Gli ultimi cinque anni hanno fatto più vittime dei primi venti post Guerra Fredda. E nel 2016 la situazione potrebbe peggiorare. A dirlo è l’International crisis group, un’organizzazione non governativa che dal 1995 si occupa di analisi dei conflitti e che ora ha pubblicato la lista delle dieci, più gravi, situazioni nel mondo: Siria-Iraq, Sud Sudan, Afghanistan, Yemen, ma anche Turchia, Libia, Burundi, il bacino del lago Ciad, il mar cinese meridionale, la Colombia. Secondo gli analisti, la maggior parte dei casi presi in esame coinvolge gruppi armati di estremisti con ideologie e obiettivi difficilmente contenibili attraverso negoziati e colloqui di pace; d’altro canto, come dimostra la Siria, non è ugualmente percorribile un ordine basato solo sulla coercizione. Vediamoli nel dettaglio.
Siria e Iraq
La guerra in Siria continua a rappresentare il conflitto in corso dalle conseguenze più disastrose: per il numero dei morti, degli sfollati, delle violenze che anche durante tutto il 2015 sono state perpetrate dalle forze governative, e dai gruppi armati di opposizione, oltre che dallo Stato Islamico. I vecchi confini non esistono più, il territorio è stato diviso in zone di influenza, dove i civili subiscono assedi, violenze e bombardamenti (gli ultimi in ordine di tempo sono arrivati dalla Russia, scesa in campo al fianco di Assad).
Più di 250 mila persone, per la maggior parte civili, sono state uccise e almeno 11 milioni, circa la metà della popolazione, hanno lasciato la propria casa e si sono spostati, in Siria o fuori dal paese. La crescita dell’Is, che adesso controlla una lunga fetta di territorio fra la parte est della Siria e il nord est dell’Iraq, ha attirato il fuoco aereo di Stati Uniti, Francia, Regno Unito e infine Russia. Ma tuttavia, conclude l’Icg, nessuno ha dimostrato una strategia coerente per sconfiggere Daesh, anzi, spesso hanno operato con obiettivi opposti o sovrapposti sul campo, accusandosi reciprocamente.
Il regime del presidente Bashar al Assad ha continuato ad usare indiscriminatamente i bombardamenti aerei e altri metodi di intervento sommari. Le vittime civili provocate soprattutto nelle aree a maggioranza sunnita, hanno alimentato il ciclo della radicalizzazione, e soffiato sulla fiamma del settarismo che rappresenta terreno fertile per lo Stato Islamico.
A fine anno, il 18 dicembre scorso, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite adottato all’unanimità una risoluzione per chiedere il cessate il fuoco e dare inizio ai negoziati. Un programma – fin troppo ambizioso – di colloqui fra Damasco e opposizioni che consenta di arrivare in sei mesi a un governo di transizione e ad elezioni entro un anno e mezzo. Ma finora il futuro di Assad e le aspettative rispetto a una trattativa con i gruppi di opposizione – quanti e quali – non sono decisamente elementi assodati.
In Iraq intanto, la strategia occidentale di supporto all’offensiva militare contro Daesh dei curdi iracheni, e l’aiuto che arriva direttamente dall’Iran con le milizie sciite, rischia secondo l’International crisis group di alimentare il risentimento degli arabi sunniti nelle aree attualmente sotto il controllo dello Stato Islamico. Il governo del primo ministro Haider al Abadi è sotto pressione: corruzione, fallimento dello stato sociale, scarsa inclusione della comunità sunnita. In questo contesto la riconquista di Ramadi, dove combattenti sunniti hanno appoggiato le truppe governative, potrebbe indicare la strada da seguire.
Turchia
Diyarbakir, ma anche Cizre e le altre città del Kurdistan turco sono tornate ad infiammarsi negli scontri fra il governo turco e il Pkk, Partito dei lavoratori del Kurdistan. Un conflitto interno che dal 1984 ad oggi ha causato più di 30 mila morti. Sono diversi i fattori, analizzati da Icg, che hanno portato all’impennata di violenze dopo lo stop dei colloqui di pace la scorsa estate e la fine del cessate il fuoco del luglio scorso. La guerra siriana è uno di questi. Nel frattempo, oltre agli scontri in Kurdistan, alle violente operazioni di polizia e agli attacchi come quello del 14 gennaio davanti ad un commissariato, la Turchia tutta diventa bersaglio del terrorismo. L’attentato del 13 gennaio ad Istanbul è costato la vita a dieci turisti tedeschi, quello di Ankara del 10 ottobre scorso aveva ucciso 128 persone. Secondo gli analisti, il governo turco e il partito Akp non possono prescindere dalla risoluzione della questione curda, e non solo con operazioni antiterrorismo.
Yemen
Il 25 marzo 2015 una coalizione internazionale a guida saudita ha cominciato a lanciare attacchi aerei contro i gruppi armati sciiti degli houti, innescando un conflitto in una situazione di profonda instabilità. Le milizie di opposizione che hanno preso il controllo della capitale Sana’a e altre pari del paese nel settembre del 2014 si contrappongono ai gruppi armati anti houti insieme a unità dell’esercito fedeli al presidente in esilio Abd Rabbu Mansour Hadi, con il supporto della coalizione internazionale. In dieci mesi sono morte quasi 6 mila persone, due milioni sono state costrette a lasciare le proprie case, altre 120 mila hanno abbandonato il paese.
Il conflitto, dicono gli analisti, minaccia la sicurezza dell’intera Penisola Araba, in particolare della stessa Arabia Saudita, con la crescita del terrorismo. E se gli houti hanno la maggiore responsabilità di aver innescato la guerra, Riyad con il suo intervento ha solo alimentato un’escalation di violenza, con l’intenzione di contenere una deriva sciita nel “vicino”.
Libia
Lo Stato Islamico ha apparentemente consolidato la sua base d’azione intorno a Sirte, sulla costa libica del Mediterraneo, e ha richiamato alla necessità di un intervento della comunità internazionale per mettere fine alla crisi politica che ha lasciato il paese in una condizione disastrosa. Dopo l’intervento Nato e la cacciata di Muammar al Qaddafi nel 2011, un assortimento di partiti politici, clan tribali e milizie hanno iniziato a combattere per il potere e il controllo della nazione più ricca di petrolio e gas. Dalla metà del 2014, il paese viene governato da due fazioni rivali. Il 17 dicembre scorso è stato firmato un accordo a Skhirat per la formazione di un governo di unità nazionale, con la mediazione delle Nazioni Unite. Ma entrambi i parlamenti sono divisi all’interno fra chi è d’accordo con questa soluzione e chi no. E nel frattempo la mancanza di un sistema unitario pesa sull’economia e sui diritti umani.
Migliaia di detenuti restano in prigione senza processo, mentre i rapimenti e le uccisioni mirate dilagano. La Libia è anche il maggiore hub di transito per rifugiati e migranti che cercano di raggiungere l’Europa dal Medio Oriente e dall’Africa. L’incontrollata crescita di armi e combattenti attraverso la Libia ha riacceso i conflitti intorno al Sahel, inclusi quelli in Mali e nel bacino del lago Ciad. Il collasso economico si staglia all’orizzonte se non si arriverà anche ad un accordo sulla produzione del petrolio.
L’accordo recentemente firmato potrebbe essere un inizio per il processo di pace.
Il bacino del lago Ciad
Nigeria, Niger, Chad e Camerun sono sempre più coinvolti dalla minaccia degli jihadisti di Boko Haram. Negli ultimi sei anni, il gruppo si è trasformato da un piccolo fronte di protesta nel nord della Nigeria in una forza capace di organizzare attacchi devastanti nell’area del lago Ciad. La scorsa estate, il Camerun ha vissuto un aumento negli attacchi di Boko Haram, seguito da Niger e Chad, anche se la Nigeria resta l’epicentro del conflitto. Il presidente nigeriano Muhammadu Buhari, che ha assunto il mandato nel maggio del 2015, ha promesso ambiziosamente la fine delle violenze. Ma gli attacchi di Boko Haram, spesso organizzati con attentatori suicidi, non sono cessati, e la risposta violenta delle forze di sicurezza ha acceso ulteriormente il conflitto, in un paese che ha vissuto decenni di politiche corrotte, oltre ad una rapida crescita della popolazione e ad un degrado ambientale che continuano a guidare tensioni sociali e migrazioni.
Sud Sudan
In Sud Sudan gli accordi di pace firmati in agosto dal governo e dal più grande gruppo di opposizione armata, dopo l’intensa mediazione a guida africana, sembrano già al collasso. Nel frattempo, gruppi indipendenti armati fuori dagli accordi stanno proliferando. Le radici del conflitto sono da ricercarsi nella competizione fra le varie fazioni durante i decenni di battaglie per l’indipendenza. Il Sud Sudan ha vinto l’indipendenza dal Sudan, per poi esplodere in una guerra civile nel dicembre 2013, a causa delle divisioni all’interno del Movimento per la liberazione del popolo sudanese. Decine di migliaia di persone hanno cercato rifugio nelle basi delle Nazioni Unite per sfuggire al massacro etnico e alle violenze sessuali. Oggi, quasi 200 mila persone vivono sotto la diretta protezione dell’Onu. Nel corso degli ultimi due anni, gli sfollati sono stati più di 2,4 milioni; decine di migliaia i morti. Un recente report dell’Unione Africana parla di atrocità da entrambe le parti, incluse uccisioni di massa e stupri. Ora, con un incremento del numero di gruppi armati nel paese, che sarebbero almeno 24, non allineati ne col governo né con l’opposizione, la prospettiva di una guerra multipolare è sempre più vicina.
Burundi
Lo scorso aprile, quando il presidente Pierre Nkurunziza ha annunciato l’intenzione di candidarsi per il suo terzo mandato, nonostante la diffusa opposizione, si sono riaccese le tensioni in Burundi. La rielezione di Nkurunziza in luglio, seguita a un fallito tentativo di colpo di stato, ha poi scatenato una stagione di scontri fra le forze governative e i combattenti dell’opposizione armata. L’escalation di violenza fa pensare ad un ritorno al conflitto dopo un decennio di relativa pace. Almeno 300 mila persone sono morte durante i dodici anni di guerra civile in Burundi, finita nel 2005 dopo un ostinato processo di pace sponsorizzato dal presidente della Tanzania Julius Nyerere e da Nelson Mandela. In dicembre, l’Unione Africana e il Consiglio di Sicurezza hanno autorizzato la African prevention and protection mission per fermare la guerra civile e le atrocità di massa. Nkurunziza ha reagito con rabbia e ha esortato a combattere contro le truppe straniere. L’Unione Africana si è messa in comunicazione con il governo e ha chiamato entrambe le parti alla cooperazione per i colloqui di pace. Intanto la situazione umanitaria resta disperata: più di 200 mila persone hanno lasciato il paese, e anche se la crisi è più politica, alcuni leader hanno sfruttato le divisioni etniche. Tutta la regione dei Grandi laghi rischia la destabilizzazione, se salirà il numero di rifugiati che si sposteranno il Rwanda, Tanzania, e Repubblica Democratica del Congo.
Afghanistan
A più di 14 anni dall’intervento americano, i talebani, a dispetto delle divisioni interne, sono ancora una forza sul campo in Afghanistan. Il paese è secondo solo alla Siria per numero di sfollati. La corruzione dilagante e gli abusi di forza delle autorità locali continuano a guidare il supporto agli insorti. Gli Usa hanno dichiarato che manterranno le truppe a 9 mila 800 unità per quasi tutto il 2016, e la missione Nato Resolute support è ancora impegnata a fornire supporto finanziario alle Afghan national security forces fino al 2020. La frammentazione e la proliferazione dei gruppi militanti minacciano la fine della transizione e la conclusione di un processo di pace.
Mare cinese del sud
Il mare cinese del sud rischia di restare teatro delle prove di forza fra Usa e Cina. Le aggressive dichiarazioni cinesi sul controllo delle acque mettono Bejing in rotta di collisione con diverse nazioni asiatiche, in uno dei mari più ricchi, possibile riserva di petrolio e gas. Le tensioni con gli Stati Uniti si sono accese a maggio, quando un aereo americano ha volato fino al Fiery Cross Reef nell’arcipelago Spratly, dove la Cina sta costruendo una pista di atterraggio. In ottobre, una nave da guerra americana ha acceso un’altra disputa sulla competenza territoriale delle isole Spratly.
L’anno scorso il Pentagono ha diffuso un rapporto nel quale ha messo in guardia sui rischi ambientali della costruzione cinese di isole artificiali. Dai satelliti risulta come siano già stati creati 800 ettari di terreno. Obama ha annunciato un pacchetto di aiuti di 259 milioni in due anni per sostenere la “sicurezza marittima” in Vietnam, Indonesia, Filippine e Malaysia, tutti rivali richiedenti della Cina.
Colombia
I colloqui di pace de l’Havana fra governo colombiano e Farc, gruppi armati rivoluzionari, hanno avuto una svolta negli ultimi mesi, e acceso la speranza per la fine di un conflitto armato che dura da 51 anni e che è costato la vita a 220 mila persone. In totale 7,6 milioni di persone sono state riconosciute come vittime di questa guerra. A dicembre, le due parti hanno annunciato un’intesa e il presidente Juan Manuel Santos ha stabilito un’ambiziosa agenda per raggiungere l’accordo finale entro 23 marzo, ma ha respinto per il momento il cessate il fuoco.
photo credit: Annibale Greco
L’immagine in evidenza, che documenta la lotta dei combattenti Yazidi contro postazioni dello Stato Islamico, appartiene al portfolio a firma di Annibale Greco pubblicato su Reportage n. 22.