La cinepresa inquadra la porta di una baracca nello slum di Wakaliga, a Kampala; poi Isaac Godfrey Nabwana, come ogni regista che si rispetti, da dietro la macchina grida il fatidico “Action!” e così, dall’ingresso della stamberga, esce un ragazzo che impugna una pistola fatta con colla e cartoncino, sventola una cascata di dreadlocks e fa un salto che evoca un’evoluzione di kung fu. L’attore si lancia sulla rete di un letto a castello posizionato in mezzo alla strada e mentre esegue la prodezza atletica simula con la bocca il suono dell’automatica e improvvisa calci rotanti che disarmano nemici accorsi da ogni lato. Crolla anche l’ultimo avversario e la voce del direttore del film interrompe la sequenza: “Questa è buona, la rifacciamo però per sicurezza”. Tutti di nuovo in posizione e pronti a rigirare la scena di uno dei tantissimi film di Wakaliwood, l’azienda cinematografica nata nello slum di Kampala dalla volontà dello stesso Nabwana, che in soli otto anni ha realizzato più di 40 pellicole d’azione ispirate a Bruce Lee e Chuck Norris, ma prodotte con budget irrisori e vendute porta a porta.
Se il cinema d’Africa è sempre stato associato al nome di Nollywood, l’industria nigeriana con sede a Lagos, ora però nuove realtà cinematografiche stanno prendendo piede nella regione sub sahariana e una di questa è proprio Wakaliwood, una crasi quasi irriverente quella tra Hollywood e Wakaliga: da una parte l’impero dei biglietti verdi, dell’ostentazione del lusso e dell’idolatria dei miti del cinema e dall’altra Wakaliga, una baraccopoli di duemila dannati senza acqua corrente ed elettricità, emarginati nella periferia della capitale dell’Uganda, sospesi tra incognite e assenze. Ma conoscendo bene la storia dell’azienda di cinema africano, il nome Wakaliwood è ben di più che un’associazione di due località agli antipodi del presente e accomunate solo dal fil rouge della macchina da presa. È la storia della rinascita e anche della rivincita di un mondo che, proprio attraverso il cinema, ha fatto dei sogni in cellulosa il proprio sogno per creare un avvenire, anche là dove questo non è mai stato contemplato.
Isaac Godfrey Nabwana, attore, regista e produttore, dopo un’infanzia col mito dei film d’azione, ha deciso di diventare lui stesso l’autore di quel mondo di buoni e cattivi, di scazzottate e sparatorie, in cui c’è sempre un bene che trionfa su un male. E così ha dato vita alla sua azienda cinematografica che, come ha rivelato lui stesso in diverse interviste a emittenti internazionali, ha un suo preciso metodo di funzionamento: “I nostri film vengono realizzati con un budget inferiore ai 200 euro; poi tutti – attori, fonici e membri dello staff – giriamo casa per casa e vendiamo le copie a meno di un dollaro l’una. Di solito vendiamo dalle 600 alle mille copie per ogni produzione, e abbiamo solo sette giorni di tempo perché, dopo una settimana, le copie pirata hanno già invaso Kampala. Ma non importa, noi in questo modo riusciamo ad essere in attivo e a mandare avanti la fabbrica del sogno”.
I set sono i vicoli della baraccopoli: tra canali di scolo e rifiuti prendono vita le scene che poi vengono messe in dvd e distribuite per tutta la capitale. All’interno dello slum hanno sede anche gli uffici di Wakaliwood. Perchè, più che una multinazionale della finzione, la casa di produzione africana è una grande famiglia: oltre al regista e fondatore, gli altri nomi che costituiscono l’anima dell’azienda sono: Dauda Bisaso, attore, meccanico, fabbro e costruttore degli effetti speciali, Alan Hofmanis, statunitense di nascita che dopo aver visto un film su Youtube dal titolo Who Killed Captain Alex?, ha deciso di partire per l’Uganda e dare il suo aiuto diventando coproduttore insieme a Nabwana e attore nel ruolo di broker o del trafficante bianco. Infine c’è Henry “il barbaro”, una delle star e dei volti noti del mondo di Wakaliwood. I film continuano ad essere realizzati senza sosta e poi un proiettore, una volta a settimana, trasmette gratuitamente nelle vie del quartiere le pellicole di Wakaliwood. E così, intorno alla magia del grande schermo, si trovano giovani, bambini, attori, un’intera umanità che ha ritrovato nella finzione il pragmatismo per cambiare la realtà.
Anche 4mila chilometri a nord di Kampala c’è un’altra nuova azienda di film che con la cinepresa prova a regalare allegrie e allegorie, sorrisi e lacrime. Ci prova, perché questa è sì una storia di cinema, ma è anche una storia diversa, la storia dell’Hollywood della sharia, nel nord della Nigeria, nella roccaforte di Boko Haram, dove i film vengono girati e prodotti solo se sono in conformità con i principi islamisti. È il mondo di Kannywood.
Le mura di terracotta e i risciò al posto dei taxi rievocano le vie di Delhi e Karachi, ma nella città nigeriana i risciò sono stati importati per sostituire le moto troppo spesso usate dai ribelli jihadisti; ed anche se i mercati sono semivuoti a causa della guerra del terrore condotta da Boko Haram ed i posti di blocco si incontrano in ogni dove, ciò nonostante ecco si scorgono uomini in jalabia nelle vie del centro, statuari, accanto a lenzuoli su cui sono stese decine di copie di film di Kannywood. Il mondo del cinema nonostante la guerra e gli attentati continua quindi a vivere e trovare nel desiderio di vita della popolazione la linfa con cui partorire nuove storie.
Tutto ebbe inizio negli anni ’90: le pellicole di Bollywood spopolavano nel nord della Nigeria, ma non erano le sole. A contendersi il mercato c’erano anche i film in lingua hausa; film a produzione locale, commedie nate dalle trasmissioni radio e con una trama semplice e immediata, che aveva subito abbracciato e trovato consensi in un’ampia fetta di pubblico.
Poi accadde che a inizio anni ’90, nelle sale di Kano, venne proiettato ”Turmin Danya”, il film capostipite della produzione di Kannywood, che univa la lingua hausa ai modelli di Bollywood. La pellicola scritta da Aminu Hassan Yakasai aprì il percorso di Kannywood, che oggi vanta il 30 per cento della produzione cinematografica nigeriana. Nel 2009, tuttavia, nel nord del Paese si è affermata la setta Boko Haram ed è esplosa una guerra che ha causato in sette anni oltre 20mila morti e più di due milioni di profughi. Il conflitto e lo jihadismo hanno sovvertito la quotidianità in ogni suo aspetto e così anche il mondo del cinema, dopo l’entrata in vigore della Sharia, ha dovuto adeguarsi e assoggettarsi alle leggi islamiche.
Oggi Kannywood produce soprattutto storie d’amore e musical, ma ogni pellicola contiene messaggi espliciti su quelli che devono essere i giusti comportamenti di un buon musulmano, ogni film si chiude con la scritta ”Gloria ad Allah” e non mancano attacchi contro classi dirigenti che predicano la fede, ma si rivelano poi peccatrici nel privato e vivono in netta opposizione con i dettami dell’Islam. Prima di uscire nelle sale le pellicole devono passare diversi controlli di censura e solo quando è stato appurato che tutto è ”halal” allora, solo a quel punto, avviene la distribuzione. I film divengono dei colossal, nelle sale gli applausi accompagnano ogni proiezione; ma poi? Quali sogni generano? Quali pensieri suscitano? Quali desideri scaturiscono negli spettatori? Questo non è dato saperlo, ma è facile supporre che dietro ogni spettacolo puro, poi nascano pensieri impuri, il vero motore del cinema di Kano: il recondito, ciò che la censura non vede e non può afferrare, il vero ingrediente del cinema e della finzione, ciò che permette di far sognare e di evadere da guerra, terrore e imposizioni dello Stato e di Dio.