Uomini e no è la rubrica mensile di Giulia Bosetti dedicata alla difesa dei diritti umani.
“Mio figlio è scomparso da anni ed io non ho idea di cosa sia stato di lui”. Si chiama Ibrahim Metwally e mentre parla mi guarda dritto negli occhi: “Di che cosa dovrei ancora avere paura?”. Cinquantadue anni, la fronte alta e perennemente corrugata, le sopracciglia folte con occhiaie marcate: ogni attenzione viene inevitabilmente diretta al suo sguardo profondo. Mentre parla, indica una spilla appuntata sulla sua giacca. C’è stampata una piccola fotografia a colori, che ritrae il volto pulito di un giovane di ventiquattro anni, occhi scuri, un velo di barba sulle guance, indossa una felpa marrone col cappuccio. E’ Amr, suo figlio, studente di ingegneria scomparso l’8 luglio del 2013 in Tayyaran Street, nella zona di Masr el-Gedida, il “Nuovo Egitto”, quartiere del Cairo costruito all’inizio del Novecento. Ibrahim Metwally parla con una tale intensità che sembra non si fermi nemmeno per respirare. Non un’ombra d’incertezza nella sua voce: “Ho presentato centinaia di denunce, dalla procura al ministro della Difesa, dal presidente della Repubblica al Consiglio Nazionale per i Diritti Umani. Non ho mai ottenuto risposta. Nessuna notizia di mio figlio, finché non sono stato contattato da alcuni ex detenuti del carcere militare di Azouli”. Si trova nel Governatorato di Ismailia, a nord di Suez. Una prigione militare nel cuore del deserto. Nessun civile dovrebbe esservi detenuto, eppure secondo le organizzazioni internazionali per i diritti umani, è uno dei buchi neri dove scompaiono, tra indicibili torture, gli oppositori del regime egiziano e tutti coloro che vengono detenuti illegalmente sotto il governo del generale Al Sisi, che proprio nelle elezioni di questi giorni attende di essere rieletto presidente. E’ ad Azouli che è stato visto per l’ultima volta Amr, il figlio di Ibrahim. Era il 2015. Dopodiché, il silenzio: “Da quando mio figlio è sparito, vita o morte per me non fa differenza”. Alla fine del nostro incontro, Ibrahim mi saluta con queste parole definitive: “Che mi arrestino, che mi uccidano, non fa differenza”. Sono i primi giorni di giugno del 2016.
Poco più di un anno dopo, il 10 settembre del 2017, Ibrahim Metwally scompare all’aeroporto del Cairo. Quaranta minuti prima del volo che avrebbe dovuto portarlo a Ginevra per incontrare il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate e involontarie, viene avvicinato da un uomo che si qualifica come un funzionario della compagnia EgyptAir. A Ginevra non ci arriverà mai. Alla fine, lo hanno arrestato davvero. Avvocato per i diritti umani, presidente dell’associazione “Famiglie degli scomparsi in Egitto”, Metwally aveva fatto della sua storia una lotta da mettere al servizio degli altri e di tutte quelle famiglie che in Egitto vivono la condanna di veder scomparire un loro famigliare. Un figlio, un padre, un fratello, un marito. Tre persone ogni due giorni, di media. Centosessantacinque solo tra gennaio e agosto dell’anno scorso. Spariscono per una settimana, un mese, spesso non tornano più. 1.500 sparizioni forzate solo negli ultimi quattro anni. Numeri messi in fila nera su bianco e denunciati dalla Commissione egiziana per i diritti e le libertà, l’Ong con cui Ibrahim collaborava e che è anche consulente della famiglia Regeni in Egitto. Uno dei pochissimi punti di riferimento per centinaia di famiglie di desaparecidos, l’unico in Egitto per i genitori di Giulio, il giovane ricercatore di 28 anni scomparso nel giorno dell’anniversario della rivoluzione di Piazza Tahrir, il 25 gennaio del 2016 e ritrovato morto pochi giorni dopo, il 3 febbraio, sulla superstrada che collega Il Cairo ad Alessandria. Morto e reso irriconoscibile dalle torture.
Per questo avevo conosciuto Ibrahim in quella torrida giornata di giugno, mentre il caldo del Cairo ci seccava la gola e la violenza delle storie che raccontava ci gelava il cuore. “La storia di Giulio Regeni è molto importante per noi e per tutti i casi di sparizione forzata in Egitto, perché rappresenta una vicenda esemplare di quello che succede ogni giorni agli egiziani – mi aveva detto allora l’avvocato egiziano, che sapeva che stavo lavorando ad un’inchiesta sulla morte del giovane ricercatore italiano – Per questo il mondo intero deve venire a conoscenza della verità, deve pretendere la verità. E se il governo italiano dovesse accettare una soluzione diplomatica della vicenda senza che i colpevoli vengano puniti, avrà negato il diritto alla giustizia non solo a Giulio e alla sua famiglia, ma anche a tutte le vittime di sparizioni forzate in Egitto, incluso mio figlio”.
Da allora, Ibrahim Metwally ha continuato a combattere, a cercare il suo e i tanti figli d’Egitto di cui non si ha più notizia, a denunciare pubblicamente la violazione dei diritti umani nel suo paese e a seguire gli sviluppi delle indagini sulla morte di Giulio Regeni. Finché a sparire è stato proprio lui. Per un paio di giorni nessuna notizia, poi è riapparso in tribunale, accusato di cospirazione con soggetti stranieri per danneggiare la sicurezza nazionale e diffusione di false notizie.
“Mi hanno detto che nel carcere dove si trovava mio figlio il cibo era disumano, che indossava gli stessi vestiti da due anni e non poteva lavarsi, che dormiva per terra e non poteva mai uscire alla luce del sole, perché chi sopravvive in quei luoghi è un fantasma, un desaparecido”. Questo mi raccontava di suo figlio l’avvocato Metwally. E questo è quello che racconta oggi di lui Amnesty International: Ibrahim si trova in isolamento nel carcere di Tora, a sud del Cairo. E’ in stato di detenzione preventiva, che viene continuamente prorogato. Nella sua cella non c’è un letto, non c’è elettricità e il pavimento è sommerso d’acqua. Ha raccontato ai suoi avvocati che dopo il suo arresto gli ufficiali delle forze di sicurezza egiziane lo hanno spogliato e torturato con scariche elettriche in tutto il corpo, gli hanno gettato addosso acqua gelata e lo hanno picchiato ripetutamente.
All’inizio di novembre, Regno Unito, Germania, Olanda, Canada e Italia hanno scritto una lettera congiunta in cui esprimevano preoccupazione sulle condizioni di detenzione dell’avvocato, ma il viceministro degli Esteri egiziano ha risposto con “forte indignazione” considerando la nota “un’ingerenza evidente e inaccettabile negli affari interni” del paese. Da allora, il silenzio istituzionale in Europa e in Egitto. Il nuovo ambasciatore italiano, Giampaolo Cantini, si è insediato al Cairo proprio negli stessi giorni in cui Ibrahim è stato arrestato. Le relazioni diplomatiche sono riprese, gli affari tra i due paesi sono di nuovo fiorenti. E i diritti umani dimenticati. “Un fallimento”, hanno dichiarato i genitori di Giulio Regeni il mese scorso. “Siamo stati abbandonati”, hanno ribadito a Genova il 20 marzo scorso. E Ibrahim Metwally? A ripercorrerle adesso, le parole che aveva pronunciato in quella giornata soffocante di giugno mi sembrano profetiche. Su Giulio, sul governo italiano, sui diritti umani in Egitto. “Quando scompare un tuo famigliare, ti passano per la testa mille pensieri – mi aveva detto – Come starà? Avrà da mangiare e da bere? Sarà malato? Lo tortureranno? E soprattutto: sarà vivo o morto? Mille pensieri ti passano per la testa quando vedi come è stata massacrata la gente in questo paese”. Gente come lui. Come Giulio Regeni. E non posso fare a meno di chiedermi quali mille pensieri stiano passando adesso per la testa di Ibrahim. Tra le mura del carcere di Tora. Sezione Scorpion, massima sicurezza.