“Mi chiamo A. e sono vivo. Come mia moglie, i nostri bambini, e tutte le persone che hanno viaggiato con noi. Abbiamo passato sette giorni in mare e, prima, otto mesi in Turchia, dopo aver lasciato l’Afghanistan e attraversato l’Iran. Vorrei ricaricare il telefono per chiamare i miei e dirgli che ce l’abbiamo fatta”.
A. è un ragazzo magro, non molto alto, col viso segnato dalla stanchezza, una maglia grigia sgualcita, l’andatura incerta per via del mal di terra. L’ho incontrato l’altra sera a Gallipoli, nella terrazza sul mare di uno dei più rinomati ristoranti del centro, ai piedi dei bastioni della città vecchia. È appena arrivato, con altre 62 persone, a bordo di una barca a vela che ora giace sul lato sinistro incagliata sugli scogli pochi metri più in là.
“Vengo dal nord dell’Afghanistan, dalla zona di Sheberghan, e ho deciso di partire dopo che mia moglie è rimasta ferita a causa di una mina. Se potessi ti farei vedere la cicatrice che ha – mi dice mentre con l’indice si tocca il petto e fa scorrere il dito giù in linea retta, fino all’ombelico – la guerra da noi non è mai finita, i miei bambini da quando sono nati non hanno mai vissuto un giorno in pace. Così abbiamo deciso di provare”.
Sono in quattro e hanno uno zainetto di quelli che useresti per fare una gita di poche ore, ma adesso sono seduti per terra, con gli altri, dove solitamente ci sono tavoli, sedie, tovaglie bianche e piatti di frutti di mare. La maggior parte sono famiglie con bambini piccoli, ma ci sono anche giovani da soli e qualche anziano. Stanno bene, a parte quattro feriti lievi che sono stati portati in ospedale, tra i quali una ragazza incinta quasi al termine della gravidanza. I volontari della Croce Rossa hanno distribuito le coperte termiche, ma i bambini cominciano a togliersele di dosso perché hanno caldo e sono asciutti, essendo riusciti ad uscire dalla barca attraverso le finestre, senza bagnarsi. In fondo alla pedana di legno c’è un corpo avvolto in un telo celeste, sembra un cadavere, ma è una donna viva, solo molto provata da sette giorni di navigazione.
“Prima abbiamo finito il cibo – racconta M., la moglie di A. – poi anche l’acqua. All’ultimo il capitano ci ha abbandonato e la barca ha cominciato a girare su se stessa senza una direzione. Se n’è andato e noi siamo rimasti dentro, finché non abbiamo sentito l’impatto. Solo allora abbiamo capito che dovevamo cercare di uscire da lì, il prima possibile. Mio figlio più grande era terrorizzato e solo quando ha visto la polizia si è calmato, perché ha capito che ci avrebbero aiutato. Non abbiamo bevuto per tre giorni. Io non riesco a stare in piedi dopo tutto questo tempo in mare: non so nuotare, nessuno di noi aveva mai visto il mare prima d’ora, ma se non hai alternative devi provare”.
Sopra di noi la gente affolla il parapetto della passeggiata, mentre la strada, stretta, è stata chiusa al traffico per consentire alle ambulanze e ai mezzi della polizia di arrivare sul posto, comunque con fatica. Sono tutti in silenzio, qualcuno commenta sottovoce, fa i conti di quante miglia abbiano potuto percorrere, del perché siano finiti proprio a Gallipoli, se sia stata una scelta o una casualità. Ci sono persone che snocciolano luoghi comuni e che proprio non si spiegano perché questi migranti non abbiano la pelle nera, c’è pure chi sta zitto ma non trattiene le lacrime, e chi chiede notizie. “Andiamo via che non sono cose belle da vedere”, dice una mamma al figlio, che avrà all’incirca dieci anni. Ma decine di persone restano a fissare quella barca con la bandiera turca che continua a sbattere sulle rocce, e che nessuno potrà rimuovere fino all’indomani. Ecco cos’è lo sbarco che tutti hanno già visto in tv, ecco chi sono i migranti che arrivano “sulle nostre coste”.
Penso a cosa significhi resistere sottocoperta per sette giorni, quando oltre al cibo e all’acqua comincia a mancare l’ossigeno per tutti, stipati in 63 in una barca da sei, otto posti letto al massimo. Più che un viaggio è una scommessa.
“Non so adesso cosa succederà – dice M. con la sua bimba in braccio – vorrei solo potermi finalmente lavare e poi dormire un po’. Il resto lo vedremo più tardi”. Tra poco comincerà un altro capitolo del viaggio per loro, meno rischioso ma non meno faticoso: il centro di prima accoglienza e poi un iter burocratico per la richiesta di asilo. E nemmeno allora sarà finita.
Non è il primo sbarco che avviene con queste modalità. Proprio a Gallipoli ce n’era stato un altro a luglio e, prima ancora, a Leuca. Queste imbarcazioni sono veloci e passano più inosservate di un gommone o una carretta di legno, soprattutto salpando da porti turistici come Bodrum, Izmir o Antalya. E già dall’anno scorso la rotta ionica ha cominciato a sostituirsi a quella balcanica via terra: le mete sono le coste del Salento, del barese, quelle calabresi o del siracusano. A seconda delle condizioni meteo, dei venti, delle organizzazioni e dei contatti dei trafficanti. Chi scappa non ha un approdo preferito, quasi sempre non sa nemmeno dove sta sbarcando e spera solo di non morire. Ho letto di “immigrazione di prima classe”, in casi come questo, come se soffocare o annegare in una barca a vela fosse più lieve.
Foto di Alfonso Zuccalà