Amnesty, chi fornisce le armi all’Isis – di Ilaria Romano

La maggior parte delle armi oggi in mano all’Isis proviene dai depositi militari iracheni. A confermarlo è uno studio commissionato da Amnesty international ad Armament research services (Ares), un’organizzazione indipendente formata da esperti in armi e munizioni, che ha visionato centinaia di video e immagini, ascoltato testimonianze, esaminato documenti governativi e report ufficiali per stilare una sorta di inventario delle dotazioni militari di cui dispone Isis. Rispetto ai trasferimenti di armi avvenuti in Iraq in passato, sono stati consultati anche i dati dello Stockholm international peace research institute (Sipri) e i database del Comtrade Un, che confermano una storia di import/export lunga decenni fra Baghdad e oltre trenta paesi del mondo.

Sin dalla sua comparsa in territorio iracheno nel 2006, il gruppo poi autoproclamatosi Stato Islamico ha deliberatamente e sistematicamente preso di mira la popolazione civile, attraverso attentati suicidi in luoghi pubblici ed affollati come moschee e mercati; ha compiuto atti di tortura, esecuzioni sommarie, rapimenti di attivisti e operatori dell’informazione, oltre ad impiegare bambini soldato. Nel primo capitolo del rapporto Taking stock: the arming of Islamic State si ripercorre la storia recente del paese, a partire dal 2003, con l’invasione americana e la caduta di Saddam Hussein: da allora diversi gruppi armati contrapposti, in larga parte sunniti, emergono sulla scena in opposizione alle forze straniere di occupazione e al nuovo governo iracheno. Al Tawhid wa al-Jihad, fondato dal giordano Abu Musaab al-Zarqawi, diventa il gruppo più forte dopo il giuramento di fedeltà ad Al Qaeda, e sarà proprio dopo la morte di al-Zarqawi a seguito di un attacco aereo americano, nel 2006, che Al Qaeda in Iraq si farà chiamare Stato Islamico in Iraq (Isi). Solo nel 2011, con l’inizio della rivoluzione siriana, l’Isi, ora diretto da Abu Bakr al Baghdadi, comincia la sua espansione, sfruttando il filone delle opposizioni ad Assad. Qui al Baghdadi prova a creare un’unica organizzazione attraverso i due paesi ma viene respinto da Jabhat al Nusra (Anf) e al Qaeda, ma il suo Isil, ora Stato Islamico di Iraq e del Levante, si consolida comunque reclutando nuovi combattenti. Nel marzo del 2013 Raqqa è il primo governatorato siriano a cadere nelle mani dei gruppi armati non governativi Anf e Ahrar al Sham. Nelle settimane successive Isil riesce a rimuoverli dal comando e impone il controllo sulla città e sull’intero territorio circostante. In Iraq intanto la politica del presidente Nuri al Maliki per arginare la crescita del movimento armato fallisce e, nel corso del 2014, le forze governative perdono anche Mosul. Dopo la caduta della seconda maggiore città dell’Iraq, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adotta all’unanimità la risoluzione 2170, che prevede misure per ostacolare supporto e finanziamento allo Stato Islamico, compreso il divieto di vendere armi o equipaggiamenti militari, estendendo quanto già stabilito nella risoluzione 2161 per gli affiliati di al Qa’ida.

Le armi

A dispetto delle prese di posizione ufficiali, l’Isis ha continuato, dal 2014 ad oggi, a rifornirsi sfruttando il caos crescente nei due paesi, gli interessi internazionali e lo scarso controllo sulle importazioni. Oggi i combattenti dello Stato Islamico sono in possesso, secondo gli elementi raccolti nel rapporto, di armi leggere, razzi anticarro, mezzi blindati. La maggior parte dei fucili usati sono gli Ak, soprattutto russi e cinesi, già in dotazione dell’esercito iracheno da decenni. Molti dei kalashnikov sono vecchi, anche se è stata registrata la presenza di alcuni Ak-74M più moderni, ritenuti dagli esperti dell’Ares bottino proveniente dai depositi dell’esercito siriano. Sono stati inoltre identificati alcuni M16 americani, oltre a fucili cinesi, croati, belgi e austriaci.

Fra le mitragliatrici, la più diffusa come nella maggior parte dei conflitti è la russa Pkm, anche se il Conflict armament research ha scoperto, dalle immagini diffuse dall’Isis e dalle testimonianze dei curdi che sono riusciti a sottrarle durante i combattimenti, armi analoghe di fabbricazione cinese probabilmente costruite a metà degli anni Ottanta, ma anche ungheresi come il Kgk, tedesche come il Rheinmetall Mg3. Compaiono poi pistole tedesche e italiane, come l’M9 Beretta, in dotazione alle forze armate statunitensi dal 1995; fucili di precisione per tiratori scelti come l’iraniano Sayyad-2 AM50, usati dalle forze irachene, e il cinese Zijiang M99, impiegato nell’area dal Free Syrian Army; cannoni automatici come il russo 2A14, in uso anche fra i Peshmerga e le Kursish protection unit forces in Iraq; anticarro come gli Rpg7 russi o gli RB-M57 jugoslavi, e anticarro teleguidati come il Tow (Tube launched, optically tracked, wire guided) americano; alcuni obici trovati nell’area di Mosul risalirebbero all’epoca della guerra fra Iran e Iraq; sistemi di difesa aerea manuali come gli SA-7 russi, che secondo il Sipri sono stati importati dall’Iraq dopo il 2003.

Gli esperti hanno anche esaminato 1.775 proiettili provenienti dal Kurdistan iracheno e dal nord della Siria fra luglio e agosto 2014, risalendo a colpi prodotti in ventuno Paesi diversi, in particolare Cina, Russia e Stati Uniti. Quelli di fabbricazione americana sono stati sicuramente sottratti ai depositi dell’esercito iracheno, mentre quelli russi potrebbero essere stati rubati dagli stock dell’esercito siriano, dato il ruolo di supporto di Mosca al regime di Damasco. Una piccola parte di proiettili è risultata essere di produzione sudanese.

L’approvvigionamento e la mancata custodia

L’arsenale dell’Isis è stato incrementato da una serie di sequestri avvenuti nelle basi militari in Iraq e Siria, soprattutto a partire dall’inizio del 2014. Nel mese di giugno dello scorso anno, il Consiglio di sicurezza dell’Onu aveva stimato che i veicoli, le armi e le munizioni prese dall’Isis sarebbero state sufficienti per armare ed equipaggiare più di tre divisioni irachene convenzionali, all’incirca fra i 40 e i 50 mila soldati. I depositi si trovavano in particolare ad Anbar e Salah al Din, ma anche a Mosul, Kirkuk e Diyala, e spesso vennero abbandonati dai militari fuggiti all’avanzata dell’Is. Questi carichi di armi sono stati poi spostati e smistati: secondo il Conflict armament research, due settimane dopo la presa di Mosul, dotazioni militari di provenienza americana erano finiti a 500 chilometri di distanza, ad Ayn al Arab (Kobane) in Siria.

Isis ha ottenuto armi anche tramite il commercio illegale. Nella regione i traffici sono aumentati, perché facilitati dalla presenza di numerosi depositi governativi, oltre che da una tradizione di lunga data riguardo al possesso di armi fra civili in entrambi i paesi. Secondo i dati raccolti da Amnesty, le armi sono state comprate da venditori privati ma anche dal Fsa, soprattutto quelle leggere, mentre altre sarebbero entrate in Iraq insieme alle compagnie di sicurezza private durante l’operazione americana, e poi avrebbero comunque preso la strada del mercato nero.

Il 29 maggio scorso, il giornale turco Cumhuriyet aveva pubblicato foto e video di un convoglio di camion noleggiati dalla Turkish national intelligence organization che trasportavano armi ai gruppi di ribelli siriani. Il convoglio fu fermato dagli ufficiali di frontiera turchi e furono trovati mille mortai, mille granate, 80mila mitragliatrici, tutto nascosto sotto del materiale sanitario. Il presidente Erdogan ha sempre negato che i camion contenessero armi, affermando che si trattava di un convoglio che trasportava aiuti alla popolazione siriana. Nel mese di novembre il direttore del giornale è stato condannato per aver divulgato segreti di stato.

La storia

L’armamento dell’Isis è solo l’ultimo capitolo di una lunga storia di proliferazione e diffusione di armi in territorio iracheno. La gran parte di ciò che viene usato oggi in Iraq e Siria, e dunque anche dall’Is, risale al decennio 1980/1990, quando una grande quantità di approvvigionamenti venne richiesta dall’Iraq – e accordata – a tutti i membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, oltre che ad altri Paesi.

Durante la presidenza di Saddam Hussein, dal 1979 al 2003, il regime baahtista condusse una brutale campagna di repressione interna e aggressione esterna. Si stima che 290mila persone siano scomparse dalla fine degli anni Settanta al Duemila. Fra il 1977 e il 1987 le forze di sicurezza del governo presero sistematicamente di mira 5 mila villaggi curdi, li distrussero e forzarono i residenti a trasferirsi nei campi; perpetrarono esecuzioni fuori dalla legge, detenzioni arbitrarie e torture contro esponenti dell’opposizione e ai danni delle comunità curde e sciite.

Centinaia di migliaia di civili vennero uccisi nella guerra con l’Iran, dal 1980 al 1988. Le forze irachene usarono le armi chimiche contro i curdi della città di Halabja nel marzo del 1988, uccidendo almeno 5mila persone. Nel 1987 il Consiglio di sicurezza dell’Onu condannò Iran e Iraq per violazione del diritto internazionale, ma armi e munizioni continuarono a riversarsi nella regione, esportate anche da alcuni membri dello stesso Consiglio.

Storicamente l’Unione Sovietica è stata la maggior fornitrice di dotazioni militari per l’Iraq. Tuttavia Saddam Hussein provò a diversificare le forniture e l’assistenza tecnica dall’estero, e appena un anno dopo la sua ascesa, la guerra con l’Iran ha segnato il passaggio ad un moderno e globale mercato delle armi. Durante gli anni Ottanta, l’Iraq ha risposto a Teheran con la più vasta importazione di armi da tutto il mondo. Più del 12 per cento dell’export globale era diretto in Iraq. I due Paesi insieme rappresentavano la destinazione di un sesto di tutti i trasferimenti mondiali. Almeno 34 paesi aiutavano l’Iraq, fra i quali la Russia, la Francia e la Cina, ma anche il Brasile, la Polonia, la Germania dell’Est, la Bulgaria, la Cecoslovacchia e l’Italia. Ufficialmente neutrale, l’America riforniva l’Iran e supportava l’Iraq attraverso forniture di credito, esportazione di tecnologie informatiche e di comunicazione utilizzabili anche in campo militare, ed offriva supporto logistico attraverso intermediari locali.

Per la Cina e la sua nascente industria bellica, la guerra rappresentò l’elemento di espansione della produzione: negli anni Ottanta più del 60% dell’esportazione di Pechino era diretta a Iran e Iraq. Secondo i dati del Sipri, l’Iraq spese 117 miliardi di dollari in armamenti nel corso di quel decennio, spesso pagando in barili di petrolio. Nel 1984, nel pieno della guerra, l’83 er cento dell’importazione irachena era relativa a beni e servizi militari. L’import diminuì dopo l’invasione del Kuwait nell’agosto del 1990, e il conseguente embargo importo dalle Nazioni Unite, che restò in vigore fino alla caduta di Saddam.

Durante l’occupazione americana dal 2003 al 2011, la migrazione di armi dall’esercito regolare ai gruppi armati è diventata frequente: non solo le forze di sicurezza hanno fallito nel tutelare la sicurezza dei depositi, ma si stima che 400 mila ex soldati usciti dall’esercito di Saddam nel 2003 abbiano tenuto e diffuso nel paese altrettanti fucili, pistole, razzi e altro materiale bellico.

Secondo David Kay, capo degli ispettori delle Nazioni Unite, decine di migliaia di tonnellate di munizioni sono state rubate da carichi di camion. Nel 2003 come parte di quella che fu chiamata guerra al terrore, il dipartimento di Difesa Usa diede nuove autorizzazioni per il trasferimento di armi all’Iraq attraverso l’Iraq relief and reconstruction fund e poi, dal 2004 al 2007, l’Iraq security forces fund. Queste nuove armi non vennero mai inserite nel report annuale sui trasferimenti di armi americane.

Fra il 2004 e il 2011, la missione di addestramento Nato in Iraq ha fornito 115 milioni di dollari di equipaggiamento militare per 5mila militari e 10mila poliziotti. Nel 2007 il governo iracheno annuncia un accordo con la Cina per una fornitura di fucili, pistole, mitragliatrici per 100 milioni di dollari. Nel 2008 firma un contratto con la Serbia da 236 milioni di dollari, e allo stesso tempo continua anche ad ordinare armi agli Usa. In totale, la spesa militare irachena è cresciuta da 614 milioni di dollari nel 2004 a 9,5 miliardi di dollari nel 2014. E, sempre secondo Sipri, più di trenta paesi compresi tutti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ne sono stati fornitori.

 

 

 

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