porta Pia. Il libero pensiero di cui oggi usufruiamo in Occidente, non è una concessione generosamente elargitaci, bensì una conquista ottenuta col sangue dei martiri laici. Nel caso dell’Islam, la sua mancanza è semplicemente dovuta allo strapotere di quella chiesa, che sconfisse chiunque tentò di opporvisi, sebbene Al-Farabi (maestro di Averroè e di Maimonide) avesse teorizzato la subordinazione della rivelazione alla filosofia sin dal X secolo.

Quanto alle ultime ribellioni delle popolazioni arabe, altro che primavera! si è visto il tenebroso, tribale risultato. L’unico successo si è registrato nella Tunisia felix, finalmente avviata a quella che sembra possa dirsi democrazia. In questo caso, e purtroppo solo in questo, le insurrezioni hanno espresso appuntoquella richiesta di laicismo di cui l’Occidente poté usufruire nel Settecento grazie all’Illuminismo. Ad ogni modo, il comportamento dei nostri papi è stato identico a quello di tanti ayatollah. L’unica differenza sta nei risultati: i primi hanno dovuto cedere (proprio sotto la spinta illuminista), mentre i secondi, almeno finora, hanno avuto la meglio sui loro nemici. Ma è inutile illudersi. La tolleranza cattolica non è un regalo, bensì un bottino di guerra, e temporaneo: vedi la campagna vaticana per la riconquista degli antichi privilegi, culminata con l’esenzione dal pagamento dell’Ici, Tasi o quel che sia.

Quando scrivevo queste osservazioni (Il sessantotto realizzato da Mediaset, Einaudi 2011), pensavo di concluderle in allegria, riportando una storiella paradossale, andata in onda sul primo canale della televisione pubblica. Intervista a un esorcista. La presentatrice parlava del diavolo come se si trattasse di un rappresentante di elettrodomestici, abituato a passare per le case di tanto in tanto. L’esperto, un’alta carica ecclesiastica, si lamentava dell’arretratezza di alcune nazioni quali Gran Bretagna, Spagna o Germania. Quanto a operatori sul campo, ripeteva, noi, per fortuna, siamo all’avanguardia. Durante l’intera trasmissione, nessuna forma di contraddittorio. Tutto finì con il solito oroscopo di Stato…

Quelli, però, erano altri tempi. Ora, con la morte dei maestri del riso, c’è poco da ridere. Per questo, terminerei con un appello di Raffaele Carcano, sempre su “Micromega”, che propone di abolire ogni tutela legale del sacro: “Non può esserci civiltà democratica laddove la critica alla religione non è libera. Le comunità religiose abbiano dunque il coraggio di rinunciare per prime a ogni protezione legale riservata al sacro. Dio, se esiste, non ha certo bisogno di qualche legge per proteggersi”.

 

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La chirurgia della voce

Verso la fine degli anni Novanta, l’esecuzione di un  intervento alle corde vocali sollevò un bizzarro interrogativo fra chirurghi e linguisti: facendo proprio l’organo fonatorio del suo donatore, ci si chiedeva, il nuovo paziente, ne avrebbe forse assorbito anche il dialetto? In quel periodo, e già da qualche tempo, un argomento simile riguardava soprattutto il mondo della criminalità. Infatti alcuni pentiti della mafia, come ad esempio Tommaso Buscetta, fecero ricorso a operazioni simili per sottrarsi ai loro persecutori.

Oggi, però, il discorso è profondamente cambiato, come spiegava nel giugno del 2013 Laura Laurenzi in un articolo sul “Venerdì di Repubblica” che iniziava così: “Si sa, niente tradisce l’età come le macchie sul dorso delle mani e la voce. Le prime si possono cancellare con il laser, ma il resto? Fino a non molto tempo fa c’era il voice-coach che ti insegnava le intonazioni giuste, e a rendere i suoni meno nasali o meno striduli. Esistevano audio corsi, lezioni private con appositi istruttori, dispense, cassette, cd. Ora però tutto è stato superato e archiviato: il personal trainer della voce non basta più. Bisogna agire nel quadro di una globale guerra antiage. Ed ecco che dagli Stati Uniti arriva il voice-lift, ossia il lifting della voce”.

Non c’è da stupirsi troppo, davanti alla violenza di una parola d’ordine come il “forever young”. Strano, piuttosto, che un film quale La morte ti fa bella di Robert Zemeckis (1992), con Meryl Streep, Goldie Hawn e Bruce Willis, abbia del tutto ignorato un tema del genere – ignoranza scusabile pensando al Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, visto che allora Edison muoveva i primi passi nell’invenzione del suo fonografo… Fatto sta che il ringiovanimento delle corde vocali, nuova frontiera della chirurgia estetica, oggi va affermandosi anche in Italia. Realizzato in anestesia locale, con una convalescenza di un paio di settimane e un costo sui 20mila euro, il procedimento consiste nell’iniettare cellule di grasso o di collagene nelle corde vocali sfibrate dall’età o dall’uso. Il pubblico, concludeva Laura Laurenzi, è alquanto prevedibile: “Signore in lotta con l’anagrafe, politici e attori che fanno della voce uno strumento di lavoro e di seduzione. Dunque spesso di inganno”.

Ma cosa dire di tutti coloro che potremmo a buon diritto definire “lavoratori fonatòri”? Non pensiamo soltanto ai cantanti, ma innanzitutto ai maestri di scuola, e poi ai conferenzieri, ai presentatori televisivi e radiofonici, agli avvocati. Per tutti questi professionisti, il rinnovamento delle corde vocali forse diventerà qualcosa di molto simile all’artoscopia del menisco per i calciatori: nient’altro che una questione di tagliando.

 

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Mi dispiace, i Conti non tornano

“Da fedele spettatore, sono rimasto amaramente colpito per un dettaglio molto in linea con i tempi: come mai nella puntata Leopardi rivoluzionario, la signora Olimpia Leopardi è stata indicata con il titolo nobiliare di Contessa? Forse per un’allusione alla canzone di Pietrangeli? Spero non si ripeta più. Cari saluti, Duca Valerio Magrelli”.

Quella che avete letto è stata la prima protesta che ho rivolto alla Rai in vita mia. Ma Totò dixit: anche il limite ha una pazienza. Il fatto è che il 15 ottobre scorso,alle 13.10, seguendo Massimo Bernardini su Rai Tre alla conduzione di Il Tempo e la Storia, ho assistito ad una scena oscena. Dopo che il professor (titolo acquisito per concorso, non ancora per nascita) Lucio Villari aveva appunto introdotto il tema di “Leopardi rivoluzionario”, ecco apparire una discendente del poeta segnalata col titolo nobiliare. E sì che la puntata era stata aperta dalla visione e dal commento di un quadro simbolico: La libertà che guida il popolo, di Eugène Delacroix (1830). Dove lo sta guidando? Al circolo della caccia?

Questo per dire che nessuno può sentirsi al sicuro dalla marea montante della Restaurazione. Anche una fra le migliori trasmissioni della televisione pubblica italiana, subisce il contagio di quell’autentico “ebola sociale” rappresentato dal ritorno della Casta, o meglio, novità assoluta, dalla resurrezione dei Paria. Infatti, se è comprensibile che i vecchi e nuovi ricchi tendano a distanziarsi dalle masse (scuole private pagate dallo Stato, smantellamento delle università, stipendi stellari dei dirigenti pubblici e dei clan che lavorano al Parlamento – dal barbiere al senatore), che dire della plebe disposta a accettare il suo ruolo, anzi già bella pronta a genuflettersi?

A meno che io non abbia frainteso. Forse era solo una scherzosa allusone alla canzone Contessa di Paolo Pietrangeli, “vera e propria colonna sonora del Sessantotto italiano”. Ecco l’inizio:

Che roba Contessa all’industria di Aldo

han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti

volevano avere i salari aumentati

gridavano, pensi, di essere sfruttati

[protestavano per caso contro il Job Act?]

Ed ecco la fine:

Del resto mia cara di che si stupisce

anche l’operaio vuole il figlio dottore

e pensi che ambiente che può venir fuori

non c’è più morale, mia cara Contessa

Ma veniamo al punto. Che valore hanno oggi i titoli nobiliari? Una fonte attendibile sostiene che, per il primo comma della XIV disposizione transitoria della Costituzione, “i titoli nobiliari non sono riconosciuti”. Perché do tanta fiducia a questa dichiarazione? Semplice, perché proviene dal sito Il portale dell’araldica, e soprattutto perché gentilmente concessa dal suo autore: Conte Avv. Gherardo Guelfi Camaiani.

PS: Leggo con dolore, sul sito di Wikipedia dedicato al film Il giovane favoloso, la notizia che “il conte Vanni […] ha interpretato un cammeo  come cocchiere”. Santa ignoranza!

Prima di fare questi sfondoni, Wikipedia potrebbe almeno consultare la propria lunghissima e vivacissima voceWikipedia:Bar/Discussioni/Titoli nobiliari, che si apre appunto con queste parole: “Ogni due per tre mi imbatto in voci di Wikipedia dove sono attribuiti titoli nobiliari a cittadini italiani viventi e ogni volta li devo cancellare manualmente mettendo nell’oggetto di modifica il riferimento alla XIV disposizione finale della Costituzione italiana che li ha aboliti del tutto a partire dal 1° gennaio 1948. Non si potrebbe creare un bot che ne rilevi automaticamente almeno la presenza nelle voci enciclopediche? (per la modifica invece occorrerà sempre intervenire a mano, credo, visto che in alcuni casi, come ad esempio in riferimento a persone straniere, tali titoli vanno tenuti) ­– Roberto ITA 19:21, 5 mag 2007”. Lunga vita a Roberto!

 

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Quando gli e-sport riempiono gli stadi

L’articolo precedente riferiva di un’autentica mutazione funzionale, nascosta dietro l’annuncio di una “semplice” transazione economica. Si trattava dell’acquisto da parte di Amazon della piattaforma di video streaming Twitch (un accordo da 970 milioni). Ebbene, la vera notizia consisteva nel fatto che, iniziati alla stregua di un’attività apparentemente banale, i videogiochi si sono ormai completamente trasformati, passando cioè, da esperienza solitaria e paramasturbatoria per adolescenti solitari, a evento di intrattenimento telematico dal vivo, capace di mobilitare enormi somme di denaro.

Ma occhio all’aggettivo “telematico”! Questo secondo intervento sullo stesso tema, nasconde infatti una notevole variante: oltre che telematicamente, tale rivoluzionario tipo di attività si sta infatti affermando anche a livello “fisico” Altrimenti detto, dalla dimensione essenzialmente ottica della connessione in streaming, il mega-business di massa si va affermando anche come evento socio-architettonico, ossia reale-reale (un bel problema di lessico: quale sarà il contrario di “virtuale”?). I videogiochi, insomma, sono ormai in grado di riempire uno stadio coperto.

In alcuni paesi, esistono da tempo immensi spazi indoor dove decine di migliaia di persone guardano, su schermi giganti, le prodezza che i loro idoli eseguono in diretta, fronteggiandosi su una grande pedana. C’è tuttavia una grande differenza fra il mercato relativo alla fruizione delle sfide sul computer di casa, e quello legato invece allo spettacolo condiviso in mezzo alla folla. Nel primo caso, non è affatto detto che il pubblico voglia seguire sempre un vero campione. Molto spesso, al contrario, l’attrazione è costituita da un giocatore celebre sì, ma per altri motivi. Questo accade ad esempio con attori i quali, famosi presso i giovani, magari si rivelano molto scarsi come giocatori. Lo dimostra il seguitissimo Jayson Love, protagonista della serie “MANvsGAME”, che è stato visto più di 42 milioni di volte.Ben diverso è quanto accade negli stadi “reali”. Qui, collocati in alto, come su altari sacrificali, grandi specialisti dei videogiochi sono esposti alla vista della massa, mentre immensi display proiettano le loro gesta. Del resto, nel remoto pleistocene, non succedeva lo stesso con le sfide di scacchi? (2. Fine)

 

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Sono nati gli e-sport

Alla fine di agosto, sui giornali italiani è apparsa la seguente notizia: Amazon ha concluso un accordo da 970 milioni di dollari per l’acquisizione di Twitch, ossia della piattaforma di video streaming dedicata ai videogiocatori, piattaforma che permette a chiunque di trasmettere in diretta la propria partita sul web.

Nata tre anni fa, negli ultimi mesi Twitch ha allargato a dismisura il proprio parco utenti, totalizzando cifre da capogiro. Basti soltanto dire che, già a luglio, circa 55 milioni di utenti hanno guardato 15 miliardi di minuti di video prodotti da un milione di videogiocatori. Fin qui l’annuncio che si è letto in giro. Dietro queste mere informazioni economiche, però, si nasconde un fenomeno interessantissimo, e lo ha spiegato bene molta stampa straniera. A volte basta prendere un aereo e sfogliare qualche quotidiano straniero (quel che Alberto Arbasino ha battezzato la famosa “gita a Chiasso”), per vedere le cose da un’altra angolatura. In questo caso, poi, siamo di fronte a un’autentica mutazione funzionale: iniziati come un’esperienza solitaria per adolescenti, i videogiochi sono infatti diventati eventi di intrattenimento telematici dal vivo, capaci di mobilitare enormi somme di denaro.

Per capire questa “subcultura del videogioco”, un giornale messicano riporta l’esempio del ventisettenne Jeffrey Shih, che per sette ore al giorno siede di fronte al computer nella sua casa a San Francisco e gioca sì a “Hearthstone”, un videogioco di carte collezionabili, ma condividendo la sua partita con qualcosa come 30mila persone, che si connettono per vederlo all’opera (cifra, si badi, superiore alla capacità di molti stadi della Nba).

Junho Choi, 25 anni, di Brookings, South Dakota del Sur, rappresenta invece il prototipo di spettatore della piattaforma. Nel fine settimana, si connette anche per 30 ore, pur di seguire i suoi giocatori favoriti in “Star Craft” e “League of Legends”. E qui arriviamo al punto: questi due ragazzi mostrano come i videogiochi si siano trasformati da esperienze paramasturbatoria di adolescenti solitari in mega-business di massa. Adesso si capisce il senso dell’acquisto di Twitch da parte di Amazon: i 55 milioni di utenti mensili sono altrettanti clienti potenziali, senza contare poi le entrate pubblicitarie. A ciò si aggiunga che, lo scorso anno, la squadra professionistica di videogiochi Team Dignitas, che conta già 60 “atleti”, ha ottenuto un ingaggio di due milione di dollari.

Come ha spiegato il suo direttore, queste trasmissioni sono ormai paragonabili a quelle che trasmettono le partite di basket della Nba. “Ho cominciato a giocare in streaming perché volevo condividere le mie partite con i miei amici della vita reale – spiega una star del momento – non pensavo certo di trovare lavoro. Semplicemente la gente ha iniziato a cercarmi”. Sono nati gli e-sport…

 

1. Continua

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Nella foresta telematica

Vorrei sottoporre al lettore, in poche righe, tre modelli di interferenze comunicative.

Modello 1. Molti anni fa, su una rivista medica, lessi un fatto di cronaca che riguardava un uomo tormentato da terribili mal di denti. Cura il dente cariato, torna a casa con la sua bella otturazione, e viene colpito da una sconvolgente sorpresa. La sua vita comincia a cambiare. Sente delle voci, dei suoni, dei rumori. Si crede posseduto, abitato da qualcuno o da qualcosa che non riesce a vedere. Le sue orecchie percepiscono parole e note incomprensibili. Pensa d’essere santo e folle, dannato ed eletto, chiamato ad un compito misterioso, prescelto da una forza segreta.

Questa inconsapevole vittima della tecnica, in verità era solo precipitato nella corrente della radiofonia, immerso in un’onda magica e telematica. Infatti, la capsula inserita nella cavità orale funzionava da antenna, captando messaggi e programmi musicali. Come un André Breton sprofondato nei suoi Campi magnetici, l’ignaro paziente era diventato preda delle reti audio-visive: si era cioè trasformato in un elemento conduttore. Nessuno ha saputo se questo eroe-ricevente era anche emittente, ossia in grado di trasmettere i suoi sospiri e le sue grida al pubblico in ascolto. In ogni modo, rintracciata la sorgente sonora, tolto il ponte radio-dentario, riconquistò insieme libertà e silenzio. Qui, più che un caso clinico, il paziente diventa un mistico delle telecomunicazioni, un tele-mistico, un perfetto modello di medium: il medium dei media.

Modello 2. Per molti anni, a Roma, nei pressi del Vaticano, i citofoni di alcuni appartamenti trasmettevano Radio Maria. Al postino che suonava, rispondevano canti gregoriani.

Modello 3. A metà agosto, un’amica mi invita a vedere l’ultimo film di Carlo Verdone sul suo nuovo apparecchio al plasma. Stacchiamo le trasmissioni televisive, e parte il dvd. C’è la scena di una festa, con il protagonista che viene improvvisamente raggiunto al telefono da una chiamata latrice di notizie drammatiche. Impallidisce, litiga con la compagna e fugge. Curioso, ci diciamo, sembra una citazione da Mon oncle d’Amérique, di Alain Resnais, con la collaborazione del biologo ed etologo Henri Laborit. Proprio come in quel capolavoro del 1980, una voce fuori campo, col tono freddo e distaccato dello scienziato, analizza il comportamento degli attori quasi fossero cavie in un laboratorio. “L’individuo è schiacciato dal gruppo”, dice il commentatore, “sottoposto alle sue ferree leggi” (e vediamo Verdone stretto fra gli ospiti), “non può sottrarsi alla loro morsa” (Verdone tra altri abbracci), “ma talvolta può avvenire la rottura” (Verdone alza la cornetta), “talvolta può trovare la forza di fuggire” (Verdone si svincola dalla donna e esce sbattendo la porta).

Non faccio in tempo a esprimere il mio ammirato stupore, che la voce precisa: “Sono davvero molte le sorprese che nasconde la vita di un gibbone”. Un gibbone? Lo sconcerto dura poco. Ora ricordo che, prima di staccare l’antenna, stavamo appunto vedendo una puntata di Quark dedicata ai primati… Insomma, per una strana combinazione, i due canali (il film e la tv) avevano interferito per qualche istante in perfetta sovrapposizione! Miracoli del caso, certo, ma anche della foresta telematica in cui oramai abitiamo.

 

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La paura corre sul treno

Tutto si può dire dei treni italiani, tranne che siano noiosi… Tra ritardi e scioperi, cimici e proteste, furti e liti, c’è sin troppo materiale con cui ingannare il tempo di ogni viaggio. Eppure, quello che mi è accaduto nei giorni scorsi, supera ogni possibile immaginazione. Naturalmente, non posso raggiungere i vertici di un’avventura narrata dal musicologo Sandro Cappelletto in un suo libro sul tema della ferrovia. Egli riportò la storia di un’addetta alle pulizie che a tarda notte, sistemando i vagoni su un binario morto, scoprì la salma di un signore seduto sopra il water… Rispetto a simili ilarotragedie (per dirla con un titolo di Giorgio Manganelli), la mia è appena una storiella da bar, ma anch’essa con un suo risvolto inquietante. Vediamo.

Chiunque abbia avuto modo di prendere una qualsiasi freccia, bianca o rossa che sia, conosce bene gli insistenti, continui appelli che piovono dagli altoparlanti. Ora è il sacrosanto annuncio della stazione d’arrivo, ora il meno indispensabile richiamo a bibite e panini che ci attendono nel bar “posto al centro del treno”. Ed era proprio quanto mi aspettavo, diretto alla Spezia il 22 luglio scorso, partenza da Roma ore 13.57, allorquando, con mio sommo stupore, sento improvvisamente una voce diversa. Al posto della solita modulazione invitante o impostata, ora suonava un timbro metallico, ufficiale, direi da Grande Fratello. A parlare non erano più le Ferrovie dello Stato, bensì il Ministero del Interni, che annunciava ai viaggiatori una notizia spaventosa: “Si comunica che un bambino è stato rapito”. Niente di più.

Rimango stupito, o meglio, incredulo. Siamo forse su “Scherzi a parte”, o per meglio, dire, su “Drammi a parte”? Che senso ha una notizia simile? Fra tutti i passeggeri, soltanto indifferenza. Aspetto il passaggio del bigliettaio, che finalmente appare. Lo aggredisco: ma che sta succedendo? Niente, risponde quasi sorridendo, solo uno sbaglio: “E’ partito un messaggio per errore, non si preoccupi”. Non si preoccupi? Come sarebbe a dire? Dobbiamo davvero arrenderci alla trasformazione dell’Italia in un paese alla Orwell? (L’ultima volta che scrissi “in un paese sudamericano”, mi telefonò dal Perù un lettore infuriato!) Ma forse è la mia solita ingenuità e sto solo assistendo alle prove tecniche per la nuova svolta autoritaria di Renzi…

 

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Il braccialetto elettronico per i dipendenti 

È una bella mattina del 14 luglio, anniversario della presa della Bastiglia, e me ne vado a spasso per il centro di Roma. Il motivo è banale: mi serve una ricarica qualsiasi per il mio cellulare. Entro nel negozio di una grande azienda telefonica e aspetto paziente. Venuto il mio turno, anche abbastanza in fretta, mi accoglie un simpatico commesso, stranamente, stranamentissimamente capace e alacre. (Attenzione. Già questo piccolo incontro potrebbe costituire un ottimo soggetto per un articolo: aver trovato qualcuno competente! Solo negli ultimi sei mesi, ho provato a cambiare ben due volte gestore telefonico, ma alla fine ho dovuto rinunciare, perché la coppia di giganti multinazionali da me interpellata – come una specie di Gog e Magog – ha ovviamente smarrito le mie pratiche… Ma di questo alla prossima puntata).

Tutto procede nel migliore dei modi, dunque, quando mi accorgo di uno strano orologio che il ragazzo, probabilmente mancino, porta al suo polso destro. La particolarità consiste nel fatto che il quadrante è completamente ricoperto di plastica, dello stesso identico materiale azzurro del cinturino. Incuriosito, gli domando come funzioni un congegno simile. Saranno i soliti miracoli della tecnologia e del mirabolante touch screen? Il mio interlocutore scuote la testa e si fa buio in volto. Macché, risponde, è semplicemente il nostro braccialetto elettronico.

Rimango stupefatto e torno a insistere. Ma veramente quell’orologio nasconde il famigerato strumento per controllare i detenuti a distanza? Mi risponde di sì. Infatti serve a controllare i movimenti e i tempi lavorativi degli impiegati: sono stati costretti tutti quanti ad indossarlo, da una settimana circa. Scoperta effettivamente mirabolante, anche se di segno piuttosto negativo. L’inizio di luglio, insomma, è coinciso con questa strana imposizione di una cintura di castità modello “total capitalism”. E il 14 luglio? Altro che Bastiglia… La restaurazione si fa sempre più vicina. A quando il braccialetto anche per gli elettori?

 

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