Wikipedia lo definisce “critico, scrittore e politico” e la storia del suo impegno militante e della sua attività di docente universitario e autore di antologie e testi di critica e teoria della letteratura lo pone certamente a buon diritto in tutte e tre le categorie. Quello che però ha davvero contraddistinto Romano Luperini dagli esordi, nel ’68, agli ultimi libri (di questi mesi è il nuovo romanzo, La rancura (Mondadori), ancora in stampa quando lo incontriamo) è la piena coincidenza di tutti e tre gli ambiti non solo nella stessa persona ma all’interno della stessa opera: che parli di Verga o di Montale, che presti all’io narrante la propria voce ed esperienza, tutto avviene senza mai disgiungere la consapevolezza metodologica (l’ermeneutica, ovvero la collocazione dei testi entro un tessuto storico e un circolo di interpretazione che dall’autore passa al critico e va verso il lettore) dalla visione politica (il senso della storia e dell’uomo nella sua vicenda di carattere e destino, per dirla con Benjamin) e dalla sua percezione biografica ed emotiva (la scrittura prima memoriale poi via via più romanzesca ne L’uso della vita – 1968, uscito per Transeuropa nel 2013)
Nel suo ultimo libro Tramonto e resistenza della critica, a partire dall’opera di Edward Said ridiscute la figura dell’intellettuale soprattutto in riferimento alla marginalità sociale, che ne sarebbe oggi il tratto dominante. Vuole spiegarci l’ossimoro del concetto di “resistenza” associato a quello di “tramonto” e poi dirci quali sono secondo lei le ragioni di questa perdita di centralità del ruolo dell’intellettuale?
L’intellettuale in Occidente ha perduto funzione e centralità come mediatore ideologico (non necessariamente per conto del potere e delle sue articolazioni sociali, ma anche per conto delle forze di opposizione) quando è stato soppiantato dagli strumenti di comunicazione di massa e soprattutto dalla televisione (negli anni Settanta circa, in Italia). Non c’era più bisogno di lui e di fatto si è dovuto chiudere nella riserva indiana degli apparati educativi, sostituito, negli altri campi, dall’esperto. Al posto di una funzione (storico-antropologica)si è imposto il ruolo, quello tecnico di un esperto dotato di una competenza specifica e specialistica: un ruolo sostanzialmente subordinato. Di questo cambiamento ha risentito la critica. Fra crisi dell’intellettuale e crisi della critica c’è insomma una relazione. Oggi la critica non ha più una funzione sociale perché non ha più una società civile a cui rispondere e che le faccia sponda o eco. Di qui il tramonto del saggio, che è la forma storica di espressione degli intellettuali. Nello stesso tempo è in corso un tentativo della critica letteraria (ma anche di altre discipline umanistiche, come la storia, la filosofia, gli studi del mondo grecolatino) di rinnovarsi adeguandosi all’immaginario contemporaneo e alle sue modalità comunicative (blog, divulgazione, ibridazione del saggio erudito con la narrazione o il giornalismo…). Mentre lo studio accademico ha una circolazione asfittica destinata a pochi studiosi. La critica tenta in tal modo di rinnovarsi e di resistere, cercando nuovi interlocutori. (…)
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