L’altra faccia di Porto Rico – di Virginia Negro

Dal 1898 Porto Rico è una colonia degli Stati Uniti, un paradiso naturale affogato da un debito di 73.000 miliardi, contratto quasi interamente con Washington. Nel maggio scorso il governo ha dichiarato bancarotta, imponendo quello che qui chiamano il Control Board, una sorta di commissione speciale su cui si concentra tutto il potere deliberativo. Tra i primi provvedimenti, i pesanti tagli al bilancio dell’unica Università pubblica di Porto Rico. Solo dal 2010 sono state state chiuse 324 scuole pubbliche, e si prevede che chiudano i battenti altre 179 durante il prossimo anno.  Ma Porto Rico ha anche una lunga e ricca tradizione di lotta ed oggi a guidare la protesta è il movimento studentesco. L’isola, circondata da acque limpide, è l’Eden caraibico dei turisti occidentali e,  allo stesso tempo, per la sua gente, uno spazio in disputa.

“Fin dall’inizio della sua storia coloniale, Porto Rico è stato idealizzato come un paradiso e questo è stato semplicemente devastate in termini sociopolitici, economici, culturali e ambientali. L’idea di “paradiso” ha spalancato le porte al turismo più distruttivo, che ha trasformato l’isola in un resort. Si è creato il famoso paradiso fiscale, e, conseguentemente, il grande debito”, dice Ana Portnoy Brimmer, membro del movimento studentesco dell’Università di Porto Rico-Río Piedras, poeta e redattrice della rivista letteraria latinoamericana Tonguas.

 

Qual è la situazione attuale di Porto Rico?

Porto Rico è una colonia. E credo che per capire il suo presente e la “crisi” di cui soffre, non si può prescindere la sua storia coloniale, con i suoi effetti e le sue ramificazioni socio-politiche ed economiche. L’isola sta annegando sotto il peso di un debito di 74 miliardi di dollari che non è ancora stato sottoposto a revisione. Ad oggi è sotto il controllo di un governo coloniale e di un fisco antidemocratico; si sta vendendo il sistema di istruzione e la sanità, oltre alle sue ricche riserve naturali. I portoricani vivono da un lato continuamente sotto la minaccia di pesanti misure di austerità, dall’altro schiavizzati dalle politiche neoliberali, un vortice distruttivo in gran parte, se non del tutto, dovuto allo status di colonia. Tutta la nostra storia di lotta e resistenza è stata demonizzata, tutti quelli che hanno combattuto per la decolonizzazione sono stati criminalizzati. La gente vive nella repressione, nella paura e nella disinformazione.

Qual è il ruolo del movimento studentesco?

Il movimento studentesco sta portando avanti non solo la lotta per un’istruzione pubblica, accessibile e inclusiva, quanto le diverse rivendicazioni del popolo portoricano. Dai pensionati ai sindacati, stiamo cercando di difendere le nostre terre, il nostro patrimonio culturale e naturale, fronteggiando le privatizzazioni selvagge e le politiche neocoloniali.

Nel referendum dell’11 giugno, tuttavia, i portoricani hanno votato per l’annessione agli Stati Uniti. Che cosa ne pensi?

Il referendum è stato un meccanismo per distogliere l’attenzione dalle questioni davvero importanti come il debito, che non è ancora stato sottoposto a revisione, le assurde politiche neoliberali e le misure di austerità. La Commissione per il controllo del debito è stata sciolta con la scusa che mancavano i soldi per pagarla. Ma, come per magia, si scopre che ci sono i soldi per un plebiscito, o meglio un inganno, per far credere al popolo di avere una possibilità di partecipazione, una voce sullo status politico di Puerto Rico. Su questo trucco hanno davvero investito un sacco di soldi, molto più di quanto era necessario per controllare il debito. Il referendum è stato un tentativo da parte del governo per nascondere l’illegittimità del debito e per distogliere l’attenzione dai panni sporchi del governo. Ma questo plebiscito non ha rappresentato la volontà del popolo: solo circa il 20 per cento della popolazione ha deciso di votare.


Come vedi il futuro di Porto Rico?

Voglio immaginarmi un futuro dove la gente finalmente esca dall’intorpidimento, perché in realtà, dai tempi coloniali spagnoli, Porto Rico non è mai stata nelle nostre mani. Ora siamo noi studenti a portare sulle spalle le pesanti conseguenze degli errori, delle catastrofi e della corruzione delle generazioni che ci hanno preceduto. Ma siamo qui, pronti a combattere con grande amore, solidarietà e speranza. C’è qualcosa di molto bello in questo momento storico, in cui l’isola finalmente si sta risvegliando. Siamo una generazione che si aggrappa alla speranza, che crede realisticamente e romanticamente in una Porto Rico governata da principi di giustizia sociale, crediamo nell’auto-sostenibilità, nell’arte e nella cultura come strumenti per un possibile cambio, per una resistenza e addirittura una rivoluzione, crediamo nelle donne, nel queer, nel piccolo villaggio e nel quartiere, crediamo di poter essere indipendenti e felici.

Ti definisci un’artivista, puoi spiegarci cosa significa?

Ho preso in prestito questo termine da Mariposa Fernández, una poeta “Nuyorican” (crasi di newyorkino e portoricano) che trasformava l’arte e la cultura in uno strumento di attivismo politico. Nel mio caso io uso la poesia e la narrativa come una piattaforma di lotta e resistenza, per richiamare l’attenzione verso le ingiustizie e i problemi che ci opprimono, per ripensare e immaginare le nostre molteplici realtà. La scrittura è la mia arma, il mio meccanismo di denuncia contro l’ingiustizia che viviamo ogni giorno, il mio grido. Oggi la repressione e la criminalizzazione della protesta sono brutali, e davanti alla violenza possiamo rispondere con la creatività. Credo fermamente che l’arte sia lo strumento più potente nel necessario processo di decolonizzazione della nostra terra.

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