Mio figlio stava per salire sulla barca, era già tutto organizzato. L’ho chiamato al telefono, l’ho implorato: rientra, ti prego, tuo cugino è appena morto in mare, torna a casa”. Il cugino è Yassin 18 anni una delle oltre 50 vittime del naufragio dell’8 ottobre scorso al largo delle Isole Kerkenna, davanti a Sfax, uno dei tanti drammi dell’immigrazione clandestina nel Mediterraneo a cui ci ha abituato la politica delle frontiere. Questo però non è stato un incidente: i superstiti hanno raccontato di una nave della Marina militare tunisina, che ha speronato intenzionalmente il barcone con a bordo novanta persone, quando già navigava in acque maltesi. Nelle immagini che i giorni successivi fanno il giro del web si vede un ammasso di corpi bianchi recuperati dal mare con una gru. Il governo tunisino promette un’inchiesta ma a Bir El Haffey, da cui provenivano Yassin e altri dieci ragazzi annegati, non ci ha creduto nessuno: alle famiglie delle vittime non è arrivato nemmeno un messaggio formale di cordoglio. Il sospetto è che la Tunisia usi strumentalmente le partenze dei “barconi della morte” per far pressione sull’Europa. La gente è furiosa e minaccia una rivolta, manifestazioni di protesta sono esplose in diversi città: “Per loro i nostri figli sono come i polli, li uccidono senza un’esitazione. Siamo cittadini di seconda classe”.
A 30 chilometri da Bir El Haffey c’è il capoluogo della regione, Sidi Bouzid, la città da cui tutto ha avuto inizio sette anni fa, quando il venditore ambulante Mohamed Bouazizi si è dato fuoco davanti al palazzo del Governatorato per protestare contro i soprusi della polizia, che per l’ennesima volta gli aveva sequestrato la merce. (…)
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