La vergogna, eib, e il suo superamento, sono il filo conduttore di “Ultimo giro al Guapa”, edizioni e/o, il libro d’esordio di Saleem Haddad, trentatreenne nato in Kuwait da madre tedesco-irachena e padre libanese-palestinese, che racconta attraverso la lente del protagonista Reza, sentimenti, speranze e disillusioni ai tempi della primavera araba; in un paese che in oltre trecento pagine non sarà mai nominato apertamente, seppure alcuni elementi in particolare facciano pensare all’Egitto, sebbene i riferimenti a regimi, sparizioni forzate, torture, negazione di diritti e un crescente divario fra i pochi ricchi dei quartieri occidentali e i tanti poveri dei sobborghi siano applicabili a diverse situazioni e paesi.
La storia di una vita, intima e in qualche modo collettiva, è raccontata narrando gli episodi che accadono nell’arco di trentasei ore circa: la notte, quella ricordata nelle prime righe del romanzo, segna un punto di non ritorno per Reza, giovane interprete alle prese con due rivoluzioni, interiore e di piazza, che viene sorpreso dalla nonna Teta a letto con l’uomo che ama. Fino a questo avvenimento la sua omosessualità è rimasta relegata a due luoghi: la sua stanza e il Guapa, locale underground fra i pochi in città, forse l’unico, dove si possa essere se stessi, e dove si esibisce come drag queen il suo migliore amico Maj, compagno di scuola sin dall’infanzia. Da allora tutto è rimesso in discussione: la relazione con Taymour, che comunque si sposerà il giorno dopo con una ragazza di buona famiglia, rinnegando sé stesso e i suoi sentimenti per omologarsi a come la società lo vuole.
Se Taymour vuole vivere così, recitare la parte che la società pretende da lui, allora chi sono io per dirgli di fare altrimenti? Dovrei torcergli il collo per costringerlo ad andare in una direzione quando lui vuole prenderne un’altra? Se lo facessi non sarei meglio del regime, di Teta o di Hamza. Non è possibile costringere qualcuno a essere libero. I miei obblighi non sono verso il mio amore per lui, ma verso ciò che tale amore rappresenta. I miei obblighi sono verso me stesso. Come due rette parallele che corrono l’una accanto all’altra, io e Taymour potremmo incontrarci solo se uno di noi due si spezzasse.
Reza ha vissuto dalla nascita il contrasto fra una società tradizionale con regole imposte basate sul buon nome e l’accettabilità, rappresentata dalla nonna Teta, autoritaria e ingombrante, e una visione alternativa, libera dagli schemi, incarnata dalla madre, pittrice di strada vicina agli ultimi che alla fine soccombe all’oppressione della suocera, smette di tritare continuamente cipolle per poter piangere liberamente e va via di casa. Ha vissuto la morte del padre, che in vita non era stato in grado di preservare la sua famiglia dalle ingerenze della madre. Ha tentato di esplorare se stesso allontanandosi dal suo paese alla volta degli Stati Uniti, luogo di incontro dei suoi genitori dove si era convinto che avrebbe smesso di interpretare un personaggio, e dove finisce invece a dover giustificare il suo essere arabo, nell’era post 11 settembre (anche in questo caso il riferimento all’attentato delle torri Gemelle è solo intuibile e mai dichiarato).
I ricordi di Reza, i suoi pensieri nell’arco di quella manciata di ore fra lo svelamento del suo segreto e le nozze di Taymour si intrecciano al racconto della situazione politica che peggiora, della stretta del regime sugli oppositori, bollati come terroristi, sull’arresto con pestaggio e umiliazioni subito da Maj e la morte in carcere del figlio di uno dei leader dell’opposizione islamista.
Un terzo del libro è dedicato al racconto della serata delle nozze, che è resa rappresentazione tragicomica: la messa in scena del matrimonio come unica strada percorribile per rientrare nei parametri accettati dalla società, e ricacciarsi dentro aspirazioni e sogni (non solo per lo sposo, che rinnega la sua omosessualità, ma anche per la sposa, Leila, ricercatrice e collega di studi di Reza negli Usa, che abbandona i progetti con le donne rifugiate), si intreccia con i dialoghi al tavolo fra donne e uomini rassegnati davanti ad un destino che sembra inevitabile, quello della rinuncia alla felicità in cambio di una posizione sociale, con l’amara sorpresa per il protagonista di rivedere Hamza, ex bullo ai tempi della scuola ora scagnozzo del regime. Ma nonostante il racconto amaro, crudo, di uno sbando individuale e collettivo, il messaggio dell’autore è che in finale una speranza ci sia, o che quantomeno, non sia più possibile fare finta di nulla. Per Reza come per le società post Primavera.
Per un attimo abbiamo avuto tra le mani l’intero Paese. Ma poi ci siamo tirati indietro. E adesso il potere della strada è stato abbattuto, gli è stato spezzato il cuore. Abbiamo spinto a calci il cadavere della rivoluzione fino al cordolo dei marciapiedi e abbiamo cercato di allontanarci, senza renderci conto che nel farlo avevamo seppellito noi stessi. E dopo che un uomo viene ucciso, e poi un altro e un altro ancora, le morti diventano così tante che una singola vita non importa più a nessuno. Potresti essere anche la regina del Guapa, ma nessuno, tranne tua madre, piangerà sul tuo cadavere. Eppure ci sono sacche di speranza. E la negazione non è più possibile.